
La professoressa Maria Luisa aguzza gli occhi da dietro le spesse lenti e guarda il treno come una triglia che boccheggi fuori dall’acqua. Sorrido perché già so che spera di vedere me e mi spenzolo fuori dal finestrino gridando festosamente:
< Eccomi, sono qui >.
Lei sale sollevata trascinandosi dietro i suoi quarant’anni evidenti, il sonno arretrato e la pelliccia di montone. Trasecolo ammirando l’orribile borsa grigia di nappa che si è dipinta da sola in bianco, rosso e nero e una miriade di triangoli, cerchi e palline intersecantisi. < Si intitola “ soggetto geometrico “ dice la professoressa orgogliosa. Mi faccio consegnare l’orrore, che contemplo estasiata.
< Ma lo sai > oso sussurrare in tono soffocato, < che se tu volessi vendere una cosa di queste troveresti cento donne disposte a fare a pugni ? >.
Il mio atteggiamento deve colpire molto un’anziana tricheca dal mento peloso e le dita rigurgitanti di anelli. Salendo l’ho presa di mira e sarà la mia prossima cliente.
La professoressa, ormai, non mi pone più problemi. Me la sto lavorando da almeno venti giorni a base di regalini, biscotti al cioccolato, gridolini di ammirazione per tutto ciò che lei dice e fa: i suoi tre micetti, il suo vecchio zio, la sua vecchia mamma, la sua età che, le giuro, non dimostra per nulla, dieci anni di meno, e poi sei così giovane, ti vesti così bene.
< Mi permette ? > chiede l’anziana tricheca prendendomi di mano l’orrore. Vedo passare sul viso della professoressa il lampo di giusto orgoglio. Oggi è più spettinata del solito.
< Nel pomeriggio vado a fare una messa in piega a una mia amica, dopo posso venire a trovarti? > le chiedo educatamente. Io le mie clienti paganti e strapaganti le chiamo tutte amiche, le tratto da giovinette ventenni come me, do loro il soffio della giovinezza. Tutte mi vogliono bene e non possono fare più a meno di me neanche quando incominciano, almeno le più intelligenti, a dubitare della mia buona fede. Allora è il momento di mollarle dopo averle spolpate. Le migliori sono le nubili, quelle vedove e comunque il più possibile senza una famiglia che le possa difendere o aprire loro gli occhi. Età prediletta: quaranta, il canto del cigno, il tramonto ardente, il meglio della carriera, dello stipendio e dei soldi da parte.
Questa tricheca, tuttavia, deve essere ben oltre. Fede non ne ha. Mi aggiusto distrattamente la coda di cavallo asimmetrica e faccio girare, senza parere, il brillante sintetico grosso come un pisello che adorna il mio anulare sinistro.
La professoressa cade subito nella rete: < Anch’io dovrei mettermi a posto questa criniera invadente >, sorride. Due solchi spietati le si accentuano agli angoli delle labbra.
< Se vuoi ci penso io, mi prendo poco > rispondo. Che non supponga di essere servita gratis fino a casa. E’ ovvio che debbo prepararla al momento in cui, con aria generosa, dopo avere consumato la “ sua “ corrente elettrica, i suoi capelli, il suo tempo e il suo caffé coi dolcini, le sussurrerò : < Cinquanta euro >.
< A che ora puoi venire? >.
< Alle diciassette >.
< D’accordo >.
La tricheca, intanto, dopo avere attentamente palpato la borsa, dice:
< Complimenti, signorina. Io dipingo e sono cosciente che il suo lavoro vale ed è ben fatto. Molto originale >.
La professoressa Maria Luisa è scarlatta e un poco mi fa pena. Soffoco subito la commozione, che nel mio lavoro non mi posso permettere.
< Lei dipinge? > intervengo con vocina flautata, < io conosco un ragazzo pittore bravissimo. Gli ho piazzato molti quadri >.
La tricheca si aderge: < Ho qui delle foto di alcuni miei lavorucci > afferma. E tira fuori un piccolo album che sfoglio soffocando gli sbadigli. Il mio è un lavoro noioso, anche se rende dei bei soldoni non soggetti ad alcuna tassazione.
