La Mimma quasi furiosa

 La luna nel pozzo

Ogni mattina è la stessa colazione
a cui sempre si aggiunge il sorso
perché non sfugga il sapore dalla lingua.
 
Ma io rido di risata cachinnante
e ricorro a una vita maccherronica
con ipotetiche dell’impossibilità
a mollo nella fantasia.
 
                                                 Come stai?
Anormale.
 
Il pianeta va zigzagando nella sua ellissi
a passi di ballerina ubriaca
e chi se ne frega. Inforco l’ippogrifo
bianco, quello con la stella d’argento in fronte
perché i pensieri onorano le circonvoluzioni cerebrali
o termosifoni. La febbre
è salita, la centaura a volo
fino alla luna, dove
si sono trasferiti i sogni moribondi.
 
In realtà
non ho mai avuto i piedi per terra. Le gambe
erano inutili all’uopo e l’albatro zoppica.
 
Se faccio presto
raccolgo la luna nel pozzo
e me la bevo.
 
Domenica Luise
(Disegno di Domenica Luise)
 
 

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Annamaria Tanzella Giobba

Annamaria Tanzella originaleAnnamaria T.2Qui alla vostra sinistra vedete la foto originale che mi ha mandato Annamaria, a destra , coi potenti mezzi del computer, l’ho fatta sorridere e le ho truccato leggermente gli occhi. L’importante è lavorare con delicatezza
e senza fretta.
Dopo di che ho scelto due effetti speciali un po’ pazzerelli e colorati
ed ecco la nostra ragazza in versione cubista,
che sembra emergere da una vetrata.
Annamaria T4
Concludo con la pop art. Annamaria vince il premio Giobba
per la pazienza che ha nel commentarmi sempre.

Annamaria T13
                                        Domenica Luise

Il bello addormentato


                   
 
La casalinga Rosa Selvatica Lulù aveva sposato quello che s’era trovata disponibile a quarant’anni: il calzolaio Nuccio Soletta, baldo non più giovane del tutto pelato, è vero, con l’alito pesante per i denti cariati, che non si faceva curare tenendosi il dolore perché il dentista lo terrorizzava, ed aveva anche un inizio non indefinito di pancia e di trippa, ma si sa, gli aspiranti dei quarant’anni non sono come quelli dei venticinque. Era proprietario di un negozio non grande né alla moda e non disdegnava di stare seduto al suo deschetto di lavoro martellando giornate intere, sempre con la radio accesa a tutto volume, concentratissimo a ricucire tomaie sulle suole e riattaccare i tacchi perduti.
Rosa Selvatica Lulù si era accorta subito che, come marito, Soletta era diverso che da fidanzato, quando arrivava con la bocca profumata di dentifricio e portava sempre in tasca la bomboletta di freschil dentil da spruzzare almeno ogni ora. Ripeteva a se stessa che gli uomini sono tutti così e le era ancora andata bene, era nervoso furioso per ogni minima ragione inesistente, ma non l’aveva mai veramente picchiata limitandosi a urlare, una volta, però, aveva afferrato il martello dal deschetto e aveva fatto il gesto, soltanto il gesto, per fortuna, di batterglielo in testa perché lei gli aveva mentito sul prezzo di un vestito e perché il suddetto era corto.
Mentre raccoglieva i calzini che egli aveva buttato per terra come tutte le mattine, sentì un grido e un tonfo provenire dal negozio. Si precipitò e lo trovò per terra, con un sorriso ebete sulla faccia, circondato dai pochi clienti che erano venuti a portargli le scarpe da riparare.
Gli buttarono una secchiata d’acqua sul viso, lo scossero, lei lo prese perfino a pizzicotti: nessuna reazione.
< Questo dorme > decretò il medico, < portiamolo subito all’ospedale, forse riusciranno a svegliarlo >.
All’ospedale ci provarono. Con un trabiccolo strano lo tenevano in piedi e continuamente gli parlavano, lo stuzzicavano, un’infermiera che aveva appena avuto la delusione d’amore riuscì quasi a bruciargli una mano con l’accendino, niente, il Soletta non si mosse né gli passò il sorriso.
Lo riempirono di tubi da tutte le parti e gli monitorarono quello strano sonno, era una fase rem continua. Mah.
Dopo qualche giorno lo dimisero affermando che gli mancavano i letti e non ne potevano sprecare uno per farlo dormire. Bastava che la moglie gli facesse un’iniezione al giorno per nutrirlo e idratarlo più che sufficientemente.
La sua storia finì alla televisione e tutti lo ribattezzarono Il bello addormentato, anche se di bello non aveva proprio niente. Rosa Selvatica, stretta dalla necessità, prese il suo posto al negozio e al deschetto e tanto ci si trovò bene che clienti e guadagni moltiplicavano ogni giorno. Intanto lui dormiva.
Più volte provò a risvegliarlo con un bacio, ricordando la favola e com’erano andate le cose al principe azzurro, intanto si potè permettere un’infermiera che l’assistesse notte e giorno mentre lei si occupava del lavoro, delle amiche e dello shopping.
Alla fine smise di baciarlo e di chiamarlo, tanto quello dormiva.
Intanto molti altri maschi si erano addormentati: il presidente della repubblica tale, il re del regno talaltro, il marito della sua amica Mimì, che faceva il capostazione, il giovanotto che le portava l’acqua e il latte tutte le settimane, perfino i gatti e i cani maschi cadevano in letargo, le femmine no e nessuno se ne spiegava la ragione.
Oramai alla televisione lavoravano soltanto le donne perché una volta lo speaker del telegiornale si era riversato sul proprio tavolo in diretta e i cameramen cadevano per terra anche più di uno alla volta.
I preti si addormentavano sull’altare mentre predicavano e i chirurghi nel bel centro di un’operazione delicatissima.
Fu giocoforza affidare alle donne la conduzione del mondo. Le guerre finirono dovunque, la crisi economica rientrava a vista d’occhio, le tasse dapprima dimezzarono, poi divennero un terzo ed infine l’offerta simbolica di un euro annuale. Nei telegiornali trasmettevano inaugurazioni di ospedali, palazzi, giardini e, grandissima novità, interi paesi per poeti ed artisti. La vita e la giovinezza si allungarono notevolmente e intanto i maschi dormivano.
Tutto il mondo viveva in pace, ma non nascevano più bambini.
Allora le donne provarono a svegliarli facendo le seduttrici, al che qualcuno dette una piccola mossa o accentuò il sorriso, ma nessuno si svegliò.
Alla fine a Rosa Selvatica Lulù venne un’idea: chissà se avrebbe funzionato la gola anziché la lussuria?
Le signore si riunirono e imbandirono una gran tavola. Dalla cucina esalavano odori di ragù, pane fresco appena uscito dal forno a legna e bistecche alte due dita alla brace.
Il primo a svegliarsi fu il gatto, che si chiamava Nocciolino: si avvicinò al fuoco e fece miao, subito seguito da tutti gli uomini, uno per uno.
Così ognuno riprese il proprio posto purtroppo, ma per necessità.
 
