
Non tutti sanno che Pinocchio aveva una sorella gemella, figlia dello stesso tronco. Mastro Geppetto la fece nei ritagli di tempo, con capelli di granturco, la bocca dipinta di rosso vivo e due piccole pietre nere, rotonde e levigate, al posto degli occhi. Quello che tuttavia gli riuscì meglio fu il naso, che era quasi invisibile. La vestì con un vecchio quotidiano trovato ai giardini pubblici e le mise, unico lusso, un fiocco di raso celeste tra i capelli.
Pinocchio e Pinocchiessa litigavano sempre e, a furia di bugie, i loro nasi divennero robusti, coriacei e sempre più lunghi.
Sembravano due stecchi vestiti, cosa che in effetti erano.
<Non diventerai mai un bambino di carne e ossa, sei troppo bugiardo> diceva lei.
<Non diventerai mai una bambina di carne e ossa, sei troppo bugiarda> ritorceva lui.
Ogni sera Geppetto regolava al minimo i due nasi, che però il giorno dopo ricrescevano subito.
Benché fossero di legno, mangiavano come due veri bambini affamati.
Geppetto si mise a vendere prodotti da barba e rasoi di sicurezza pur di fare qualche soldo e mantenere i figli. Incominciava a racimolare i primi clienti, quando Pinocchio fuggì dietro al teatro dei burattini non tanto per scansare la scuola, dove era in ogni caso il primo in ignoranza e bestiologia, quanto per arraffare una marionetta bionda, riccia, con lunghe ciglia ed abito scollacciato.
Pinocchiessa fu chiusa al Pio Istituto delle orfanelle derelitte e Geppetto, col suo fagotto in spalla, partì per cercare Pinocchio.
Le orfanelle erano sempre tristi e a Pinocchiessa facevano pena. Si sentiva come un pezzo di legno più morbido nel centro del petto. Ce n’era una, in particolare, piccola, magra, con gli occhiali e una cipolla di capelli castani sul cocuzzolo. Si chiamava Maria Magda. Spesso restava a letto malata, Pinocchiessa giocava con lei e le raccontava un mucchio di bugie:
<Sono una principessa rapita dai briganti, mi hanno derubata dei miei abiti di seta e dei gioielli per abbandonarmi, quasi nuda e morta di fame, davanti a questo istituto>.
<Apposta sei così magra?> chiedeva Maria Magda accarezzandole una spalla di legno.
<Apposta> rispondeva Pinocchiessa, e ricominciava a raccontarle del suo castello con più di duecento stanze e trenta giardini, del re e della regina, suoi genitori, del fratello Pinocchio, principe ereditario, di tutti i giocattoli con i quali si divertivano quotidianamente, compreso un cavallo alato meccanico a cavalcioni del quale andavano a scuola, dove erano naturalmente i migliori della classe, anzi della nazione.
Il naso le cresceva regolarmente ed ogni sera la burattina se lo tagliava alla buona con un coltello rubato in cucina.
No che non si facesse male perché, pur essendo di legno, aveva quasi la stessa sensibilità di un naso normale umano. Avrebbe pianto tanto volentieri, ma non sapeva come si fa. Al posto del sangue usciva un pochino di segatura, Pinocchiessa si puliva col fazzoletto, si lisciava con la carta vetrata ed era come nuova.
Se l’avesse finita di raccontare bugie il naso sarebbe rimasto normale, ma Maria Magda sembrava assetata di quelle storie, si divertiva, fantasticava ed era più ammalata che mai.
Di giorno in giorno le bugie diventavano raffinate ed il naso sembrava un monumento.
Maria Magda aveva preso il raffreddore, che le durava da venti giorni. Il termosifone della sua stanza era sempre acceso.
E venne il Natale. Fatta la colazione, le orfanelle, le istruttrici e finanche il direttore con i suoi assistenti partirono per la messa, dopo avrebbero pranzato a casa di un benefattore, che li aveva invitati tutti.
