più che se avessimo chiacchierato
come fidanzati tu ed io, io e te
in promessa di nozze.
Adesso cadono gli ultimi granelli e non sono
triste, tutti vorremmo
lasciare qualcuno o almeno qualcosa: un figlio
un amico, una poesia. Non la solita donna esemplare
di specchiata virtù e molta stupidità.
Questo volersi agganciare in qualche modo
sia pure instabile e intravedersi (piangeranno. Alcuni
dovranno venire per convenienza, peggio
per loro) è l’ultimo abbandono
non sanno niente di me, non hanno oltrepassato
quasi mai la soglia d’ingresso, ma talora
sono stati gentili, anche affettuosi
e ci siamo rispettati, perfino amati
e consolati.
Il nostro anello è rimasto segreto (adesso
ti sussurro le mie parole finali, la chiusa
di questa poesia e dopo
stupirò come nuova nella tua compassione).
Domenica Luise
La poesia di Domenica Luise si pone al lettore attraverso una forma dialogica di grande impatto, come in Fu un anello invisibile, in cui l’interlocutore è qualcuno “in alto” a cui ci si rivolge con naturalezza e sincerità. Poesia che si fa ascesi, passaggio dalle pastoie che ci frenano a uno stato di leggerezza; estatica ma da prospettive terrene, un attaccamento alla vita espresso con la gioia e l’incanto dello sguardo del bambino che è in noi.
Il componimento fa parte della raccolta La Versione di Giuseppe – Poeti per don Tonino Bello (2011), e a Giuseppe sembra rivolgersi, fin dall’incipit, l’io poetante: più che se avessimo chiacchierato/ come fidanzati tu ed io, io e te/ in promessa di nozze/. Il registro ricorda il dialogo fatto di silenzi di don Tonino e Giuseppe. Dal rapporto padre/figlio (Giuseppe/don Tonino) si passa a una visione femminile, di sposa che si confida con lo sposo (sappiamo dal testo di don Tonino che Maria non è lontana). La bellezza di questi versi è nel capire il dramma di Giuseppe, nel farne una verità di tutti “…tutti vorremmo/lasciare qualcuno o almeno qualcosa: un figlio/un amico, una poesia…/
Verità che rappresenta un vissuto comune, in cui la poesia si fa non solo medium del nostro sentire ma diventa protagonista stessa del dialogo, quasi a sussurrare ciò che viene lasciato fuori o non riusciamo a cogliere. Caratteristica importante, infatti, di Domenica Luise è la consapevolezza raffinata e intrisa di ironia metapoetica della ricchezza dei “segni”, senza per questo sacrificare la limpidezza dello stile e del dettato.
Abele Longo
PS di Domenica Luise: Quando ho presentato i diversi autori dell’antologia La versione di Giuseppe, arrivata al mio nome e alle mie poesie mi ero saltata, ma Abele, l’organizzatore di tutto, ha pensato bene di commentarmi lui affinché non restassi fuori: lo ringrazio di tanta delicatezza.
Esiste un piccolo suono
rimasto a danzare nel tempo
mai del tutto compiuto, eco d’intento
cornice del senso già innalzato nel gesto
di un sole che vive, nutre il silenzio.
“Un giorno lo versarono a spicchi”
dolce, teporoso, profumava d’infinito
regalava messi di risposte
le speranze raccolte tra i papaveri bianchi
il colore smarrito accarezzato _/ _/ _/ _/ _/
_/ _/ _/ _/ _/ _/ come i tasti di un’armonica
C’è un piccolo dono per la festa nei campi
forse un nome da stella, senza ciuffo ribelle
La poesia di Doris è dedicata a don Tonino Bello, sacerdote di Gesù. La poetessa non lo conosceva, si è documentata (tutti noi, che abbiamo partecipato al libro La versione di Giuseppe, lo abbiamo fatto) leggendo un suo scritto (La carezza di Dio – lettera a Giuseppe), ma ha anche ascoltato alcune sue omelie conservate su filmati e ne ha osservato i gesti e come innalzava l’ostensorio. Ne è stata toccata per la profondità e la semplicità espressive e per l’amore con cui trattava il pane consacrato. Io dico sempre che l’amore, quando c’è, si vede e quando non c’è si vede pure, negli scritti di don Tonino Bello Doris l’ha visto e, per lui, ha scritto questa poesia, una sola, ma ha sentito il bisogno di spiegarla, nello stesso libro, aprendo i suoi sentimenti.
