Alto, naso forte, ma dritto, occhi grandi tipo Omar Sharif da giovanotto, soprattutto espressivi, mascella squadrata e fossetta sulla guancia destra, una sola, mani lunghe e dita da pianista, spalle e corpo asciutto, né smilzo né muscoloso: perfetto, aveva perfino folti capelli neri sempre in balia del vento. Un lieve difetto di balbuzie, come lo chiamava lui, oppure “quando parla non si capisce niente”, come affermava sua moglie, gli aveva sempre impedito di declamare coram populo le proprie poesie, che erano stupende o almeno così gli pareva.
Si era fermato al diploma di ragioniere perché il papà era morto precocemente ed egli si era addossato la mamma e due sorelle piccole ancora alla scuola media o così almeno diceva, in realtà era stata sua madre, andando a casa della gente e facendo i servizi, a mantenerli tutti. Il ragioniere aveva iniziato con lavoretti qua e là, ma era svagato e guardava sempre le donne dalla finestra, così sbagliava i conti sulla calcolatrice, fino a che lo misero al lavoro in uno sgabuzzino buio, che serviva da deposito per le scope e le pratiche segrete dei proprietari, due fratelli avvocati che, per raggiungere una laurea col minimo dei voti, avevano superato i quarant’anni. Uno dei compiti del genio, direi il principale, era di rispondere ai “clienti scelti”, le cui pratiche stavano ammonticchiate sulla sua scrivania, affermando che i guadagni ci sarebbero stati a breve, ma intanto lo studio legale consigliava un ulteriore investimento, che avrebbe portato al cinquecento per cento di introiti annuali sicuri entro il primo anno. Cordiali saluti, in fede, seguiva la firma del genio. Quando le pratiche finivano bisognava girarle senza sovvertire l’ordine e ricominciare con altre lettere e promesse altrettanto mirabolanti. Il lavoro era delicato e difatti nessuno toccava la scrivania del genio: sarebbe bastato un filo di vento a scombinare la coreografia, prova ne sia che lì dentro l’aria non arrivava.
Un altro compito fondamentale del ragioniere era l’intrattenimento dei “clienti scelti”, che avevano pagato e magari non una volta ma, non avendo mai visto gli introiti promessi, venivano a protestare e cercavano gli avvocati. Con tono costernato professionale il genio affermava (e peccato per quella balbuzie…lieve, come si sa) che erano partiti in aereo per qui o lì proprio la sera prima o quella mattina stessa, insomma prima. I suoi problemi scomparivano quando si trattava di signore: inchinava ad angolo retto la schiena e poggiava appena le labbra sulla mano della donna in un bacio impercettibile e di un solo secondo più lungo del necessario. Dopo sollevava il volto e sbatteva le ciglia in faccia alla signora come abbagliato. Non occorreva nemmeno parlare o quasi, così avrebbe balbettato di meno. Dopo di che, quando l’afflusso non si reggeva più, tutta la “ditta” si trasferiva in un altro piccolo paese lì intorno, le vecchie pratiche di coloro che minacciavano denunce erano distrutte e i clienti che ancora ci credevano avvisati del cambio di indirizzo e dei nuovi numeri dei telefonini. Amen.
Al ragioniere toccava una percentuale da tenerlo zitto e intanto lui passava il tempo scrivendo poesie, o almeno così le chiamava, per le quali traeva ispirazione girando di blog in blog, tanto erano tutti poeti ignoti dei quali nessuno sapeva niente. Un verso qui, una parola lì, una metafora da quell’altra parte, magari ogni tanto una parola che gli usciva spontanea o quasi, egli, pur essendo fisicamente monumentale, scompariva in mezzo alle pratiche fra le quali si celava componendo.
Gli editori gli rispondevano che la sua scrittura era farraginosa, sdolcinata, piena di luoghi comuni, senza forma, senza contenuto, senza niente e che la redazione riteneva inopportuno pubblicare un suo libro anche perché, come tutti sanno, la poesia non ha comunque mercato. Egli ridacchiava amaramente leggendo tali giudizi sempre più convinto che fossero invidiosi e gli volessero rubare i testi. Sul suo blog nessuno lo aveva mai commentato, malgrado avesse messo come avatar una fotografia della propria faccia in primo piano perché, com’era ovvio per lui, anche gli altri poeti erano invidiosi. Appena dopo morto lo avrebbero capito tutti e pubblicato e ripubblicato, avrebbero trasmesso il funerale in televisione sulla Rai, un noto attore (chi?) avrebbe letto le sue poesie con sottofondo di pianoforte a gloria imperitura. Intanto continuava a firmare le pratiche, a rassicurare gli incerti telefonicamente, ad accogliere i ribelli a braccia aperte offrendogli il caffè buono del bar perché quello della macchinetta faceva schifo, a mandare gli avvocati nel corno d’Africa, in America, Australia o Cina o dove la testa gli diceva: la destinazione veniva decisa il giorno prima, per non sbagliare l’orario del volo, invece durante le visite dei “clienti scelti” quei due stavano appiattiti nel bagno di servizio.