Pinocchiessa volle restare con Maria Magda al posto di una giovane domestica. Le fecero tante raccomandazioni, carezze e promesse:
<Vi porteremo il pacchetto dei vostri pranzi, il panettone e la crema al cioccolato>.
<Vi porteremo i vostri regali>.
<Pregheremo per voi>.
Appena uscirono, si bloccò la caldaia elettronica e si spensero tutti i termosifoni.
Dapprima non se ne accorsero.
Pinocchiessa creava favole di corteggiatori che duellavano per avere il suo fazzolettino di batista ricamata. L’altra beveva avidamente ogni cosa.
Infine Pinocchiessa si tolse il fiocco di raso celeste, unico ricordo del suo papà, e lo porse a Maria Magda : <Tieni, è un regalo di Natale>.
<Oh…> rispose Maria Magda, ed incominciò a tossire. Pinocchiessa la coprì meglio e le diede lo sciroppo al lampone.
<Quando ero nel mio palazzo abbiamo fatto un ballo in maschera> affermò.
<E tu com’eri vestita?>
<Da fatina coi capelli turchini ed avevo centinaia di questi nastri>.
<Oh…> ripeteva Maria Magda sognando, subito dopo : <Fa freddo>.
<Mettiti sotto, più sotto> rispose Pinocchiessa. Nevicava.
<Fa freddo> gemeva l’altra stringendo il nastro nel pugno. Pinocchiessa si accorse che il termosifone era spento, allora si tolse il vestito e lo mise sulle altre coperte, ma era solo un vestito di carta.
<Fa freddo>.
Pinocchiessa si ricordò di quando Pinocchio si era bruciato distrattamente i piedi e Geppetto glieli aveva rifatti meglio di prima, ma decise, in assenza del padre, che fosse più prudente bruciare il solo naso.
<Che bel calduccio> sorrise Maria Magda. Il naso bruciò e dopo un poco Maria Magda ripeté: <Fa freddo> e riprese a tossire.
Allora Pinocchiessa si bruciò i piedi, dopo le gambe, il braccio sinistro, i suoi bei capelli di granturco, che sembravano veri ed alla fine divampò tutta mentre l’altra diceva: < Che bel calduccio, sono sicura che guarirò>.
Ultimo bruciò il cuore e fu pura delizia, tanto che Pinocchiessa sentì una lacrima e dopo un pianto che le veniva, ma non dagli occhi. Allungò una mano, strano, ma non era divampata?
Toccò i suoi lunghi capelli rossi e ricci, che sembravano pannocchie di granturco.
Indossava un abito di raso celeste ed era una bambina di carne, ossa ed anima.
Ai suoi piedi c’era una cucchiaiata di cenere e due sassolini neri, rotondi e levigati.
Domenica Luise
(Disegno di Domenica Luise rielaborato al computer)

Era un asinello bigio e tutti si aspettavano da lui che mangiasse poco e lavorasse tanto sotto basti mostruosi. Ma questo qui era un asino ambizioso, che decise di mascherarsi da cavallo per partecipare alle gare e vincere cospicui premi, difatti gli piaceva correre e non s’affannava mai.
Ora la sua fortuna era che aveva un amico chirurgo plastico asino come lui, che gli tagliò le orecchie in anestesia locale e gliele rimpicciolì, fu un’operazione lunga, anche dolorosa per le complicanze e gli effetti collaterali, ma dopo un paio
di mesi, una bella mattina d’autunno si guardò soddisfatto allo specchio:
-Sembro proprio un cavallo- disse ammirato di se stesso e nemmeno si accorse che tanto i cavalli quanto gli asini gli ridevano dietro e anche avanti battendo gli zoccoli per terra e tenendosi la pancia.
