Sì, ci credo

 
"È inevitabile che avvengano scandali, ma guai a colui per cui avvengono.
 È meglio per lui che gli sia messa al collo una pietra da mulino e venga
 gettato nel mare, piuttosto che scandalizzare uno di questi piccoli.
 State attenti a voi stessi!"
Parole di Gesù, Luca, 17,1.
Riportate anche in Matteo, 18,6.
 

Credo nella chiesa una, santa, cattolica e apostolica.
Credo nella chiesa una, NON credo nella chiesa divisa, che litiga, briga, cerca alleanze con mammona e adora, a propria volta, il dio denaro al posto di Dio.
Credo nella chiesa santa, ma NON credo nella chiesa peccatrice, nei preti pedofili, nelle suore crudeli, in tutta la gente di chiesa superba e prevaricatrice, che minaccia l'inferno ai lavoratori e intanto impigrisce lasciandosi lautamente mantenere e servire gratis in nome di Dio.
Credo nella chiesa cattolica, cioè universalmente amante dell'altro, senza distinzioni di ceto, di idee politiche e di scelte umane o tanto meno religiose. NON credo nella chiesa che ama il suo gregge come una setta favorendo le proprie creature anche se non valgono niente.
E credo in una chiesa apostolica, che testimonia Cristo con l'amore universale (universale = cattolico) , ma NON credo né crederò mai in una chiesa che difenda la propria teologia con la prepotenza e il trionfalismo perché in nome di un Dio vero si può parlare e si è ascoltati soltanto quando ci si accosta al prossimo con la più profonda umiltà.

 

                                               Domenica Luise

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Il tempo, il silenzio e la limpidezza


Per la poesia ci vogliono tempo e silenzio sia per scriverla che
per leggerla perché soltanto così le anime profonde dell'umanità
entrano in contatto. Non può calare in fretta fra il bavaglino
a uncinetto e il ragù che deve stringere tre ore a fuoco lento girando
spesso. Le improvvisazioni non funzionano se non entro una
gradevolezza mediocre, che ricalca questo o quell'altro autore
di cui abbiamo letto qualcosa per caso.
Allora crediamo di essere poeti perché scriviamo andando a capo
quando ci pare e magari la mamma oppure l'innamorato ci hanno fatto
l'applauso e abbiamo declamato i nostri versi ai matrimoni e
al battesimo e tutti sono stati lusingati di essere nominati
a rima baciata.  Non funziona così.
Non ci vuole minor travaglio perché il risultato è breve.
Quelle poche parole sono il compendio di tutta la nostra vita
immersa nella storia degli altri intorno a noi. Invece, purtroppo,
molti sono i poeti di corsa e questo inevitabilmente si sente.
Se la pianta è mal nutrita il frutto è stenterello ed ecco allora le
poesie costruite a viva forza, che stridono ad un orecchio abituato.
L'altro inganno è il tecnicismo stilistico, i versi reboanti, alla Vincenzo
Monti, che ha fatto abbondantemente il suo tempo nel milleottocento,
durante il neoclassicismo, traducendo in maniera inguardabile e
inudibile l'Iliade e il suo collega, Ippolito Pindemonte, che si è occupato
di fare lo stesso servizio all'Odissea, sfasciando entrambi
la divina semplicità espressiva di Omero.
L'altro ieri mia nipote Mariachiara ha provato un abito da sera
rosso lungo, era bellissima perché il modello esaltava la sua figura
senza essere soffocato dagli ornamenti.
Viceversa le poesie anoressiche, telegrafiche, disfatte dal lungo digiuno:
niente articoli, niente aggettivi, niente punteggiatura, niente  o quasi
niente di niente. Allora come bisogna fare per l'armonia necessaria?
Questo lo deve sapere il poeta perché non si può insegnare.
Se avete bisogno che qualcuno ve lo spieghi, pensateci bene: forse
non siete poeti, amate soltanto la poesia, il che comunque non è poco.
A furia di deliziarvi nella poesia altrui forse scoccherà una scintilla
vostra vera, allora vi si aprirà dinanzi alla mente un regno delle
meraviglie, dove potrete aggirarvi sempre più liberamente e trarre
quasi senza fatica ora questo ed ora quel pensiero.
Il risultato poetico finale deve essere limpido, ma non nel senso di
immediatamente comprensibile a chiunque legga una poesia una volta
nella vita.
È proprio della poesia moderna mantenere il mistero umano
nelle proprie parole, che quindi appaiono ermetiche, ossia chiuse,
ed effettivamente lo sono.
Fate finta che quell'incomprensibilità sia un punto inaccessibile
del giardino interiore, dove sono affastellate spine e fiori
che nessuno sa, nemmeno l'autore.
Da lì emergono tracce: qualche odore rapido di terra, di erba e
comunque di vita.
Il poeta afferra questi barlumi in parole e le esprime con piena
semplicità. Segue il gusto della propria anima e si piace
nel dirsi: questa è limpidezza del sè profondo a cui corrisponde
la fluidità sintattica dello scritto.
I contorsionismi della forma, le esagerazioni, la super aggettivazione
e i continui riferimenti dotti non sono poesia in sè, possono
diventarlo se fatti decantare e liberare.
Come si fa dovete saperlo voi.
 