Conosco la poesia di Doris e so quanto sia criptica, invece questa, per mezzo della sua stessa spiegazione, che per me è un’espansione ammirata dell’anima, è semplicissima per qualsiasi lettore anche non tanto a dentro nei segreti della poesia moderna.
Don Tonino, per Doris, è “un piccolo suono rimasto a danzare nel tempo mai del tutto compiuto” e si capisce perché: la coscienza della propria piccolezza è la massima grandezza che l’uomo possa attingere. E questa piccolezza grande rimane a danzare in un tempo mai del tutto compiuto per mezzo degli scritti che don Tonino ha lasciato dietro di sè, che continuano ad accarezzare e amare i suoi lettori.
Egli sapeva aprire il suo cuore e toccare chiunque lo avvicinasse non distrattamente.
Le parole dei suoi scritti non ne permetteranno la dimenticanza e il tempo non sarà mai del tutto compiuto. Appunto.
Di lui rimane l’eco e il gesto di quando innalzava l’ostensorio, sole che vive e nutre il silenzio.
Un giorno anch’egli, con la sofferenza e la morte, fu versato a spicchi e divenne ostia.
Egli fu dolcezza e tepore, profumo d’infinito e regalava alle eterne domande umane, così grandi, “messi di risposte” ancora più grandi in parole e fatti, accogliendo i poveri e gli abbandonati (i papaveri bianchi).
Quei papaveri bianchi, per lui che suonava l’armonica, erano come i tasti amati e la poetessa sente il bisogno di rappresentarli anche graficamente dentro la poesia, nel tentativo di stigmatizzare meglio il concetto dell’armonia che don Tonino Bello, strano nome da rock star, seppe spiritualmente suscitare e lasciare a noi. Gli manca soltanto “il ciuffo ribelle”, ma egli è comunque una STELLA.
Domenica Luise
Miei cari amici, stamattina mi è venuto il pensiero di fare un link sul mio blog alla presentazione di alcune mie poesie sul Giardino dei poeti di Cristina Bove. La presentazione è di Flavia Isetta, risale ad ottobre dell’anno scorso e ci sono alcuni commenti di valore che preferisco tenermi sotto gli occhi per rileggerli quando mi piace, ho pensato di pubblicarvi il link qui sotto qualora vogliate andarci:
http://giardinodeipoeti.wordpress.com/2012/09/14/domenica-luise/#comments
Schiavi con la sportula
in viaggio mattina e sera
verso la casa del patrono
a pigliare pane in faccia
per famiglia e famigliari.
A raccoglier pane come all’epoca
orribile della statale galera,
la scuola che è carcere immeritato
dove si accede senza alcun merito compiuto
d’una azione che si possa dire tale.
Di quel pane un poco sbocconcelliamo
tornando mesti e affaticati
con la nostra sportula
e forse era meglio essere schiavi antichi
nati
dentro la casa o comprati piccini
che più lavoravano tra le quattro mura
meno dovevano uscire per commissioni
e liberati, con gesto gentile,
facevano fruttare i loro guadagni.
E forse meglio, clienti diventati,
da casa nostra a casa del patrono
con la sportula, sì, ma destinati
ad un appoggio meno in catene,
alla infamia meno conclamata.
Invece di essersi evoluto
l’impero è caduto
e come quando cade ogni cosa
si mischiano e si uniscono
e questi e quelli,
per lasciarci a faticare
nei nostri viaggi quotidiani
lontano dalle case,
lontani da dove si dice che si vive,
in balia del mondo
trasciniamo trascinati
schiavi con la sportula
dal giorno in cui si è nati.