Mentre le orecchie guarivano e gli ricrescevano quei quattro peluzzi sulle cicatrici, curò la criniera e la lunga coda, entrambe finte e tutte fatte di extension incollate magistralmente dalla parrucchiera della sua fidanzata, che pure lo decolorò dalla testa ai piedi perché volle essere un cavallo bianco. Intanto si imbottiva di vitamine e ormoni della crescita per migliorare la potenza dello scatto, la resistenza nel galoppo e sviluppare i pettorali, si spalmava ogni giorno con la lozione contro la calvizie per infoltire il pelo e concludeva, a sera, con un massaggio di olio di jojoba che lo facesse risplendere sotto i riflettori. Ma il più difficile fu abituarsi a correre sui tacchi alti perché era troppo piccolo in confronto ai cavalli, partiva ogni mattina presto con gli zoccoli serrati nelle scarpine tacco dodici, e ce ne volevano quattro, due avanti e due dietro e, dopo molte cadute, sembrava che ci fosse nato. Mah. Il bustaio gli fece una bella panciera che lo stringesse nei punti nevralgici e così imbracato egli sembrava davvero un purosangue.
E venne il giorno della sua prima gara, una cosuccia regionale, di non grande rilievo. Stava in mezzo a tutti quei bei cavalli veri e si sentiva emozionato, c’era una femmina bionda che sembrava molto interessata a lui, gli aveva perfino fatto una carezza sulla criniera di extension, con sua grande preoccupazione che gliene portasse via una ciocca o due. Era molto lusingato che quella bella ragazza lo corteggiasse così esplicitamente, in confronto la sua fidanzata, bigia come lui, era meno di zero. Scariche adrenaliniche gli percossero il cervello e le reni al pensiero di quanto la vita, ormai, gli sorridesse e gli scappò un raglio alto, rauco, sonoro, così subito lo squalificarono prima che partisse.
Domenica Luise
(Acquerello di Domenica Luise)
La poesia si era sciupata e sembrava la gatta Cristina della professoressa in pensione Domenica Luise, eterna poetessa o aspirante tale anche in vecchiaia, quando avrebbe invece dovuto pensare al bastone, alle pillole da non dimenticare se voleva campare e ai pronipotini quasi pronti.
Anche la professoressa aspirante poetessa si era sciupata, era stata un’influenza, uno strano virus che attaccava lo stomaco. Si era trovato bene nella ciccia insieme alla sua famiglia e se la stavano mangiando, sicché la padrona e la gatta, sia pure per differenti ragioni, avevano assunto lo stesso sguardo infossato e talora smarrito. Non erano un gran bel vedere, tanto è vero che, dopo mesi di influenza imperterrita col mal di stomaco e la diarrea, la sorella, il cognato e i nipoti della prof. incominciarono a temerne un decesso del quale poteva, del resto, essere anche il momento opportuno mentre a sua volta l’aspirante (io) incominciò a meditare che, se le moriva la gatta, non le restava più nessuno che la festeggiasse con fusa e strofinamenti adoranti. E a me piace tanto essere festeggiata.
Tuttavia la poesia era peggio ridotta di me dopo l’influenza di moda e della mia gatta dopo avere difeso strenuamente la ciotola e la virtù, cosa che dopotutto non le riesce dolorosa essendo sterilizzata.
Queste poco strane vicissitudini familiari (molti hanno un gatto e quasi tutti, quest’inverno, si sono beccati l’influenza di cui parlo, anche se magari poi non gli è durata fino ad agosto) mi servono per la dimostrazione del mio assunto: se io depositavo in congelatore i cibi che non mi calavano e, periodicamente, li regalavo ai cagnolini randagi di Enza nascondendoli alla sorella preoccupata e se la mia gattina annusava le proprie polpette, ci girava intorno e si mangiava invece l’orlo della mia camicia da notte o del pantalone o della gonna che casualmente indossavo al momento ciucciando voluttuosamente là dove non c’era latte, quali cibi avevano messo nel piatto alla poesia per essere diventata così smunta? Perché qualcosa che le aveva fatto male gliel’avevano data.