I quadri, a guardarli bene, mi piacciono. Per davvero. Le foto sono scadenti, ma anche così si notano certi colori sognanti e un movimento perpetuo dei soggetti. Le tele sembrano vibrare.
< Lei ha un’anima di farfalla > dico. La tricheca si fa gli occhi tondi, pare quasi che stia per piangere.
< Le piacciono? Davvero? >.
Forse sarà effetto del mio brillante sintetico se tutti mi trattano con tanta deferenza o dei vestiti firmati, sempre uno diverso ogni giorno, che porto sul treno, bene attenta a non sgualcirli perché dopo io e la mia amica Monica ce li dobbiamo vendere comunque.
La tricheca ha indosso un abito a quadretti minuti viola e blu, la stoffa è buona.
Sarà un’ottima cliente per i fondi di magazzino dalla taglia cinquantasei in poi.
< Sa a cosa mi fa pensare il suo vestito? Io ho un’amica che gestisce una boutique e mi fa sempre lo sconto >, mi stiro, con una mano, sui fianchi la deliziosa gonna jeans tutta adorna di paillettes e il maglioncino di cotone in tinta, il treno, con un botto, si ferma: < ne ho visto uno simile tra gli ultimi arrivi. Ce ne sono molti, bellissimi, della sua taglia >.
La pittrice tricheca mi guarda senza sospetto. E’ tutta mia.
< E dov’è questa boutique? Sa, mi servirebbe una giacca buona, di seta nera >.
In realtà, fra i rimasugli, ne abbiamo una verde bandiera, di acetato.
< Perché nera ? > chiedo a occhi sgranati, < io penso che coi capelli biondi il verde le starebbe benissimo >.
< Sì, è vero > risponde lei. O inerme! Per un attimo avevo temuto che il mio fluido non funzionasse e potesse resistermi.
E che i capelli fossero biondi o neri o rossi sarebbe stato uguale. Io dico che è una specie di ipnotismo.
Anche la professoressa ammira le foto dei quadri, si vede che è sincera e per niente gelosa:
< Il suo sentimento del colore è migliore del mio > afferma candidamente. O sciocca. Ma sarò furba solo io al mondo?
La tricheca mi dà indirizzo e numero di telefono. Prometto che avrà anche lei uno sconto, certamente: il prezzo base della giacca più duecento euro, cento a Monica e cento a me.
E’ un’invernata estremamente mite, che mi ricorda altri momenti, quando ero viva. Una grassa fanciulla felice e innamorata.
Da tutto il pomeriggio non ho voglia di fare nulla. Provo un malessere nell’anima e il bisogno di rimuginare. Non mi va di telefonare a Monica per raccontarle della tricheca e della borsa orrenda che aveva oggi la professoressa. Chissà che animali siamo io e Monica. Due volpi. Due lonze di dantesca memoria.
E prima, quando ti amavo buffamente e ti facevo capire aperta la mia anima, che animale ero?
Ricordi come ridesti di me coi compagni di scuola?
Digiunai e dimagrii. Conobbi l’altra me stessa, capace di piegare gli altri con la propria personalità, la cultura appresa al liceo classico e la parola sciolta. La prima in italiano, superiore perfino alla Bellotti Giovanna, che poi bella non era per niente. Costruiva i suoi temi come giochi a incastri e il professore non poteva tenersi dal fare le comparazioni tra me e lei: < Più spontanea e naturale, direi smagliante >, si lanciava in una buffa critica estetica che mi riguardava, < c’è il taglio giornalistico. Bellotti, tu vuoi strafare. Sette a Bellotti, otto a Marisona >.
Detestavo essere chiamata Marisona. Seguiva sempre uno strascico di commenti, restavo lì inerme, tra le risate, l’invidia dei compagni e quel mio amore pazzo per lui. Buon gusto ne avevo, e come.
Nessuno, mai più, riderà di me. Nessuno mi chiamerà ancora Marisona.