                                                   Domenica Luise


 

Pensiero mimmiano n° 19

Maschere 1

Viviamo in una società inaccettabile, dove i delinquenti
vengono assistiti, i  lavoratori sfruttati all'osso
e le formiche preparano la mensa ai leoni.

                                               Domenica Luise

                                                        (Quadro a olio di Domenica Luise,
                                                                   pittura su tela 70 per 50)

 

Fortunello

 

Morte e Vita erano sorelle, anche se di opinioni diametralmente opposte.
Passavano il tempo duellando l’una con la falce e l’altra con un fiore di
qualunque tipo. Pare impossibile che Morte dovesse fare tanta fatica per
troncarlo, ma il problema era che quel fiore si moltiplicava subito.
Si arrabbiava poi moltissimo quando Vita glielo scuoteva sul teschio, specialmente le davano fastidio i gelsomini, che le cadevano tutti nelle orbite.
Affannata per l’ennesimo colpo andato a vuoto, la Morte si distrasse  pensando
che doveva affilare la falce ed in quell’attimo un uomo che veniva al mondo,
uno solo nel tempo e nella storia, visse senza mai conoscere malattia fisica
né sofferenza dell’anima. Tutto gli andò bene fin dalla culla. Il giorno stesso
del parto suo padre, un povero disoccupato, vinse al totocalcio. Fu così che
gli comprarono il corredino e lo chiamarono Fortunello.
Fu subito evidente, tuttavia, che portava fortuna soltanto a se stesso.
Non avendo mai provato dolore di alcun genere, non capiva gli altri  e pensava
che facessero “ smorfie per mettersi al centro dell’attenzione “, come spesso ripeteva senza peli sulla lingua. Sua madre, per esempio, aveva sempre mal
di pancia e pesantezza alle gambe con le vene varicose; suo padre,
al tempo della fioritura delle fave, pigliava il raffreddore allergico
tutti gli anni; la sorella maggiore, ogni poco, aveva dolore al fianco destro;
il più piccolino, di tre mesi, era delicato di stomaco, rigurgitava il latte
e puzzava sempre di acido e di borotalco. Che schifo. Perfino il nonno
sosteneva che non ci vedeva per le cataratte.
Fortunello non nascondeva il proprio disgusto né l’incredulità. Aveva notato
che anche il resto degli esseri umani si lamentava sempre come quelli della sua famiglia. Doveva essere un rituale. Quanto a lui, crepava di salute ed era bello
da togliere il fiato. A venti anni si sposò con una ragazza rubiconda, dopo una scelta selezionatissima per cercarsi la più robusta. Restò molto sorpreso che
anche lei strillasse per partorire come tutte le altre  e, per castigarla, non le
portò neanche un fiore raccolto sulle siepi di pitosforo del giardino pubblico
dove era andato a smaltire la rabbia perché gli era nata una femmina invece
del maschio. L’anno seguente altra femmina, due anni dopo tris. Quattro
femmine in casa, moglie compresa, tutte che si ammalavano scrupolosamente.
<Ne hanno preso da te > diceva alla moglie.
< Sei tu anormale > ritorceva lei. Il che era vero, ma Fortunello non se ne
rendeva conto.
A quarant’anni era asciutto, sodo e senza una ruga. Tutte si innamoravano di lui.
Era diventato segretario di fiducia del dirigente.
La moglie e le figlie invecchiarono, Fortunello no. Era diventato dirigente.
A ottant’anni saliva e, soprattutto, scendeva gli scalini a tre a tre. Dopo
essere diventato dirigente dei dirigenti, con rammarico, l’avevano dovuto
mettere in pensione per raggiunti e sorpassati limiti d’età.
La moglie morì e lui non sparse una lacrima. Non era colpa sua, non sapeva
come si fa.
Le figlie avevano tutti i capelli bianchi, lui no. A cent’anni si divertiva  a farsi cinque chilometri di footing al giorno per le campagne, naturalmente cinque ad andare e cinque a venire.
Le figlie si ammalarono e morirono, lui non sparse una lacrima neanche stavolta, né si sentì solo né niente.
La Morte, quando liquidò la figlia più piccola, casualmente si accorse di quel
baldo giovine, che stava distratto al funerale e sembrava tanto annoiato.
< Ma quello chi è? > chiese alla Vita.
< E’ il padre > rispose Vita.
Morte si infuriò : < E quanti anni ha? >
< Cento e due > ammiccò Vita, contentissima per avergliela fatta.
< Perché non sono stata avvertita > gridò Morte, diede un gran colpo di falce
e Fortunello subito si ammalò.
<Ora capisco, ora capisco > diceva a tutti con gli occhi bagnati di lacrime e un filo di voce.
< Poverino, vaneggia > mormorava la gente, < a quell’età > .
< Così, da un giorno all’altro… >
< Siamo tutti sotto lo stesso cielo >.
< Ma almeno si è confessato? >
< Certo, con grande pentimento > .
Fortunello giaceva semimorto, in attesa della falciata finale. Le lacrime continuavano a scorrere nel suo viso ancora senza rughe, soltanto un po’ più pallido del normale.
< Ora capisco, ora capisco…>
Chiuse gli occhi e sentì, finalmente, la compassione per tutti quelli che
soffrivano come lui, ripensò, in un attimo, ai suoi genitori, ai fratelli, al nonno
con le cataratte, a sua moglie e alle figlie. Sembrava che il petto gli
scoppiasse d’amore.
< Ora capisco, ora capisco > mormorò, < ora sono felice > .