La poesia di Dante non avrebbe mai camminato rasente ai muri come se si vergognasse e per di più coperta di veli neri, perennemente a lutto. Con Dante aveva fiammeggiato, adorato, gridato, sorriso e sprizzato luce, mai silenziosa. Con Petrarca si era lamentata di un amore struggente, un po’ ripetitiva eppure gradevole, Ariosto aveva favoleggiato, Torquato Tasso posto il dolore umano al centro delle favole, intanto i secoli passavano e il pensiero si adergeva, Vittorio Alfieri aveva esaltato le bollenti passioni e il sentimento, Leopardi si era lamentato, ma con così tanto stile e savoir faire che il suo pessimismo divenne poesia e Silvia si trasformò in un’amica degli allievi attoniti, simbolo della giovinezza stroncata. Mah. Pascoli scoprì dolcezze nuove e cuori di bambino sensibile, anche capriccioso, D’Annunzio si innamorò della parola, Quasimodo, Ungaretti e Montale cantarono la scarnificazione del pensiero e dei sentimenti, dopo di che la poesia,oggi, piange e basta, tipo epigrafe: Qui giace la poesia, madre e moglie esemplare, morta per anoressia d’anima. La vecchia partita a tennis di amore e di dolore è finita per sempre, amore non sorride più o così poco da essere niente mentre dolore fa gli strepiti e si tira i capelli anche quando è calvo.
Ma se la risata o lo scherno o la bonaria presa in giro non sono genuini, dal proprio profondo, non si possono inventare, sarebbe come accendere il fuoco nel caminetto senza scintilla né esca.
Non è prendendo una fiammella dal caminetto altrui e attribuendosela che si nutre il proprio fuoco, non funziona così. Copiare non serve perché non suscita, non riscalda, non si attacca.
Meglio tacere: è più dignitoso. Almeno io, per esempio, non potrò dire di avere chiaramente trovato, nelle cose altrui, questi appunti usciti dalla mia testa o tracce inequivocabili di me.
Adesso è chiaro il perché sia fuggita: troppa concorrenza sleale di una poesia finta. I cloni poetici nutriti di menzogne ed autoproclamantisi grandi autori, si moltiplicavano ad ogni crocicchio facendo concorrenza ai poveri negri lavavetri e consegnavano agli automobilisti foglietti colorati con la pubblicità del proprio libercolo (smilzo, brutto e pieno di errori di stampa e di ignoranza), i maschi facevano guizzare i muscoli lucidati ad olio d’oliva e le femmine chinavano la scollatura a V fino sul volante, quelli che ci andavano peggio erano i lavavetri, intanto scattava finalmente il verde e tutto ricominciava pochi metri più in su o in giù.
La pubblicità è l’anima del commercio, sempre che di anima si tratti e non di cartamoneta.
Alla fine la poesia dovette cambiare pianeta per bisogno di respirare, qua rimasero la televisione, internet e i giochini scacciapensieri, ogni cosa al suo prezzo.
Domenica Luise

Vi faccio vedere la mia gattina in agguato sul muretto del giardino, non sembra tanto spennacchiata in questa prospettiva, mi ha gratificata di un benigno sguardo verde e poco dopo è schizzata dietro qualche povera lucertola sopravvissuta ai suoi artigli.
(Fotografia di Domenica Luise)
Faceva la dietologa ed era una cigna bianca, sexy, sempre scollacciata e con le calze autoreggenti di merletto nero.
Dopo una storia d’amore conturbante, aveva sposato un medico di belle speranze, dedito alla ricerca di laboratorio su tutti i parassiti degli uccelli con malattie annesse e connesse.
La giovane moglie, quando finiva di pesare, consigliare e misurare cigne grasse, tornava a casa fremente, cucinava, si scrostava con la varechina le penne ad una ad una, faceva il bagnoschiuma “Passione n° 55“ e, tutta olezzante, lo aspettava.
Egli arrivava coi vetrini dei parassiti in tasca e l’intenzione, dopo pranzo, di riguardarseli con comodo al microscopio. In laboratorio lo chiamavano sempre i suoi colleghi a destra o a sinistra perché li aiutasse a riconoscere questo o quel microbo, virus o batterio che fosse, sicché non si poteva concentrare sul proprio, delicato lavoro.