( Fine della prima puntata )

I maschi, dopo pranzo, mentre le mogli, le madri e le sorelle ripulivano la cucina e strofinavano pavimenti come ai cari, bei tempi, si sdraiarono a pancia all’aria sul divano, sul letto nuziale oppure sul dondolo del patio, col giornale spiegazzato a fianco, e si guardarono attorno.
In casa c’erano mobili nuovi di legno massiccio: dovevano essere costati una fortuna. Le donne indossavano abiti che non ricordavano affatto di avere loro visto prima e nemmeno supponevano fossero alla propria portata. Quatto quatto, ogni maschio andò a controllare il nascondiglio segreto dei soldi di riserva e ci trovò un gruzzolo mai immaginato. Ognuno di loro pensò: mia moglie è una ladra. Anche il prete pensò: la perpetua è una ladra.
Nessuno abitava più nel proprio appartamento, ma in una villa con grande giardino perfettamente tenuto.
Si dettero un pizzico, ma erano proprio svegli ( almeno per il momento ).
Nocciolino andò a strofinarsi e fare le fusa contro i piedi nudi del Soletta, che lo guardò e disse: < Almeno tu sei tale e quale >.
Aprirono il telegiornale ed apparve una fata bionda che, sorridendo, annunciava notizie assurde.
Tutte le nazioni del mondo avevano stretto un patto di pace infinita.
Le armi atomiche erano state disintegrate e l’energia utilizzata per costruire, su un pianeta artificiale in orbita attorno alla terra, una discarica mondiale dove i missili sparavano la spazzatura che, senza bisogno di essere differenziata, veniva condensata, bruciata ad altissime temperature, purificata e rispedita sulla terra per essere utilizzata come fonte di luce e di fuoco invece dell’elettricità, del gas e della benzina.
Era stato eliminato finanche l’ultimo euro annuale simbolico a pagamento delle tasse dovute, le pensioni erano quadruplicate e in fase di ascesa,l’immigrazione non era più necessaria perché tutti i popoli vivevano lautamente ognuno nella propria terra e si muovevano soltanto per sollazzo.
Erano stati inaugurati altri quattro paesi di artisti, due di poetesse, uno di pittrici ed uno di scultrici. Era quasi pronto il paese delle musiciste e cantanti, con mura antisuono tutt’intorno.
Oggi gli stipendi statali erano cresciuti del solito dieci per cento.
A queste notizie tutti i maschi fecero una scenata alle donne che si trovarono avanti, proprio così com’erano abituati prima del grande sonno.
< Perché ci siamo addormentati? Cosa ci avete fatto? >.
< Ma non è colpa mia, amore > rispondevano le mogli parandosi la testa dalle botte.
< Ma non è colpa mia, figlio > rispondevano le madri nascondendosi dietro i tegami e il tavolo della cucina.
< Ma non è colpa mia, eminenza > rispondeva la perpetua zigzagando tra i banchi della chiesa.
< Ma quale eminenza > sbraitava il parroco rincorrendola per bastonarla con quello che prima arraffò: una candela mezza squagliata ancora accesa.
Le donne si pentirono amaramente di averli risvegliati, si riunirono in società segreta e, nottetempo, si incontrarono alla vecchia bicocca dei fantasmi: tutti i maschi ne avevano paura né sapevano che, durante il loro sonno, era diventata un pollaio selettivo con  uova grandi quasi al doppio del normale e due tuorli cadauno garantiti.
La più inferocita era Rosa Selvatica Lulù, anche perché suo marito era stato il primo ad addormentarsi.
< In coscienza, non li possiamo tenere svegli > affermò tamponandosi il vistoso livido che le si era gonfiato sotto l’occhio, dove il Soletta, alla fine, le aveva dato un pugno.
< Fai vedere, cara, come ti ha ridotta >.
< Ma ce lo hai messo il ghiaccio? Dobbiamo capire perché si sono addormentati >.
< Io vorrei capire pure perché si sono svegliati >.
< Forse un castigo divino > affermò la perpetua.
< Tu sei cattolica, si sa > la prese in giro una certa Cristina, bella donna dai fluenti capelli bianchi e senza una ruga. Era una poetessa nota su internet, aveva pubblicato tre libri andati a ruba, ormai alla milionesima edizione.
La perpetua non si offese, anzi le venne una risata squillante che la rese vezzosa.
< Smettila, Mimma > le disse sua sorella Iole, < non pigli mai niente sul serio, hai sempre la testa alle poesie. Io voglio il marito, lo preferisco sveglio >.
< E tienilo > rispose Mimma piccata.
< Signore, signore, non ci arrabbiamo > intervenne Mariachiara, la figlia di Iole, soprannominata Tranquillità per il carattere sempre calmo.
< Voglio dire > continuò Rosa Selvatica Lulù, < se oggi mi ha presa a pugni domani mi toccheranno le scudisciate >.
< Sì, ma non tutti sono uguali, il mio Pepè mi adora > affermò Iole, < non mi contraddice mai, fa la spesa, cucina, è un grande risparmiatore >.
< Che facciamo ? > chiese una signora della confraternita che, fino a quel momento aveva portato sempre uno scialle davanti alla faccia.
Intanto le galline starnazzavano e facevano le uova qua e là fra i loro piedi.
< Una frittata > rispose una brunetta dagli occhi intelligenti, < oggi non mi ha fatto toccare cibo, sempre gridando >.
< Ma tu chi sei, perché non togli questo scialle dalla faccia? >
Tira e molla, lo scialle cadde e tutte poterono vedere i lividi che deturpavano il bellissimo volto di Mimisia.
< Non ci possono prendere a botte >, gridarono.
< Gliela facciamo vedere noi >.
< Riaddormentiamoli a colpi di bastone >.
< Signore, calma. Occorre batterli con la loro stessa arma >.
< Che arma ? >
< La razionalità > intervenne Mimmona, la chiarissima dottoressa di psicanalisi mentale, che insegnava all’università di Rometta.
< Perché si sono addormentati a catena? Per egoismo. Perché li abbiamo risvegliati col profumo del cibo? Per procreare bambini in maniera naturale, senza ricorrere a clonazione, partenogenesi e mezzucci, quindi per generosità. Loro cattivi e noi buone? Non è nemmeno questo, ma sono troppo diversi per andarci d’accordo. Rimbocchiamoci le maniche e inventiamo una pilloletta che li riaddormenti, da sciogliere nel cibo al bisogno. Tutte le dottoresse e le volontarie possono fare parte del team, qui, ora e subito, la questione è urgente.
Non usciremo da questo pollaio senza la medicina opportuna, prima che facciano danno e dichiarino subito guerra qui e lì. Per riaverli svegli basterà sospendere la pillola quelle due o tre giornate necessarie >.
< Due o tre giornate? Sono troppe > strabiliò Cristina, < un paio d’ore ogni tanto sono più che abbondanti >.
( Fine della seconda puntata )
         
                                                                                      
      