                                                                    Domenica Luise
 

 

La perdita dell’innocenza

Il bambino e la bambina

Così l'aquilone è scappato via dalla mano
del bambino sul prato e il gatto nero
ha smesso di seguire la padroncina
ronfando, l'aria azzurra
si è macchiata di cancro.
 
Ecco perché. I mangiatori di soldi
una cosa dicono, una cosa pensano
e una cosa fanno, paludati di potere
e frange sotto i fiocchi
imbiancati.
 
Le femmine, tacchi
seni e labbra al silicone, i maschi
pillole delle perfette prestazioni
per bere insieme alla coppa del piacere
o dispiacere che sia. Il bambino e la bambina
ridono maliziosi crudeli
tristi. Ma la notte
il cielo si avvicina.
 
E si lascia respirare da chi lo vuole.
 
 
                                                                      Domenica Luise
                                           (Disegno eseguito al computer da Domenica Luise)


 

Non soltanto patate

La colomba sul seno

(Bollite? A frittata oppure al forno?)
sbucciarle mi distende,
arriva sempre l’onda poetica: ho l’universo
come una pietruzza nel palmo della mano
mentre con l’altra lo proteggo. Ed è
un figlio appena nato
frignante e scoppiettante
vivo.  Simultaneamente
ne sono contenuta, gestita,
partorita e nutrita. In delizia.
 
Chi è un verme con due occhi? Non io,
non io. Amata
dalla vita totale
come se ne fossi l’unico germoglio
in presente, passato e futuro. Filtro
poroso
alla vittoria (sul tormento umano
oppure sugli altri vermi?).
 
E non saprei creare una patata
né farla venire fuori per evoluzione
da chissà che
spuntato misteriosamente
in migliaia (o milioni?) di anni
strani. Le sbuccio,
le cucino e le mangiamo: sono buone di sale?
Io ne metterei un altro pizzico (e qual è
l’origine profonda del sale,
il primo input?).
 
Lascio che gli altri (alcuni?
pochi? tanti?)
ridano
delle domande inesauribili
scarnificando i tuberi e me stessa.