Schiaccio la sigaretta nel portacenere. Sto aspettando che si facciano le cinque per andare dalla professoressa, mi piace imbrogliare gli altri, mi diverto, è la mia rivincita. Lui, allora, non mi ha voluta. Nemmeno da magra. Anche identificare gli uomini con animali è un discreto sport, che tiene all’erta le mie meningi. Non mi posso permettere sbagli, voglio una vita piena, quando sarò bella e ricca gli uomini dovranno fare a pugni per me. Voglio diventare una signora.
Ho affumicato tutta la camera, chissà cosa dirà mia madre. Apro la finestra, in fondo, potrei fare a meno in qualunque momento della sigaretta. Anche questa potrebbe essere una gara con me stessa. E va bene, deciso: da ora non fumo più. Fa male ai polmoni, alla pelle, accorcia la vita ed io, invece, voglio una felicità grande grande … allargo le braccia verso il cielo e sento una vertigine, per un attimo m’è parso di cadere giù dal sesto piano. Rabbrividisco. Mio padre e la mamma non sanno niente di tutti i miei guadagni extra. Quello che mi schifa di più è di strappare i peli superflui dalle gambe delle “ amiche “ urlanti, ma docilissime. < Stringi i denti > dico, e via. < Con questo servizietto stai in pace più di venti giorni > bado a rassicurarle. Dopo, la catarsi: pulizia della pelle e trucco. Cento euro. Pagano sollevate di vedermi andar via, ma tutte mi chiedono: < Quando ci rivedremo ? >.
Dovevo arrivare a venticinque anni per capire cosa ci vuole con gli uomini: soldi e sesso. Ma io non ero così, avevo tanta vita. Dov’è tutta quella vita in cui credevo?
I miei sono due poveracci e abbiamo una casa che sembriamo baraccati. Tento invano di buttare gli oggetti vecchi che a loro sembrano indispensabili, i cari ricordi e i piatti sbeccati. Mi vergogno dei pavimenti consunti e dei muri scrostati, delle scatole di cartone sull’armadio dove la mamma tiene i vestiti vecchi di cui non si vuole privare. Un uomo che venisse qui mi riderebbe di nuovo in faccia.
Così debbo cavarmela da sola cercando le clienti sul treno. Anche il marito ho trovato. Non sento niente per lui: alto, bruno, spento dalla testa ai piedi, sgraziato come un ragno e col naso spezzato perché prima faceva pugilato, < E’ stato il mio amico Dino > dice mitemente.
Figurarsi se, così come sto oggi pomeriggio, ho voglia di telefonargli. Lo farei felice. Quasi quasi… No, deve soffrire anche lui. Soldi e sesso. Gli consegno una metà dei miei guadagni da mettere sul libretto che abbiamo in comune per quando ci sposeremo, < Da dove pigli tutti questi soldi > fa il ragno sospettoso ed io, appiccicandomi senza parere, soldi e sesso… quella è la regola vincente, devo stare ai patti, bene, io mi diverto a raccontargli proprio tutto di quello che faccio sul treno e come scrocco le vecchiarde quarantenni, ma gli taccio che mi fanno quella confusa tenerezza, soldi e sesso, così si tiene un uomo al guinzaglio e Paolo è meglio di niente, col suo non bene avviato negozietto di ferramenta all’angolo di un non grande paese sulla linea ferroviaria dove mi aggiro, quando entro io aumentano i clienti misteriosamente.
Rido divertita dal suo silenzio. Non è che col sesso facciamo nulla, in verità, ma in questo campo non è tanto il fare quanto l’intrigare. Meno si dà una donna e più acquista, ma deve sapersi negare. I soldi glieli do facendogli credere che sia tutto lì, non si sa mai, in quanto al mio corpo gioco a rimpiattino, come lo vedo nelle smanie prontamente io mi ritiro, nulla di meglio perché infine mi sposi. Sesso, quindi, si fa per dire, soldi sì.
Ritocco il telefono. Lo chiamo? Lo faccio felice? L’ultima volta abbiamo quasi litigato, mi ha detto che voglio fare troppo la furba. Non sa ancora niente delle mie dolcezze. Gliela do una dolcezza? Accarezzo l’apparecchio telefonico, strano gesto impulsivo, non determinato dalla logica. Non debbo permettermi errori o non uscirò da questa casa miserabile, al sesto piano, senza ascensore, con un bagno piccolo che nemmeno ci stai e le scatole di cartone sull’armadio, la madre che fa la domestica a ore su e giù per le scale e il padre in pensione seduto fisso davanti alla televisione e i piatti dove mangi sempre sbeccati.