La brunetta con gli occhi intelligenti rialzò vivacemente il capo: < A me questa cosa di riaddormentarli a base di pillole non piace, è innaturale e non credo che sia la soluzione giusta > affermò.
< Effettivamente ciò è vero > disse Iole, < e poi, oltre al marito, ho un figlio, non lo voglio riaddormentare, ha già perduto abbastanza tempo con tutto il sonno che si è fatto. Se mentre gli altri ronfavano lui avesse lavorato al computer, a quest’ora avrebbe finito il progetto di potenziamento dell’energia solare che gli ha assegnato il suo professore. Se non ti va l’idea di riaddormentarli, come non piace nemmeno a me, tu che cosa proporresti, Mimosa? >.
La brunetta ebbe un guizzo strano negli occhi ben truccati. Portava un abito strambo, con scollatura ed orlo asimmetrici e una specie di oblò sulla spalla destra. Al polso teneva un nastrino rosso al quale era appesa una chiavetta d’oro.
In quel pollaio spiccava per l’eleganza e il profumo che emanava, del resto era la proprietaria di una boutique, un negozio di borse e calzature e due gioiellerie, o forse erano tre.
< Diamoci delle regole, organizziamoci > suggerì scacciando una gallina che tentava di farle l’uovo sul sandalo.
< Che regole? > chiese Iole, < siamo sempre andate tutte d’accordo >.
< Verissimo, ma una struttura legale ci aiuterebbe. Nominiamo una presidentessa con una segretaria ed un gruppo di collaboratrici fidate >.
Scappò detto a Cristina: < Mi voglio candidare anch’io, ho molte idee per il bene dell’umanità >.
< Anch’io > affermò Iole, < anzi come mio segretario ci voglio Pepè >.
< Ma che dici > ribatté Mimma, < gli uomini non debbono avere posti di predominanza o ci rimetteranno di nuovo sotto >.
< Questo è vero, votiamola come prima condizione del nuovo stato >.
Votarono all’unanimità, scrissero il verbale e lo firmarono tutte. Mimosa divenne la presidentessa col 51 % dei voti e quando capì di avere vinto in extremis un altro guizzo strano le brillò negli occhi. Nominò subito segretaria la propria amica Mimmona, Iole si offese perché si reputava molto più preparata , afferrò la borsa, disse che doveva preparare la cena a suo marito e sparì, ma non da sola: tutte le signore escluse dai primi posti abbandonarono l’aula, pardon, il pollaio ed uscendo si lamentarono ognuna a gran voce.
< Mimosa non mi piace > proclamò Cristina senza mezzi termini, < suppongo che abbiamo votato tutte per noi stesse, vorrei sapere chi è stata la cretina che le ha dato quel punto in più >.
Mariachiara, alla quale Mimosa faceva sempre lo sconto quando entrava nei suoi negozi, la faceva sfilare strapagandola e regalandole un abito alla volta a propria scelta con un gioiello sia pure di bigiotteria, taceva mordendosi le labbra e cercando di farsi piccola piccola nel gruppo, cosa impossibile perché era alta un metro e ottantadue.
< Avrei dovuto avere io due voti >, disse Iole, < il mio e quello di mia figlia. Quindi tu hai preferito un’estranea a tua madre >.
< Non ho votato per lei > mentì la ragazza, < del resto il voto è libero >.
< Non ci ha dato nemmeno il tempo di metterci d’accordo > disse a voce un po’ troppo acuta una signora grassa, che guardava affannosamente l’orologio tentando di accelerare il passo. 
< A quest’ora mio marito è furibondo > affermò.
Tutte si affrettarono, anche Cristina che sbuffava.
( Fine della terza puntata )

 
 