Quando li ammanettarono piangeva lamentosamente chiedendo il perché, ma smise subito appena quello che comandava, con occhi saettanti, cavò fuori dal gran mucchio delle pratiche il malloppo delle poesie, lesse, lo guardò e disse: <Che cos’è questo schifo?>.
Domenica Luise
Eva, distesa sul divano e col giornale sparso sulla pancia, a furia di fare finta di dormire per ascoltare i discorsi di suo marito col figlio si era addormentata davvero.
<Zitto Pipò, non svegliare la mamma o si arrabbia> fece lui a voce bassa strofinando il tegame incrostato dal sugo del ragù domenicale. Pipò guardò la mamma, che era corrucciata anche nel dormire.
<Poi si mette a rovistare in tutti gli stipetti e i cassetti della cucina per attaccare briga, una scusa la trova> continuò lui imitandola con una mano sul fianco:
<Ecco, la pasta ha fatto gli animaletti, sei tu che non la consumi, sta lì iniziata da un anno>.
<Ma guarda quanta polvere qua sotto, non ci pulisci mai?>.
<Possibile che io ti debba sempre dire tutto? E metti il coperchio su quella maledetta pentola, perché dobbiamo sprecare tutto questo gas, poi dici che arrivano le fatture>.
Il signor Caio ammiccò al figlio, che pure lui si mise una mano sul fianco e continuò l’imitazione:
<Pipò, sparecchia. E stai seduto in cucina mentre papà lava i piatti, asciugali uno per uno e guai a te se li rompi. Dopo asciuga le posate, lo straccio deve passare tra i rebbi delle forchette. Non si chiamano denti, ma rebbi, quante volte te lo debbo dire>.
Pipò aveva sei anni ed era un attore nato. Risero insieme, Eva si girò nel sonno, il giornale cadde a terra e lei si svegliò. Marito e figlio si precipitarono, insieme, a raccogliere il quotidiano e a metterglielo delicatamente accanto.
<Accidenti, ma non hai ancora fatto il caffè? > bofonchiò con gli occhi semichiusi. Il signor Caio ingoiò il resto della risata e si affrettò ad accendere il gas sotto la macchinetta già caricata. Eva si girò verso il muro. Era soddisfatta, marito e figlio, quella mattina, le avevano portato la colazione a letto con un gran fascio di mimose e rose rosse, adesso Caio, sbrigata la pulizia della cucina, sarebbe andato a farsi la solita partita settimanale a scopone con Tizio, Sempronio e Smith, altri tre esseri a lui molto simili come personalità, e lei si sarebbe goduta tutto un pomeriggio con sua madre, ma appena lui sarebbe tornato l’avrebbe rimproverato per qualcosa:
perché aveva fatto tardi;
perché l’alito gli sapeva di liquore;
perché aveva portato in casa quella terribile puzza di sigaretta;
perché aveva perduto tempo;
perché era tornato troppo presto e lei non era ancora pronta;
perché mancavano i soldi: questo era l’argomento jolly, che andava bene in tutte le circostanze.
<Pipò, smettila di mangiare tutte quelle patatine> pontificò Eva dopo un minuto sentendogli fare cric croc. Pipò interruppe la masticazione di colpo, ormai era convinto che la mamma avesse un paio di occhi supplementari pure sulla schiena, sapeva sempre tutto.
Come sempre l’avevano svegliata. E dire che poteva vivere libera, di maschio in maschio, come facevano tutte le sue amiche, tranne una che proprio sembrava innamorata del marito, nemmeno gli pigliava lo stipendio né lo fustigava se alzava l’occhio su qualche altra donna, non gli chiudeva la televisione per castigo, qualche volta, addirittura, cucinava per lui e non le veniva il mal di testa quasi mai.
Domenica Luise