La sportula è il paniere della spesa dove i poveri tengono il pane. In tutta la poesia c’è un pessimismo di vita appena temperato dall’accenno alla schiavitù antica, quando gli schiavi “liberati con gesto gentile facevano fruttare i loro guadagni”.
Per il resto, gli schiavi siamo noi, sotto il piede di un non bene identificato “patrono”, verso la cui casa affannosamente viaggiamo “a pigliare pane in faccia”, quel pane di cui abbiamo disperato bisogno per noi e per la nostra famiglia.
E la scuola, nei versi di Sabino, diventa “statale galera, carcere immeritato”: talora, nelle menti degli allievi, in mezzo al grigiore indifferenziato, emerge il ricordo di un insegnante che fu umano con loro, perfino sorridente, anche buono. Qui no: il vuoto completo. Viene da pensare alla disumanità che i prepotenti e i superbi usano gustosamente contro i più deboli, ancora più miserabili degli schiavi romani. Abbiamo soltanto quella sportula e un po’ di pane, una sopravvivenza stenterella che farebbe compassione ai sassi, ma non al “patrono”.
Così il destino umano è di restare “lontano dalle case, lontani da dove si dice che si vive, in balia del mondo”, vuol dire: lontano da dove tutti si illudano che si viva, ma la vita, gli affetti, l’amore sono lussi inattingibili ai poveracci. Così “trasciniamo trascinati”.
Per un po’ di pane.
E trascinati da cosa?
Preoccupazioni, necessità, ingiustizie, falsità che nella poesia restano inespresse e tanto più opprimenti.
Il linguaggio è assolutamente privo di decori o artifici, anch’esso in nuda povertà corrispondente all’uomo.
Domenica Luise
Se volete, su Neobar Abele ha pubblicato una mia favola metaforica e giocosa della quale vi metto il link:
http://neobar.wordpress.com/2013/01/26/domenica-luise-gelosie-di-artisti/#comments
mano
che raccoglie il tempo
lo dedica lo stiva
in questa tua materia del dono
ore non più volatili
s’addentrano
dal chiaro della soglia
nella fibra del legno
disegno che ti cade dalle dita
è il tuo tempopensiero
la scommessa perfino
sul mistero della sposa la prescelta
da due: l’altro
che pure te ha scelto è l’Alto
e sfida il tuo coraggio
grati e lentissimi
i giorni del legno disperdono
tutte le ombre là fuori
dai rami pigolii prove d’ali
perché siamo in attesa di culle
e di angeli ancora
(quella folata improvvisa sulla fronte come un messaggio)
ecco i passi e le scarne parole
di chi al crepuscolo ti porta il pane
in cambio di trucioli per il fuoco
e s’accontenta
di guardare in ginocchio
l’oggetto che ti esce dalle mani
guarito
è tempo del riparo
avverso alle solitudini
ritorno della cucitura
che guarisce lo strappo grido
della sedia appena reimpagliata
che vorrebbe ancora germogliare
ma parlerà solo di attesa
a chi vi si riposa
È come se le parole dei poeti moderni abbiano trovato una dimensione parallela alla concretezza ed ivi si aggirino con stili più o meno diversi, ma con un fattore comune: il bisogno di oltrepassare la realtà concreta alla ricerca di una profondità comunque inattingibile per il mistero oscuro di cui è fatta, che è il midollo dell’uomo ed il suo perché.
Qui la poetessa si rivolge alla mano di Giuseppe, che trasforma le ore del suo lavoro in legno e le concretizza (ore non più volatili), ma non è un semplice falegname che produce trucioli e oggetti, il tempo per lui è pensiero, è scommessa su quella sposa scelta anche dall’Alto perché divenga madre di Dio in terra.