L’indomani Mariachiara venne chiamata dalla nuova presidentessa:
< Ho bisogno di una ragazza sveglia e intelligente al mio fianco oltre che della segretaria > disse, < ed ho pensato a te. Però nessuno deve saperlo, né maschi né femmine e nemmeno la tua mamma, altrimenti i maschi se ne accorgono subito. Sei capace di mantenere questo segreto? Lo stipendio è buono e il lavoro leggero.
Se mi rendo conto che hai informato qualcuno perderai il posto >.
< E cosa dovrei fare? >.
< Nulla di che, guardarti intorno, se ci sono malcontenti contro di me tenermi informata, farai finta di entrare in negozio a comprare qualcosa e mi dirai ogni particolare >.
Firmò un assegno e glielo passò. Mariachiara spaccò gli occhi per la somma elevata. La brunetta le sorrise ammiccando: < Diremo che è il compenso dei servizi fotografici: da oggi in poi mi darai l’esclusiva, così avremo agio di vederci senza destare sospetti >.
Subito Mariachiara le raccontò cos’avevano detto le signore all’uscita dal pollaio la sera precedente, ma non le riferì anche le lamentele della propria mamma. Così Mimosa organizzò una gran festa per festeggiare, disse, la nomina a presidentessa.
Invitò tutte le donne che contavano ed anche i loro mariti, i quali ebbero ognuno in regalo un cosciotto di prosciutto crudo e una damigiana di vino rosso della migliore qualità.
Ma quelle che andarono bene furono le signore, a cui toccò un gioiello in platino e brillanti naturali, guarda caso il più bello fu quello di Iole, ma nessuna si lamentò. Tutte ammirarono la generosità della nuova presidentessa e Mariachiara le potè riferire cose eccellenti dette su di lei:
< Ci eravamo sbagliate >
< Una donna generosissima, raffinata, una signora >.
< Siamo ben contente di averla votata >.
< Ci può riuscire soltanto lei >.
Iole, veramente, dentro di sè pensava di essere più adatta per quel ruolo, anche Cristina ne era convinta e perfino Mimma, che aveva sempre sostenuto di non volere comandare, però stettero zitte, si adeguarono al giubileo universale e sfoggiarono ognuna il proprio gioiello, regalo della presidentessa.
Così Mariachiara potè darle buone notizie:
< Sono tutti contenti, maschi e femmine >.
< Allora è il momento di fare un bel regalo alla popolazione > disse Mimosa. Così, alla televisione, iniziarono programmi letteralmente irresistibili, con grande dispendio di mezzi. Non era infrequente che arrivassero telefonate del genere: La sua famiglia è stata sorteggiata per un premio di dieci, venti, oppure centomila euro, ogni tanto perfino cinquecentomila.
Tutta la gente stava attaccata a queste trasmissioni giornate intere aspettando le telefonate, che però, col tempo, andarono sempre più diminuendo sia come somme che di numero, ma ormai era una specie di vizio. Gli uomini erano i più presi, anche per ammirare le belle ragazze poco vestite che ballavano e cantavano continuamente. Nessuno si ricordava più dei vecchi programmi educativi di scienza oppure sugli animali. I diplomi e le lauree venivano spediti gratuitamente per posta semplice ed ognuno ne poteva richiedere a volontà.
A questo punto, una bella sera, apparve sulla scalinata di un noto programma di varietà la presidentessa Mimosa, accompagnata dalla segretaria Mimmona, entrambe in abito serioso, senza spacchi né scollature. Tutti i teledipendenti trattennero il fiato.
Lo stato era in difficoltà economica, affermarono con le lacrime agli occhi, erano costrette a chiedere delle libere offerte a tutti gli amici, che si potevano servire del telefono o del telefonino.
Forse in questo modo avrebbero evitato l’imposizione legale delle tasse.
Le entrate sarebbero servite a riaprire le scuole perché ormai l’ignoranza era eccessiva e molti laureati non sapevano né leggere né scrivere. Si rendevano indispensabili corsi di recupero statali. Dopo la terza media l’iscrizione all’istituto superiore, uno solo e valido per tutti, era obbligatoria.
I guadagni furono ingenti, almeno il triplo di quanto dichiararono per televisione. I soldi in più furono impacchettati in raffinate borsette di nappa colorata e distribuiti alle signore che contavano durante una festa sontuosa per la riapertura delle scuole.
 
