Ho sempre tentato di volare. Da piccolina non camminavo, saltavo, e non scendevo le scale: mi buttavo. Avevo regolarmente le ginocchia scorticate, mi ricordo certe croste immense che mi ero fatta a casa degli zii andando e venendo dal giardino e che io, regolarmente, tiravo via senza sognarmi di ascoltare i grandi: <Non le toccare, non le toccare>.
Odiavo le croste, ma continuavo a buttarmi dalle scale, così zio Peppino fece fare un cancello di legno chiuso col lucchetto a sbarrarmi il passo, appena lo vidi subito tentai di aprirlo, venni rimproverata e mi offesi perché mi avevano impedito la via dei fiori e del pollaio.
Ero convinta che le galline strillassero tanto per avvisare noi che l’uovo era pronto così partivo a prenderlo, dovevano aprire il lucchetto del cancello, accompagnarmi per le scale e abbandonarmi in giardino, da dove poi ero capace di risalire da me senza precipitare.
Il pollaio aveva una porticina giusta per le mie dimensioni minime. Entravo a testa alta, raccoglievo l’uovo nel nido imbottito di paglia e risalivo in casa col mio trofeo.
Ma una volta la gallina non aveva finito, io tentai di spostarla per prenderle l’uovo da sotto e lei, a sua volta, tentò di beccarmi, ricordo benissimo uno sguardo tondo iniettato di sangue, aveva le penne marroni, un colore che non mi è mai piaciuto. Fuggii come il vento dal pollaio e da allora alle uova dovettero pensare i grandi.
Un giorno che ero arrabbiata chissà per quale problema o comunque in fase di pensiero meditativo, i grandi se ne accorsero:
<Ma che cos’ha la bambina?>.
<Tesoro, ti senti male?>.
<Perché sei tutta seria? Perché non parli?>.
<Avrà mal di testa? Tesoro, che c’è?>.
L’interesse suscitato mi piacque molto e da allora iniziai ad assumere la mia tipica espressione che portai avanti per tutte le scuole elementari ed oltre, come si può ammirare in questa foto, scattata a Messina, a piazza Cairoli,
dove mi trovavo a fare spese con la mamma, da alcuni ragazzi che giravano cercando bambini da fotografare, dopo si andava al negozio e si ritirava il capolavoro, a giudicare dalla potenza del sole doveva essere mezzogiorno passato. Mi piaceva tanto la veste che indossavo perché era di taffettà a quadri ed aveva il grembiulino con sopra le ciliegie ricamate a macchina. La catenina che portavo era d’argento, o almeno così affermavano i grandi per tenermi buona, e sulla medaglia c’era l’immagine di S. Antonio, del quale la mia mamma era devota. In questa foto la catenina era bella lunga, ma poiché la spezzavo sempre e papà era capace di aggiustarla, ogni volta perdeva un pezzetto, alla fine, con mio rammarico, non mi entrò più dal collo.
Domenica Luise
(Fotografo sconosciuto)