Non era bello né alto, bene impostato, con un volto dalle mascelle energiche come piacciono a me, invece rotondetto, due occhi neri neri e il sorriso da un orecchio all’altro. Allora ero ricoverata in una grande stanza a sei letti, ma non mi ricordo quale fosse la ragione, forse i postumi dell’embolia polmonare seguita da altre embolie recidivanti a catena. Il ragazzo veniva a trovare una signora che stava in un letto di fronte a me, accanto a lei giaceva una vecchietta che gridava e si lamentava sempre affermando di essere stata tradita: pare che avesse messo non so che firma alla domestica la quale, adesso padrona, scompariva volentieri.
Stavo troppo male per ricordarmi lucidamente tutti gli eventi di quel ricovero, quindi vado a sprazzi. Una mattina entrarono i dottori, uno disse ai colleghi:
< C’è sentore? >, capii che parlava della morte di quella povera vecchia, così avrebbe smesso di dare fastidio a tutti. Mi sembrò indicibilmente triste. Disumano, ed un medico non dovrebbe mai essere disumano o è meglio che faccia un mestiere più adeguato al suo spirito. Tuttavia nemmeno io sopportavo la vecchia,
questo debbo dirlo perché il ruolo della santa non mi si adatta.
L’ospedale è un pianeta a parte. Lì dentro non ero più la professoressa, ma quasi un numero. Ricordo, molto annebbiata, una signora che mi imboccava con la pasta al forno che le avevano portato, o almeno c’era il sugo rosso. E ancora mi andava bene perché ragionavo, potevo chiamare, sapevo esprimermi. Avevo i miei spiccioli se passava quello delle riviste e volevo un giornale oppure una bottiglia d’acqua.
Il fatto di strizzare il tempo delle visite era odioso: mia sorella con i bambini dovevano aspettare che arrivasse il verdetto, certe volte, con sorrisi e lusinghe, riuscivano a sgusciare. Ogni tanto arrivava mio cognato, più abile ad entrare
fuori orario. Mi portava le arance della sua campagna, buonissime.
I parenti e gli amici venivano a trovarmi con la faccia triste e le buone parole ed anche qualche alunno marinava la scuola per presentarsi orgogliosissimo in ospedale.
Le mie quotazioni salirono, e non di poco, quando vennero a trovarmi il mio preside con la moglie, una signora dolcissima, che ancora lo trattava come un fidanzato.
Lui era rimasto vedovo e si erano sposati da poco.
La giornata, in ospedale, si somiglia sempre. Avevo una radiolina con la cuffia, sì, lo so, il computer mi avrebbe salvata, ma ancora non ci pensavo proprio. Poi la sorella e il cognato mi portarono un piccolo televisore, ma una compagna di camera
mi chiedeva sempre di vedere quel programma di Iva Zanicchi
che c’era allora, OK, il prezzo è giusto. Ciò divenne il mio incubo.
E venne il mattino della festa della donna, un otto marzo al quale nessuna di noi pensava anche se ogni tanto guardavamo la libertà fuori dalle finestre.
Entrò lui, dalla porta: il ragazzo, figlio o nipote o non so cosa della mia dirimpettaia, aveva le braccia cariche e rideva allegrissimo.
Portò ad ognuna di noi, anche alla vecchia che gridava sempre e capiva ormai ben poco, un cappuccino con un cornetto per una ed un incantevole mazzetto di mimosa ed anemoni avvolti con fiocchetto nella carta del fioraio, erano freschissimi. Mi ritrovai a piangere nel letto con la tazza in mano, i fiori nell’altra
e il cornetto sul risvolto del lenzuolo.
Non potevo, in quel momento, bere il mio cappuccino che mi piace tanto
né mangiarmi il cornetto, ma per me è stato lo stesso.
Chiesi subito un bicchiere d’acqua e sistemai i fiori.
Nessun estraneo aveva mai avuto per me un gesto d’amore talmente gratuito.
Poco dopo entrò un’infermiera che stridette: < E come, lei ( la vecchia rimbambita
o così credeva ) deve avere i fiori e io no? >.
Andò al comodino della signora, che non dette cenni di comprendere
e le tolse i fiori anche se non tutti.
Si prese quelli che volle ed uscì.
Domenica Luise