( Fine della quarta puntata )

 
 All’istituto superiore si studiava una sola materia: la vita e le opere della presidentessa Mimosa, validamente coadiuvata dalla segretaria Mimmona.
Ogni giorno i ragazzi compilavano test nei quali la domanda era una sola: come migliorare la situazione economicamente problematica del governo?
Quando un ragazzo incominciò a scrivere che le deputatesse avrebbero potuto rinunciare tranquillamente ad una metà del proprio ricco stipendio e condividere il ruolo con deputati maschi, lo accusarono di avere rubato i registri dai cassetti delle professoresse, una bugia che più lampante non poteva essere, e lo buttarono fuori da tutti gli istituti della repubblica, egli andò a raccogliere noccioline per sopravvivere e fondò il primo gruppo di partigiani.
Incominciarono azioni di disturbo: le caldaie venivano manomesse e d’inverno si moriva di freddo, i sistemi di aria condizionata venivano bloccati e d’estate si moriva di caldo, i computer riempiti misteriosamente di virus, le linee telefoniche controllate.
Ben presto passarono alla guerriglia urbana, con bombe rudimentali poste davanti alle ville delle donne che contavano.
I danni furono immensi e lo stato contrattaccò dapprima con i gas fumogeni per sciogliere gli assembramenti, dopo con gli scacciacani ed infine sparando in aria. Le carceri si riempirono e i processi andavano per le lunghe proprio come quando comandavano gli uomini. Alcuni stati esteri incominciarono a proporsi come pacieri e mandarono contingenti di truppe armate fino ai denti.
La presidentessa Mimosa uscì sul balcone della propria villa smisurata, la seguiva Mimmona, che portava un tailleur grigioverde dal modello maschile, cravatta compresa a strizzarle la pappagorgia.
La segretaria stava partendo con un contingente di soldati e soldatesse, affermò Mimosa, per restituire la visita ai paesi interessati, che si erano premurati di inviare le truppe di pace.
Veramente, a guardarla, Mimmona non sembrava tanto entusiasta di questo viaggio.
Si era offerta volontaria, aggiunse Mimosa, insieme agli uomini.
Non svelò che i maschi sarebbero stati usati nelle prime file, a protezione delle signore.
Date le ingenti spese, sarebbe stata fatta una colletta casa per casa. Tutti furono invitati ad essere generosi.
Coi guadagni venne organizzata una gran cena e festa da ballo per la partenza ed ogni donna ricevette in dono un abito da sera di pura seta, una stola di ermellino e una borsetta luccicante piena di soldi.
< Perdonatemi per questo pensiero così piccolo, ma sono tempi duri > disse Mimosa. Mimmona stava aggrondata al suo fianco, ma si scongelò alquanto come vide la stola e, soprattutto, quando aprì la borsetta.
Ai maschi fu consegnato un chilo di filetto ed una bottiglia di lambrusco per uno.
Intanto la popolazione media incominciava a provare qualche privazione, non dico la fame. Avevano dovuto riversare nelle tasche delle esattrici tutto quanto avevano in casa, perfino gioielli ed oggetti di valore.
Non sembravano mai contente ed erano riuscite a trovare anche i gruzzoli nascosti sotto le mattonelle o nei buchi in giardino.
Mentre assisteva alla cerimonia della partenza dell’esercito per la missione di pace o di guerra che fosse, a Mimosa venne uno strano senso di rilassamento fisico, gli occhi le si chiusero da soli, ruotò la testa all’indietro e scivolò per terra addormentata, fu il primo caso di letargia femminile acuta, seguito a catena da una gran parte di signore e signori, che non ebbero nemmeno il tempo di raggiungere un divano, una poltrona o una sedia. Giacquero a terra russando mentre quelli rimasti in piedi si sforzavano di trascinarli almeno ai lati della strada. Così l’esercito non partì e tutti si precipitarono a casa mettendosi a letto per trovarsi pronti e fecero bene perché nessuno restò sveglio tranne due giovanetti, un maschio e una femmina, che passeggiavano ai giardini pubblici tenendosi per mano.
Erano innamorati e non si accorsero di nulla.
 