La professoressa rimane male, ma mi dà subito i cinquanta euro della messa in piega. Sembra raffreddata e si asciuga gli occhi spesso, infine si decide a confidarsi: < E’ venuta una mia comare con la figlia che ho cresimato, dice che la ragazza si deve sposare e se mi ricorderò di lei nel testamento, tanto io non ho né marito né figli >.
< Scusami, ma mi sembra un po’ prestino > rispondo fredda fredda accomodandole un ricciolo,
< tu sorpasserai i cent’anni e camperai più di loro due messe assieme >.
Siamo sulla soglia di casa, ho già intascato i soldi e sembra che quel biglietto di banca pesi dieci chili nella mia bella borsa di pitone blu finto.
< Non mi sento bene, Marisina > dice allora la professoressa. E’ quel “ Marisina “ o il modo in cui lo pronuncia , non so, ma lì sulla soglia, anzi già fuori, mi sento salire dal di dentro un urlo di pianto, sono abituata a trattenermi, non devo lasciarmi commuovere, , lei è lì, con la messa in piega da cinquanta euro, mi ha preparato la cassata siciliana alla ricotta, che è buonissima e ci vuole un sacco di tempo e me ne ha regalato un bel pezzo da portare a mamma e papà ed io, ladra, ladra, ho quei soldi che pesano non più dieci, ma venti chili nella borsa, e la professoressa non si sente neanche bene e ho sbagliato tutto. Per non farmi vedere da lei fuggo per le scale che quasi ruzzolo a testa in giù.
“ Domani l’incontrerò “ penso aggirandomi convulsamente nella cucina e urtando tra sedie e frigorifero troppo vicini, “ le dirò: < Come stai? > e non l’imbroglierò più, non imbroglierò più nessuno. Forse sono ancora a tempo a salvarmi, lavorerò onestamente. Farò anch’io i servizi come la mamma o venderò i cerotti di casa in casa o qualunque cosa, ma non voglio, non devo, non posso più ferire a morte le professoresse di quarant’anni, specialmente quelle senza marito né figli, che cercano un sorriso sincero e sono inermi come bambine e tutti ne approfittano.
Sospiro forte più volte come se mi liberassi l’anima, sono sola in casa e mi posso sfogare. Mamma sta tenendo i bambini alla signora del palazzo a fianco, papà gioca a carte a casa di un suo amico, fisso senza vederle le brutte stampe macchiate in un angolo appese sul buffet e controbuffet anni quaranta.
Conosco e odio ogni linea di quelle macchie. Il telefono squilla ed ho un trasalimento.
< Marisa, pronto, sei tu? >.
E neanche quando c’era poco da mangiare ho tirato fuori dal nascondiglio i miei soldi guadagnati con l’inganno andando su e giù col treno.
< Pronto? Pronto? > è la voce del marito che volevo accalappiare.
< Sì, sono io, Paolo, pronto ? >.
< Ma che hai > dice lui, < stai male? >.
Allora mi confesso nel telefono e dico a Paolo tutto ciò che egli mai dovrebbe sapere, dei piatti sbeccati e di queste tre stanzette stipate di pacchi legati con lo spago, di come fosse annacquato il minestrone oggi e della mia amica Monica, che mi presta gli abiti e le borse perché poi io glieli faccio vendere a prezzo maggiorato, ma soprattutto della professoressa, che hanno umiliata ingiustamente, o meglio non umiliata: colpita a morte.
< E sai > aggiungo sperduta dal suo silenzio, < lei si sentiva male. Davvero. Aveva le borse sotto gli occhi >.
Smetto di parlare: ecco, adesso non mi vorrà più, non sono la donna sesso-soldi, non ho mistero né fascino né niente.
Ed io non sopporto che egli non mi voglia più. Mi sento tutta la faccia bagnata.
< Paolo ? > dico.
< Io ti amo > risponde lui.
Domenica Luise o Mimma
(Disegno di Domenica Luise: pennarelli)