È una sfida al coraggio di un uomo, che deve credere contro ogni logica, cosa del resto richiesta a tutti gli esseri umani della storia anche se nessuno mai si è ritrovato la sposa incinta per azione dello Spirito Santo.
Certamente l’Alto ha saputo come convincere Giuseppe dell’innocenza di Maria (quella folata improvvisa sulla fronte come messaggio) e tutto questo pensiero del falegname durante il suo lavoro si mescola alle visite dei clienti e dell’amico che alla sera gli porta il pane (sono tutti poveri) in cambio di trucioli per il fuoco e si accontenta di ammirare la sedia reimpagliata uscita come nuova, guarita dalle mani di Giuseppe, fatta per riposare e parlare di attesa: la condizione terrena di tutti gli esseri capaci di pensiero.
Domenica Luise
partoriscono acqua
dirompe
germoglio dell’Insperato
linfa dell’Inatteso
acqua sporca
di calcare compatto
argilla
accumulo di polvere
E dalla tua dimora
sulla sommità
di questo deserto
redarguisci:
Benedetto fare!
Benedetto tranciare
piallare
inchiodare
e le schegge che si conficcano nella pelle!
Tu, acqua sporca
ed io
siamo i piccoli falegnami dell’Idea.
È la parte iniziale della poesia che si sviluppa in tre porzioni con unico titolo. Siamo nel deserto dove tutto brucia quando ecco che le dune secche partoriscono acqua dirompente: il cielo si è unito al deserto in germoglio dell’insperato e inatteso Figlio di Dio. La poetessa vede l’incarnazione di Cristo in terra come una sorpresa, in realtà biblicamente era annunciato che egli sarebbe nato da una madre vergine e sarebbe stato l’ uomo dei dolori. Era scritto e Maria ne era cosciente insieme a Giuseppe, ci credevano e crescevano il Figlio che sarebbe salito sulla croce. Magari speravano che fosse soltanto una metafora, qualcosa potesse mutare e una volontà divina oltrepassasse l’evento annunciato, ripetendo quanto era già avvenuto ad Abramo, quando condusse sul monte Isacco, unico figlio della sua vecchiezza che Dio gli aveva chiesto in sacrificio, ma all’ultimo minuto un angelo gli fermò il braccio: non fare alcun male al ragazzo!
Chissà quante volte, nel deserto egiziano, dove avevano trovato ricovero da esuli, Maria e Giuseppe hanno sperato che un angelo simile fermasse i crocifissori. E quanto fango si mescolò all’acqua dissetante dell’amore. Quell’acqua fangosa è imbevibile, insopportabile, anche inammissibile: perché Gesù deve diventare un capro espiatorio? Egli innocente condannato, per amore, a portare su di sè tutti i peccati della storia presente, passata e futura. Un grande assurdo. L’acqua del deserto è più fango che acqua, ha smesso di dissetare, amareggia e avvelena. E Dio, dalla sua dimora celeste, vede, sa, benedice la fatica di tutta l’umanità crocifissa nel crocifisso. Di qualunque religione o non religione siamo, la sofferenza è il nostro brodo primordiale. Non si sfugge. Io, cattolica praticante, non sto meglio dell’ateo convinto. È duro per tutti e con tante migliaia di buone ragioni. Così quelli giovani, belli e sani hanno le proprie infelicità gravi ed è inutile compassionare i vecchi perché tutti facciamo compassione a qualunque età, poveri o ricchi che siamo oppure, com’è di solito, nella mediocrità economica.
Gli uomini faticano, si agitano, costruiscono, pensano ai figli, anche Maria e Giuseppe, in quel deserto, pensavano al figlio. E continuavano a lavorare, proprio come facciamo noi, sperando contro ogni speranza perché tutto può sempre avvenire.
“Benedetto tranciare piallare inchiodare e le schegge che si conficcano nella pelle”. Insieme al Dio bambino,sebbene acqua sporca, “siamo i piccoli falegnami dell’Idea ” e compartecipiamo alla salvezza del mondo ogni volta che amiamo.
Domenica Luise