( Fine della quinta puntata )

Si sedettero su una panchina e aprirono il proprio cesto da picnic per pranzare.
Dopo chiacchierarono e si baciarono.
Intanto il pianeta russava. Quando la sera i due ragazzi tornarono a casa, li trovarono tutti profondamente addormentati, la televisione non trasmetteva, su internet non c’era nessun blog aggiornato, i telefoni degli amici squillarono, ma nessuno rispose.
Si sentirono persi.
E per aggiunta mamma e papà sembravano anche rimpiccioliti e dimagriti, li misurarono col metro, superavano di poco i centoquaranta cm. di altezza.
Uscirono a guardare gli altri, si erano tutti ristretti, maschi e femmine.
L’indomani sembravano delle grandi bambole, l’unico segno di vita era il respiro, avevano finanche smesso di russare.
< Io lo dicevo > affermò lei, < erano diventati troppo cattivi, anche le donne stavano per dichiarare guerra >.
Incominciò a piangere spaventata.
< Eva, tesoro, non fare così, ma ho paura anch’io, non mi dire che sul mondo siamo rimasti solo noi >.
< Cosa facciamo, Adamo? >.
< Proverò a lanciare appelli su facebook >.
Ma nessuno rispose. Intanto i ragazzi incominciarono a mangiare prima quello che avevano in casa e dopo ciò che trovavano nei frigoriferi altrui. Una fitta coltre di erba e fiori incominciò a crescere dovunque a perdita d’occhio. Si procurarono tutti i fiammiferi e gli accendini che riuscirono a recuperare, candele, pile, acqua potabile. I loro genitori e tutta la popolazione, adesso, avevano raggiunto le dimensioni di un topolino cadauno. Sembrava che niente potesse fermare il proliferare delle piante, che invece ingigantivano ed incominciarono a ricoprire tutte le superbe ville, il balcone da dove Mimosa arringava alla folla, il salone in cui celebrava le feste per ogni scusa e comprava gli altri a suon di regali.
Adamo ed Eva continuavano a tenersi per mano e si rassicuravano l’un l’altra controllando a vicenda le proprie dimensioni.
L’avanzata del giardino aveva una sua prorompente bellezza.
L’indomani tutti gli umani erano scomparsi come se non fossero mai esistiti, ma si vedevano intorno molti animali svegli e di grandezza normale. A coppie riempirono il giardino. Il leopardo annusò amichevolmente il gatto Nocciolino, che gli fece le fusa.
Erano cresciuti molti alberi da frutta, Adamo ed Eva assaggiarono una nespola per uno: semplicemente deliziosa. Però era strano: c’erano contemporaneamente i frutti di ogni stagione, fichi, uva, ciliegie, pere, mele e fragoline di bosco. Mangiucchiando qua e là visitarono il giardino e trovarono una grotta tutta verde e fiorita accanto ad una cascatella d’acqua, che fluiva in un ruscello trasparente, un sorso d’acqua per uno bastò a dissetarli per tutto il giorno.
Fecero l’amore nella grotta, su un letto di erba.
< Io ti prendo in sposa nella gioia > disse lui.
< Io ti prendo in sposo nella gioia > rispose lei.
< Crescete e moltiplicatevi, ma stavolta non mangiate la mela dell’albero del bene e del male > disse una voce tonante sulle loro teste, < e non vi spaventate, piccoli: io vi voglio bene >.
< Cosa ne è stato di tutti gli altri, maestà ? > osò chiedere Eva.
< Li ho trasferiti su un pianeta meno bizzoso dove potranno ricominciare in pace >.
< E noi come finiremo ? > balbettò Adamo.
< Felici, contenti e poeti > rispose la voce.
 