Lei gli portava le pantofole, il giornale e il sigaro intanto che, nel forno a microonde, scaldava il piatto di verdure varie senza sale e senz’olio, per non ingrassare. Nemmeno il tempo di accendere il sigaro, che glielo toglieva di bocca: <Non lo fumare, amore, o ti viene il cancro ai polmoni> e gli scodellava davanti il primo piatto, lo stesso ogni giorno. Egli spiluccava in mezzo a tutta quell’erba:
<Mangia, amore, ci sono le fibre, ti fanno bene.>
Di secondo piatto, formaggio magro, bianco, molle e scipito: <Non contiene colesterolo.>
Il cigno sospirava ingoiando.
<A cosa pensi, amore?>
Egli, veramente, fantasticava sul panino con la salsiccia fritta che intendeva mangiarsi a merenda coi colleghi, di nascosto, alla rosticceria sotto la clinica. Dopo si sarebbe pure bevuto un bicchiere di vino rosso, un caffè ed avrebbe concluso con una sigaretta, forse due.
Di fronte a tanta goduria, l’espressione gli divenne stranamente sorridente, con l’occhio lucido. La cigna, che era gelosa, gli fece una scenata: <Ecco, chissà a cosa stai pensando, è più giovane, più bella, più magra di me?Perché non mi rispondi?>
Egli, che si era distratto e non aveva capito il motivo per cui sua moglie, all’improvviso, si fosse messa a gridare, prese tempo portando alle labbra il bicchiere pieno di quella che sembrava premuta d’arancia e per poco non la sputò.
<Che cos’è questa?> chiese con una smorfia.
<Succo di carota, ci sono le vitamine e fa bene alla vista. Non ti piace?>
La cigna abbassò lo sguardo sbattendo le ciglia cariche di rimmel:
Si era rincantucciata su se stessa e sembrava molto depressa.
<Ma sì che mi piace.>
<Non è vero.>
<Ma sì che è vero.>
<No, tu mi menti. E prima non hai risposto alla mia domanda.>
<Quale domanda ?> chiese lui incauto.
<Ecco, non negarlo, non mi hai nemmeno ascoltata.> starnazzò lei.
Il cigno tacque un attimo frustrato.
<Siamo magri come la morte in vacanza ed io ho sempre fame.> sbottò per la prima volta durante il matrimonio.
Ed appoggiò, forse distrattamente, i vetrini dei parassiti sulla tovaglia di Fiandra immacolata.
<Ti pro-proibisco> strillò balbettando lei, <di-di mettere-re qu-quelle orribili cose sulla to-to-tovaglia.>
<To-to-tovaglia> le rifece il verso lui.
Così litigarono proprio come fanno i cigni selvatici, strombazzarono il loro sdegno a tutto volume puntando l’ala l’uno contro l’altra ed alla fine lei gli disse sul becco:
<Maledetto il momento che ti ho sposato.>
<Confermo> strepitò lui.
<E dire che mi ero scrostata, lavata, profumata e il resto per te, che mi tradisci pure> urlò la cigna fuori di sé.
<Io ti tradisco? E quando, come, che dici, sei pazza? Non è vero! Non è vero!> fece lui, sempre sullo stesso tono.
<Ti amo follemente, non posso vivere senza di te , sei sicuro di non avermi tradita?>
<Ma certo che no, anch’io ti amo, non mi sono mai sognato di tradirti.>
<Allora a che cosa pensavi poco fa?>
<Al panino con la salsiccia fritta che mi mangerò nel pomeriggio insieme ai colleghi> confessò lui, messo alle strette.
A questo punto la cigna non trovò di meglio che mettersi a piangere a gocce, a catinelle, a fiumi, a laghi. A oceani. Si sa che questa è l’arma vincente femminile, difatti funzionò pure stavolta. Egli le aprì subito le braccia e l’accucciò tutta sul suo piumoso torace scarno:
<Amore, potrai mai perdonarmi, sono stato un selvaggio.>
<Ed io credevo che la cucina dietetica ti piacesse. Domani ti preparo la pasta al forno.>
Per un attimo gli occhi di lui ripresero quell’aspetto languido di prima.
