
C’era una volta la poetessa Cenerentola, che si preparava per andare al ballo e c’era la fata amica, quando l’incantesimo sembrava che potesse riuscire. All’ultimo momento l’abito di Cenerentola si impigliò in un filo d’erba e la fata dovette rammendarlo con punti pazienti e si perdette tempo e la vita passò. Poi la carrozza partì di carriera, ma subito si ruppe una ruota e il cocchiere dovette aggiustarla, nella notte c’era solo la luce della luna fra le nuvole dell’invisibilità e si perdette altro tempo e altra vita passò. Infine apparve il palazzo, la musica romantica e le luci . Il principe, per noia, aveva iniziato a ballare con la sorellastra più grande, Cenerentola varcò la soglia, egli la guardò e vide che aveva un capello fuori posto. Tuttavia lo colpì: alta, delicata, con la gola palpitante di emozione. Anche l’abito strano lo affascinò, da un lato candido come la neve, dall’altro purpureo come il sangue e lungo alle caviglie. Le scarpette infine, una bianca e l’altra rossa, lo lasciarono, ma solo per un attimo, a bocca aperta perché i principi, logicamente, non debbono stupirsi mai di niente o perderebbero la solennità fintamente amichevole che li contraddistingue.
Cenerentola non era scollacciata né ingioiellata né truccata o con la messa in piega fresca di lacca: si era lavata i capelli fiammeggianti da sola, sotto la fontanella, e li aveva legati con un elastico a coda di cavallo. Sapeva di buono.
Era stata la fata a regalarle l’abito e le scarpette e a dirle che quello era il modo giusto di presentarsi poiché la sua poesia era fatta di acqua, sangue e fuoco. Sempre la fata le aveva messo il capello fuori posto, convinta che la perfezione assoluta non fosse poetica. Cenerentola, alla fine, aveva chiesto una piccola borsa per il fazzoletto, poiché era un po’ raffreddata e così portava una bustina nera a tracolla, segno che la grande poesia è sempre anche desolata, dentro la fata ci aveva messo di tutto: allitterazioni, trasposizioni, onomatopee e quant’altre figure retoriche si possano immaginare, raccomandandole caldamente di usarle con parsimonia o la sua poesia sarebbe ammuffita. Così la borsettina vibrava per il grande agitarsi di tutte quelle figure retoriche, che volevano uscire per fare, appunto, la loro bella figura.
In fondo al salone facevano tappezzeria le poetesse prescelte gli anni prima, tutte invecchiate, alcune rabbiose, altre mute e rassegnate, occhialute per il continuo scrivere al computer, con la pelle vizza e i capelli diradati, modestamente agghindate perchè facevano la fame. Alcune di loro, le più coraggiose, sorridevano con le bocche tese e chiuse affinché non si vedesse che avevano perduto qualche dente qua e là. A Cenerentola, rossa e balbettante dinanzi al principe, tutte costoro sembrarono immagini sfocate nella nuvola dell’invisibilità e quasi non le vide.
Egli ballò con lei e la corteggiò un poco per cortesia regale: < Ho letto le tue poesie, sono belle, potresti pubblicarle a tue spese col nome della mia casa editrice. Poiché non sono perfette, le correggerò personalmente, se avrò tempo, altrimenti c’è il mio segretario, che è bravo, egli cambierà gli aggettivi, gli a capo, il pensiero per esigenze redazionali. Se poi neanche il mio segretario avesse tempo, c’è il suo valletto, che si è preso la terza media con le scuole serali e può correggere lui le tue poesie, che sono veramente belle, molto belle. Dopo passerai tu stessa di casa in casa a vendere il libro, in questo modo guadagneremo entrambi, io molto, tu niente, ma non importa, tanto sei una grande poetessa e non lo fai per soldi. Diventerai famosa >.
Il principe giurò con la mano sul cuore, come fanno i principi, e la stringeva un po’ troppo nel ballare perché la fanciulla gli piaceva non poco e stava pensando come togliersi lo sfizio elegantemente.
A mezzanotte, quando la vita era quasi finita perché era passato troppo tempo, la fata tentò il colpo della scarpetta, ma Cenerentola, fuggendo, vide che l’immensa scalinata del palazzo e i larghissimi sentieri del giardino erano pieni di altre scarpette belle e brutte, di pelle e di plastica, grandi, piccole, minime, stivaletti chiodati, sandali coi tacchi a spillo, ciabattine raffinate e pantofole scalcagnate anche maleodoranti. Il principe intanto aveva ripreso a ballare con le sorellastre, prima con l’una e poi con l’altra, perché avevano i soldi per pubblicare le proprie poesie copiate un pezzetto di qua e un pezzetto di là, sgangherate, lunghe e ripetitive, perfino sgrammaticate e coi congiuntivi sbagliati. E non vedevano l’ora di diventare famose vendendo il libro di casa in casa. Cenerentola fuggì e subito le scappò dal piede una scarpetta, quella bianca della poesia innocente. Avrebbe voluto fermarsi a raccoglierla, per rispetto verso la fata, ma poiché egli l’inseguiva con una schiera di guardie del corpo, continuò a correre saltellando, così perse anche la seconda scarpetta, quella purpurea della poesia insanguinata.
L’elastico che reggeva la coda di cavallo si spezzò ed i suoi capelli sembrarono una lunga fiammata nel vento della corsa, erano il fuoco della poesia, ma non poté perderlo perché faceva parte di lei.
Stracciata, zoppicante, sudata, affannata e triste, non le parve vero di nascondersi nella sua stanza disadorna, riscaldata da un misero camino, unico conforto esteriore.
Aprì la porta e restò sospesa: c’era un bel fuoco scoppiettante e lì davanti risplendevano le due scarpette smarrite che la fata aveva raccolto, lucidato e restituito alla legittima padrona.
Una gioia senza fine le dilatò il petto. Afferrò la penna e il quaderno ed incominciò a scrivere dal titolo:
La ferita della poesia