                                                           Domenica Luise
                            (Quadro di Domenica Luise, pittura su tela, 70 per 50)

 

Artificio e arte


 
Per artificio intendo un qualcosa di composto volutamente, razionalizzato ad un effetto da ottenere forzatamente, nel caso della poesia il mezzo è la parola e la tendenza è trasformarla a tal punto da perdere o quasi il contatto tra forma e contenuto. Insomma, la poesia diventa un quadro astratto, strano e inconsueto. Qualsiasi cosa già detta provoca lo sbadiglio, la tecnologia corre e incalza, non ho ancora finito di capire come funziona windows XP che già mi trovo su seven ultimate. Mah. Le parole diventano scarne, essenziali, anche giocose come se un grande riso sarcastico sovrastasse sull'umanità e sulla storia.
I ragazzi, naturalmente, eccedono e gli ignoranti pure. I primi hanno inventato, per fare presto coi telefonini, un linguaggio rebus abbreviato, nel quale gli ignoranti esultano ridendo delle antiche regole grammaticali e sintattiche. Una volta ho pubblicato un racconto su una rivista cattolica di Milano, che poi ha chiuso, l'altro ieri per caso ho ritrovato una delle mie novelle, l'ho riletta e ho visto che mi avevano corretto il sì affermazione, che quindi vuole l'accento, col si particella pronominale. E dovevate sentire come facevano i professori di italiano. Ora conoscere grammatica e sintassi è il minimo, se uno sa di essere ignorante si istruisce. Le regole dello scrivere permangono anche nella prosa in libertà,
faccio quello che voglio, ma non sgrammaticando, i verbi sono sottintesi,
tuttavia ci sono e come.
Fatta questa premessa necessaria, l'artificio può ingannare i sempliciotti, ma
per un poeta autentico è facilissimo smascherarlo, si percepisce subito.
L'artificio è il deterioramento caricato dell'arte, che è la parola denudata
dagli orpelli ed usa una semplicità apparente per dirsi con efficacia.
La semplicità non è mai semplicistica, del genere: "stamattina mi sono svegliato
(e ti credo, tutti ci svegliamo tranne i morti), ho mangiato (idem: tutti facciamo colazione, a parte qualche caso estremo), mi sono lavato… e via di questo passo. Avevo alcuni alunni che, nelle classi inferiori, incominciavano così il tema.
Oppure peggio: "Da quando Dio creò il mondo", e avanti balzando sulle
ere e sui millenni.
L'arte si purifica dell'artificio del quale, per necessità, deve servirsi o le parole delle poesie svaporerebbero senza incidere. Allora soltanto l'artificio, la cultura, la conoscenza della poesia altrui non pesano sulla nostra poesia, che ha messo ali grandi e sicure, rigorosamente personali.
L'artificio è necessario, ma se diventa predominante  uccide l'arte per soffocamento.
Il nuovo  è bello, il nuovo a tutti i costi non è nulla.
La parola che scrivo mi deve piacere come un fidanzato o non è nulla.
Quello che intuisco mi deve sedurre o non è nulla.
Noi diventiamo dei parolai se attribuiamo una significazione assoluta alla parola in sè e per sè, peggio se da ciò caschiamo nell'estetismo.
La parola è per la vita e non viceversa o l'artificio svela se stesso per quello che è: un vuoto mentale umano.
L'ultimo gradino della poesia è l'innocenza creativa, che è tutt'altro della composizione: un'ispirazione propria, alla quale abbandonarsi, qualcosa di pieno, che urge dall'interno, scaturisce e dilaga senza potersi trattenere, una passione assorbente. Il poeta è l'uomo ferito dalla storia universale e dalla propria storia personale, di cui prende continuamente coscienza. Tocca il midollo dell'essenza umana in sè e negli altri, ne gode e ne soffre, gioca ed ama, accumula emozioni e le trasmette servendosi di simboli: le parole, appunto, ed ognuna di esse è un frutto, vita della sua vita e della storia umana totale.
Il passaggio dal poeta, che ha la gnosi e l'annuncia al volgo ignorante, all'uomo
che viene dal mistero al quale torna senza sapere perché, è una crescita dall'adolescenza all'età adulta. Non avviene senza errori labirintici dentro
la propria psiche come nel proprio corpo. Dopo c'è la semplicità espressiva dell'animo pacificato, dove è deposto ogni compiacimento della propria cultura
o decorazione letteraria ed infine l'innocenza creativa, che è la poesia amata
e donata in sè e per sè.

 
                                                                        Domenica Luise