La farfalla Gelsomina stava sempre col tutù e le scarpette da ballo a volare di fiore in fiore succhiando il nettare. Viveva onestamente , insegnando acrobazie aeree ai bambini in un asilo privato dove le davano due soldi di stipendio e
le facevano finanche pulire i pavimenti della propria classe a lezione finita.
Certe volte venivano le mamme a prendersi i figli e la trovavano affannata,
ancora con la scopa in zampa e il secchio accanto pieno di acqua sporca.
Lo scarafaggio Linuccio, invece, si era messo nella politica e trafficava cavando fuori leggi con le regole adatte ai propri amici e, soprattutto, a se stesso, ad esempio sovvenzioni per chi presentasse un progetto di costruzione di un supermercato in zona depressa psicologicamente e civilmente.
Già l’amico era pronto e informato, le carte pure. Bastava firmare, intascare e dividere il malloppo in parti eque, sarebbe a dire tre quarti allo scarafaggio
ed un quarto all’amico.
Intanto la farfalla Gelsomina scriveva poesie e favole che gli editori,
timidamente contattati, si dichiararono disposti perfino a pubblicare, ma naturalmente a spese di lei, cambiandole il testo qua e là per adeguarlo maggiormente al gusto popolare e a patto che l’autrice girasse di casa
in casa rivendendo da sé il proprio stesso libro.
Ciò alla farfalla ballerina sembrò triste, ma così triste che non poté mai farlo.
Un editore, infine, si trovò che stampò due libretti di quelle poesie senza rimaneggiarle, anzi lodandole molto, ma poiché non ebbe i mezzi né la voglia di
fare pubblicità nessuno le lesse e la farfalla Gelsomina li ricomprò perché
non andassero al macero, ed oltretutto c’erano dentro molti errori di stampa,
che dovette correggere a penna, e li regalò a tutti quelli che capitarono: all’uscita delle chiese, nelle scuole, alle mamme dei propri alunni ed ai mendicanti.
Ognuno poté sbadigliare e giudicare quell’anima di farfalla, e ciò le fece male
per sempre, come una ferita dentro. Per questa ragione non cercò più editori, scrisse soltanto per gioia e fu molto felice.
Dipingeva pure, trasformando in colori la propria poesia, quei pochi che vedevano
i quadri dicevano: <Belli, belli, ma non fai le mostre? A quanto li vendi?>, dopo
glieli chiedevano in regalo affermando che volevano “un suo ricordo“, come se lei stesse per morire all’istante, insistevano con l’occhio commosso, anzi avido, anche invidioso per tutto quel talento inutile ed ignoto, si prendevano il quadro e lo appoggiavano a terra, in un angolo magari polveroso e senza luce della propria
casa, in attesa di appenderlo o magari di regalarlo o comunque di farci qualcosa perché non ingombrasse.
Quando la farfalla Gelsomina, una volta, vide un proprio quadro, che aveva regalato per una prima Comunione, in castigo nell’angolo con la faccia al muro, capì e da allora in poi non cercò oltre né mercanti d’arte e nemmeno acquirenti per i
propri quadri. Continuò a dipingere soltanto per gioia e fu molto felice.
Ora un giorno lo scarafaggio, il cui conto in banca stava scoppiando a causa
delle sovvenzioni per un progetto di ospedale in collina, mai iniziato a
costruire, casualmente vide, a casa di un suo lontano cugino, un quadro
della poetessa, che lei gli aveva regalato molti anni prima, quando egli l’aveva
presa in giro facendole il cascamorto ed assicurandole che le avrebbe
organizzato una mostra. Si era portato via il quadro e se l’era appeso
nell’ingresso senza nemmeno incorniciarlo.
Era talmente bello che saltava agli occhi perfino di uno scarafaggio
dall’intelligenza artisticamente sottosviluppata come Linuccio.
Egli pensò che una cretina del genere, e talmente cretina da regalare un
quadro di quel valore al primo venuto, potesse essere redditizia e si informò.
La farfalla ogni mattina, verso le otto, faceva colazione al bar Girasole.
<Pittrice Gelsomina! Poetessa! Ma è proprio lei?>.
<Ma come, mi conosce?>, chiese la farfalla arrotolando la proboscide dal
nettare di gelsomino che aveva nella tazza.
<Ma tutti la conoscono! Lei ha stampato due libri di poesie meravigliose,
che tengo sempre sul comodino e leggo tutte le sere>.
In realtà lo scarafaggio Linuccio, come molti altri, aveva, è vero, i due libri
in casa perché li aveva ricevuti in regalo a suo tempo, ma in fondo all’ultimo cassetto della libreria e nemmeno li aveva aperti mai né conosceva gli
argomenti né niente. Del resto la libreria non gli serviva per leggere,
ma solo per bellezza. Gli scarafaggi non sono creativi né amano lo studio, preferiscono poltrire e, nel tempo libero, massaggiarsi il corpo peloso
con le creme idratanti.
Lo scarafaggio era brutto, è vero, ma la farfalla Gelsomina, alla quale nessuno diceva mai una lode, gli credette e, con entusiasmo, gli mostrò le foto dei suoi quadri.
Egli fiutò l’affare: <Se lei mi dipinge trenta quadri, le organizzo io una mostra indimenticabile. Metà per uno. Va bene? Solo dovrebbe anticiparmi le spese, facciamo diecimila euro, bisogna pagare il locale, invitare la stampa, le porto finanche Il Corriere Farfallino, poi bisogna pagare gli scrittori degli articoli perché pubblichino quello che vogliamo noi, poi il buffet, il catalogo, la
pubblicità in televisione. Ci penso io. Per lei sarà l’inizio di una nuova vita.
Perché deve restare così?> , e l’indicò col dito dall’unghia adunca. In effetti Gelsomina, come ogni giorno, indossava un abitino del mercato quasi fuori moda.
Lo scarafaggio era brutto, grasso, peloso, nero, bavoso e bugiardo. Lei era
tutta bianca.
La farfalla sentì una fitta nella ferita del cuore e tacque.
<Non dice niente, poetessa?>.
<O brigo o creo>, rispose allora Gelsomina, <preferisco creare>.
Lo scarafaggio restò senza parole. Quella era pazza. E’ vero, lui voleva solo sfruttarla, ma lei era pazza di sicuro.
La guardò negli occhi e d’improvviso provò come il ricordo lontano dell’innocenza perduta. <Ha ragione>, rispose, <mi scusi. Non avevo capito>.
Quella era una donna che egli, se ne fosse stato degno, avrebbe potuto amare
per la vita.
Annusò un’ultima volta il buon sapore di gelsomino che emanava da lei e, senza
osare di porgerle la zampa, confuso, quasi con lo sguardo annebbiato, girò sui
tacchi e, pesantemente, tornò al proprio ufficio: aveva molti imbrogli in
sospeso e non poteva permettersi distrazioni o l’avrebbero ammanettato.
Invece Gelsomina si alzò dalla sedia dopo avere fatto zuppetta con la brioche
nelle ultime gocce di nettare, proprio come una povera , che mangia anche le briciole; raccolse la piccola borsa del mercato, bianca lavorata a uncinetto,
pagò, dette una moneta a uno più povero di lei poco più avanti e si librò
sulle grandi ali per tornarsene a casa, nel cespuglio di gelsomino.
Si sentiva molto felice perché poteva scrivere quello che voleva senza che
nessuno le cambiasse il testo qua e là e dipingere come le pareva. Libera.
Domenica Luise