Domenica Luise
 
  Fine 

   

 

 

Inferno o resurrezione (pensiero mimmiano n° 7)

Cristo multicolore

Il dolore provoca due effetti collaterali:
o resta dolore e stronca
oppure si trasforma in amore e fa crescere.
Frutto acerbo e frutto maturo.

                                                    Domenica Luise

 
                                                          (Acquerello di Domenica Luise)

I tre busti della pavonessa

 

Angelilla De Pavonibus era diversa da tutte le pavonesse della sua specie. I genitori, vergognosi di una figlia talmente grassa, insolente, quasi nana e con le piume scolorite, la tenevano chiusa in casa circondandola di mistero.
< E’ troppo studiosa > diceva papà pavone, < sta sempre sui libri ed al computer. >
<E’ troppo bella > diceva mamma pavona, < non vogliamo che nessuno ce la possa invidiare. >
Di lei non esistevano fotografie nemmeno nei gruppi di famiglia.
I maestri privati, profumatamente pagati per farle lezione ed intrattenerla, si disperavano confidandosi l’uno con l’altro.
Quella bimba presuntuosa, svogliata, viziata, golosa e squallidina rendeva loro amaro ogni istante che dovevano dedicarle.
Infine venne assunta dalla facoltosa famiglia una professoressa di estetica pavonesca che, quando la vide, le insegnò subito a tingersi le piume del petto con un audace colore blu.
La volta successiva le fece la permanente coi riflessi ramati e la volta dopo ancora le regalò un busto che, strizzandole la vita, faceva venire fuori una specie di petto e di fianchi.
Angelilla, lì dentro, quasi non poteva fiatare e quindi smise di parlare con voce alta e stridula e di saltellare da una zampa all’altra nervosamente perché sennò si faceva più male.
La professoressa, dopo averla così ingabbiata, diagnosticò che avrebbe potuto togliere il busto soltanto mezz’ora al giorno, per fare il bagno, dopo di che era indispensabile tenerlo sempre, anche la notte, o non avrebbe avuto alcun effetto.
Entro tre mesi, essendo la pavoncella nell’età dello sviluppo, si sarebbe dovuto cambiare il modello in un altro più lungo e più stretto.
Malgrado fosse vanitosissima, Angelilla più volte tentò di liberarsi del busto, che pure la migliorava non poco. I primi tempi dovevano guardarla a vista.
< La bambina non ce la fa > disse mamma pavona al marito.
< Ce la deve fare per forza o resterà zitella > rispose lui, pratico come tutti gli uomini. Ciò sarebbe stata, per la nobile famiglia, un’onta a vita.
La ragazzina si abituò ben presto a trattenere il fiato più che poteva. Poiché aveva dei grossi cuscinetti di grasso intorno al giro vita, evitava finanche di sedersi, ma la professoressa se ne accorse ben presto e la costrinse a comportarsi come se nulla avesse, anzi le faceva fare perfino ginnastica con flessioni sempre più numerose a destra, a sinistra e avanti, senza curarsi se le scappavano le lacrime. Certe volte i genitori non avevano il coraggio di assistere a quelle scene strazianti. Angelilla incominciò a mangiare sempre meno nella speranza di dimagrire e, dopo dieci giorni senza dolci né leccornie, vide che poteva perfino fare qualche respiro completo ogni tanto.
Si trovava carina con quella permanente e le piume del petto tutte blu, ma era ancora molto lontana dalla bellezza perfetta, che le avrebbe aperto le porte del bel mondo e fatto sposare il buon partito.
In fondo, cosa capiva lei? Soltanto che il busto stringeva.
La professoressa di estetica le insegnò a combinare i colori nelle varie sfumature maggiormente alla moda e due esperti artisti la dipinsero penna per penna.
Adesso Angelilla stava sempre con lo specchio in zampa, ritoccandosi il trucco, sicché i suoi genitori incominciarono a sperare che diventasse sufficientemente vanitosa per lo splendido matrimonio che avrebbe dovuto fare.
Però non cresceva in altezza e così dovette aggiungere un nuovo esercizio ginnico: agganciata su un letto di ferro, ogni giorno veniva tirata di qualche millimetro in più.
Qualche volta la fanciullina si scoraggiava e le veniva la tentazione di supplicare i suoi genitori perché la lasciassero nana com’era.
Intanto prese, con un esame via Internet, il diploma di terza media a pieni voti. In estate le venne sostituito il busto, che ormai le andava fin troppo comodo, con un altro di tre taglie più piccolo e di venti centimetri più lungo, e così Angelilla ricominciò a trattenere il fiato, la pancia e le lacrime. Di nuovo si mise a digiunare. Questo secondo busto si poteva togliere soltanto quindici minuti al giorno, per una rapida doccia.