<Ti giuro, non porterò più i vetrini dei parassiti a casa> affermò poggiandosi una zampa sul cuore.
<Basta che non me li metti sulla tovaglia.>
<E la prima volta che litighiamo.>
E si dettero un bacio passionale, come ai bei tempi del fidanzamento. Il che dimostra che, nel matrimonio, è meglio litigare che tacere.
Domenica Luise



Suo padre lo voleva ragioniere e commercialista, Geranio scappò di casa con una scatola di gessetti colorati in tasca ed un fazzoletto pieno di spiccioli del salvadanaio.
Lo ritrovarono dopo due giorni, che disegnava Madonne sul marciapiede. Era sazio e, coi guadagni, si era comprato una giacchetta nuova a disegni cinesi fucsia, gialli e blu, ma era minorenne e due carabinieri dall’aria truce lo riconsegnarono ai genitori, che lo iscrissero all’Istituto Commerciale dopo averlo perdonato. Lui si lasciava bocciare. Foglio bianco e scena muta. I professori lo aiutavano, lui marinava la scuola. Faceva la caricatura alla gente nei ristoranti, la sera aveva le tasche gonfie di soldi.
La scuola avvisò la famiglia di queste assenze continue e fu così che i genitori, finalmente, lo iscrissero all’Istituto d’Arte.
Quando incominciò a sfornare quadri uno sull’altro, neanche lì lo capivano. Impressionismo? Astrattismo? Surrealismo? Espressionismo, Cubismo, Simbolismo? Forse “ Stranismo” .
Non rientrava in nessuna categoria nota.
Era un tipo quieto, pacioccone, bruno, liscio, occhi marroni ed un inizio di doppio mento.
Portava sempre una sciarpa colorata, notes degli schizzi e matita in tasca. Studiava solo quello che gli piaceva.
Tutti i suoi compagni di classe si fecero il codino e l’orecchino per snobismo, lui no, si tagliava i capelli né corti né lunghi, liquidava in fretta e furia i compiti e, dopo, dipingeva.
Un giorno stava sull’autobus e, nel frattempo, senza neanche pensarci, faceva un bozzetto nel taccuino degli schizzi, quando lo vide per caso un critico d’arte in incognito , che cercava talenti autentici.
Fu tutt’uno. Geranio, dall’oggi al domani, da zimbello divenne genio. La famiglia, i professori, i conoscenti, tutti affermarono: <L’avevo detto io !>
Le sue mostre si susseguivano con straordinario consenso di critica. Geranio dipingeva e vendeva, vendeva e dipingeva. Allora progettò la propria casa, che fu straordinaria, protesa come un gabbiano sul mare, tutta architettata, arredata e con le pareti dipinte da lui.
Elettricisti, muratori ed operai vari sapevano che era ricchissimo e così si misero d’accordo per imbrogliarlo meglio che potevano. Soprattutto uno degli imbianchini, un certo Lupus, arrivò a fargli pagare lo stesso lavoro tre volte, gli raccontò di avere preso una multa per avergli trasportato illegalmente il materiale con la propria automobile, di avere un figlio handicappato in non so che istituto e la moglie malata di cuore, invece non era nemmeno sposato.
A sentir lui, era un condensato di disgrazie. Geranio gli credeva ciecamente, lo aveva caro, lo invitava sempre a pranzo e si inteneriva nel vedere le porzioni gigantesche che Lupus era in grado di divorare.
D’altro canto Lupus era un adulatore perfetto ed avrebbe ingannato persone ben più astute di Geranio.
Gli rubò perfino alcuni disegni ad acquerello, pregiatissimi, rivendendoli a critici di seconda mano. Col tempo si scopriva sempre di più, gli rideva dietro e anche avanti, diceva: <Guardate a chi doveva toccare il talento e la fortuna, a un cretino>.
Tutti e due si sposarono, ma Geranio non ebbe figli. E poi i figli di Lupus crebbero, si sposarono ed ebbero altri figli e gli anni passarono.
Nel frattempo la critica girò le spalle al pittore e lo dimenticò mentre l’imbianchino, rubando e imbrogliando, arricchì e divenne proprietario di dieci appartamenti di lusso in un palazzo.
Era rimasto vedovo e i suoi figli trovarono che non era conveniente vivesse da solo e, poiché non potevano tenerlo comodamente nelle proprie case né assisterlo, lo misero all’ospizio.
Anche Geranio rimase vedovo e senza figli, così vendette la casa e se ne andò all’ospizio.
Lì Lupus lo riconobbe dal nome ed anche dallo sguardo.
Dipingeva sempre, ma solo per diletto. Regalava i quadri agli amici che andavano a trovarlo, lo invitavano nelle loro case, lo festeggiavano, insieme giocavano a carte, facevano le parole crociate ed i rebus, vedevano la televisione e si azzuffavano per la politica e lo sport. Il pittore era o sembrava sempre felice. Gli altri vecchietti dell’ospizio stravedevano per lui e lo cercavano per ogni bisogno.
In quanto ai figli dell’imbianchino, la prima domenica vennero a trovarlo tutti e tre con le mogli e i bambini e lui andò fiero di quella schiera di parenti, che gli avevano portato biscotti, cioccolata e sigarette.
La seconda domenica venne un figlio solo e gli disse che si sarebbero dati i turni. Gli portò le sigarette.
La terza domenica l’altro figlio telefonò perché non poteva venire.
Dopo qualche mese non venne più nessuno dei figli e non gli portarono più niente, però telefonavano.
Dopo altri mesi non telefonarono più, continuarono a vivere la propria vita e a costruire palazzi come aveva fatto il padre, il quale, appena poteva appartarsi, piangeva chiuso nella propria stanza.
Era davvero la più piccola, spoglia e peggio esposta di tutto l’istituto, essendo anche la più economica. Quando Geranio vide quel buco, immediatamente fece trasferire, a proprie spese, colui che definì “ il mio amico “ in una camera al piano superiore, con bagno personale. Gli donò alcuni tra i più bei quadri che avesse fatto ultimamente ed ogni giorno passava un po’ di tempo a consolarlo per l’abbandono dei figli, affermando che i giovani capiscono sempre troppo tardi l’amore dei genitori.
Quell’inverno il pittore prese la bronchite e gli amici non lo lasciarono un momento, quando invece prese la bronchite l’imbianchino ci fu solo il pittore ad assisterlo.
Allora l’imbianchino compì l’ultimo atto di egoismo e gli confessò tutto per sgravarsi l’anima: di come lo avesse preso in giro e derubato. Geranio lo guardò con quell’espressione innocente:
<Sono contento di averti incontrato di nuovo> gli rispose porgendogli una premuta di arance mentre l’altro tossiva, <bevi, ti fa bene.>
Allora Lupus, finalmente, gli vide l’anima attraverso le rughe, la testa pelata e luccicante, gli occhiali , i denti finti e il doppio mento ormai cascante.
Sentì una specie di rimembranza liliale, scosse la testa e, per la prima volta dopo tanto tempo, si asciugò una lacrima vera.
Si strinsero la mano.
Un paio di settimane dopo i giornali ripresero a parlare di Geranio con entusiasmo, lo cercarono, lo intervistarono, riorganizzarono mostre e venne la televisione fino all’ospizio.
Vollero sapere da lui se era stato un uomo felice. Certo, rispose. Se aveva amato sua moglie ? Moltissimo. Se ne era stato riamato? Moltissimo. Se gli era mancato un figlio? Certo. Ma nella vita qualcosa manca sempre a tutti. Se aveva amici? Tanti, anzi adesso ne aveva perfino ritrovato uno della giovinezza. Lupus, già. Non si spaventassero dell’aspetto minaccioso e delle lunghe orecchie nere a punta né di come digrignava i denti né di quegli occhi rossi. Potevano accarezzarlo: era innocuo.
Domenica Luise
(Elaborazioni grafiche di Domenica Luise)