La professoressa di estetica aggrondava la fronte ogni volta che la ragazzina non si piegava proprio fino a terra nel fare le flessioni o quando le scappava qualche grido o anche un semplice lamento roco: < Come se tu niente avessi, Angelilla, così, piegati un altro poco, ancora, no, non va. Seduta. Alzata. Seduta. Alzata. Sorridi. Più svelta, Angelilla. Non va.
Fu un’estate di veri sudori. In autunno sarebbe andata al liceo classico,
nella scuola
pubblica: < Ti metteremo il terzo busto > le disse la professoressa come se le concedesse il più grande premio. Quella notte la ragazza non poteva smettere di piangere.
L’indomani non voleva alzarsi, ma i genitori la tirarono giù da letto a viva forza. Si rifiutò di fare la colazione, meglio. Era ancora grassa, disse la professoressa . Era evidente che, ormai, quel secondo busto era largo, bene. Prima di affrontare lo sguardo del mondo doveva essere perfetta: < Un giorno ci ringrazierai. Sai tu quello che abbiamo speso per te? E smettila di fare i capricci. E’ l’unico modo per trovare un buon marito > declamavano i genitori.
A mezzogiorno Angelilla non toccò cibo: < Meglio > disse papà pavone, < così potremo stringerle il nuovo busto di un altro centimetro. >
Il primo giorno di scuola Angelilla lasciò tutti a bocca aperta per la bellezza, la compostezza, la squisita educazione ed il modo di parlare in un italiano perfetto.
In fondo, durante tutta la vita, lo studio era stato l’unico suo svago.
Camminava solo un po’ rigida (ma tutti i maschi dissero che era maestosa) essendo il terzo busto davvero terribile. Lo doveva tenere anche sotto la doccia perché le era stato applicato sul corpo mediante una macchina computerizzata, se l’avesse tolto anche un solo momento non le sarebbe mai stato possibile riagganciarlo da sola. Quando si lavava la stoffa del busto si stringeva e stavolta, per respirare, le toccava morire davvero di fame. Tutti i professori la lodarono subito affermando che era l’unica a stare seduta bella dritta, lo credo bene: il busto era montato su stecche di acciaio inox, larghe e pesanti. I suoi compagni e compagne di classe masticavano gommine, divoravano caramelle, succhiavano cioccolattini durante le lezioni, lei niente. In ricreazione facevano fuori il panino, anzi il filone bene imbottito con prosciutto cotto, provola, funghetti e sottaceti, lei no. < Tu rispondi che non hai fame > le disse la mamma. < E non li stare a guardare > aggiunse il papà.
Dimagrì ancora e le vennero le occhiaie. Adesso, quando sorrideva, si vedevano le fossette. La fontanella della gola divenne più sensuale di giorno in giorno e tutti i maschi della classe le morivano dietro: così alta, così magra, così perfetta. Invece di stare attenti alle lezioni facevano continuamente la ruota per lei, che nemmeno se ne accorgeva, occupata com’era a tenere in dentro la pancia.
La crema della crema dei pavoni la pressò con richieste di matrimonio. Infine Angelilla si innamorò di un giovane poeta squattrinato, un certo Pinuccio de Pinis, perché la faceva ridere ed aveva le ali spennacchiate che mettevano tenerezza. Così una bella sera di plenilunio, mentre tutti dormivano, si chiuse a chiave nella propria tana e si tolse il busto che, da sola, non si sarebbe potuta riagganciare mai più, dette un bel respiro di sollievo, si mise un jeans ed una maglietta, si calò dalla finestra aggrappata ad una corda fatta con le lenzuola ricamate del proprio letto e se ne fuggì con lui.
Per prima cosa, nascosti in una siepe sicura, mangiarono, metà per uno, una pagnotta da un chilo imbottita di lardo al pepe rosso che Pinuccio aveva portato nello zaino, e si sposarono e vissero felici e contenti e lei non si laureò in estetica pavonesca, come sognavano i genitori, ed ingrassò un poco, e fece dei bei bambini e li crebbe e tutti dovettero fare buon viso e incassare la botta, e le piume, col tempo, le si scolorirono un poco, ma Pinuccio la vedeva bellissima come il primo giorno perché l’amava.
 
Domenica Luise
 
 
 

Comunicazione dai colori della montagna

La fanciulla della montagna
 
Quello che hai, quello che sei, il bene
il male e le carezze.
 
Ogni compassione in osmosi
di immagini metafore onomatopee
cantate e sussurri.
 
Così.
 
La vita si addensa in parole
con anima di ferro e cemento. Ogni filo d’erba
è amore che si aderge
tra i sassi, là dove trova un succo.
 
E nell’altra mano porto una galassia.

 Domenica Luise
(Quadro di Domenica Luise, olio su tela 70 per 50)