
La notte ha un punto nero nel quale mi risveglio, la placidezza
al centro del tifone nel giallo dei lampioni tra le serrande e
la luna e le stelle. È strano.
Da dove come perché
e verso quale traguardo voliamo tutti
oltre tempo spazio e caducità.
Il punto interrogativo
è un vecchio gobbo con gli occhi a terra
o uno spaventapasseri o un bastone
per la professoressa zoppa. Una gruccia
senza scopo perché manca l’abito corrispondente
e un appiglio disoccupato, che sta lì. Segno
in corteggiamento del punto senza toccarlo
mai, sempre esitante
smarrito nella selva o nell’oceano.
Così adesso non sono più bambina
ed ho smesso di chiedere perché.
Il punto interrogativo si è messo a ridere
trasformandosi in geroglifico umano. Ecco. Tutti uguali
a testa in giù, soldati nella trincea
dei pipistrelli. Avete, abbiamo
scritto la storia, sempre la stessa
lavagna di buoni e cattivi
per un fritto misto a imbandire
una mensa di chissà chi, chissà perché
chissà dove quando come forse.
Domenica Luise
Rielaborazione grafica di Domenica Luise
Schiavi con la sportula
in viaggio mattina e sera
verso la casa del patrono
a pigliare pane in faccia
per famiglia e famigliari.
A raccoglier pane come all’epoca
orribile della statale galera,
la scuola che è carcere immeritato
dove si accede senza alcun merito compiuto
d’una azione che si possa dire tale.
Di quel pane un poco sbocconcelliamo
tornando mesti e affaticati
con la nostra sportula
e forse era meglio essere schiavi antichi
nati
dentro la casa o comprati piccini
che più lavoravano tra le quattro mura
meno dovevano uscire per commissioni
e liberati, con gesto gentile,
facevano fruttare i loro guadagni.
E forse meglio, clienti diventati,
da casa nostra a casa del patrono
con la sportula, sì, ma destinati
ad un appoggio meno in catene,
alla infamia meno conclamata.
Invece di essersi evoluto
l’impero è caduto
e come quando cade ogni cosa
si mischiano e si uniscono
e questi e quelli,
per lasciarci a faticare
nei nostri viaggi quotidiani
lontano dalle case,
lontani da dove si dice che si vive,
in balia del mondo
trasciniamo trascinati
schiavi con la sportula
dal giorno in cui si è nati.
La sportula è il paniere della spesa dove i poveri tengono il pane. In tutta la poesia c’è un pessimismo di vita appena temperato dall’accenno alla schiavitù antica, quando gli schiavi “liberati con gesto gentile facevano fruttare i loro guadagni”.
Per il resto, gli schiavi siamo noi, sotto il piede di un non bene identificato “patrono”, verso la cui casa affannosamente viaggiamo “a pigliare pane in faccia”, quel pane di cui abbiamo disperato bisogno per noi e per la nostra famiglia.
E la scuola, nei versi di Sabino, diventa “statale galera, carcere immeritato”: talora, nelle menti degli allievi, in mezzo al grigiore indifferenziato, emerge il ricordo di un insegnante che fu umano con loro, perfino sorridente, anche buono. Qui no: il vuoto completo. Viene da pensare alla disumanità che i prepotenti e i superbi usano gustosamente contro i più deboli, ancora più miserabili degli schiavi romani. Abbiamo soltanto quella sportula e un po’ di pane, una sopravvivenza stenterella che farebbe compassione ai sassi, ma non al “patrono”.
Così il destino umano è di restare “lontano dalle case, lontani da dove si dice che si vive, in balia del mondo”, vuol dire: lontano da dove tutti si illudano che si viva, ma la vita, gli affetti, l’amore sono lussi inattingibili ai poveracci. Così “trasciniamo trascinati”.
Per un po’ di pane.
E trascinati da cosa?
Preoccupazioni, necessità, ingiustizie, falsità che nella poesia restano inespresse e tanto più opprimenti.
Il linguaggio è assolutamente privo di decori o artifici, anch’esso in nuda povertà corrispondente all’uomo.
Domenica Luise
Se volete, su Neobar Abele ha pubblicato una mia favola metaforica e giocosa della quale vi metto il link:
http://neobar.wordpress.com/2013/01/26/domenica-luise-gelosie-di-artisti/#comments
I lupi in veste di lupo e i lupi in veste di agnello avevano fatto alleanza per vincere le elezioni e mangiarsi il gregge, ma all’ultimo momento era spuntato un nuovo partito che disorientò tutti i progetti: gli agnelli in veste di lupo coi lupacchiotti al seguito, che tentavano di sopravvivere o così affermavano. I leoni e le leonesse, le iene ridentes e piagnucolantes, le tigri, i puma e tutte le belve, intenzionati a farsi lautamente mantenere da topi, gatti, cani e bestiole varie, si affrettarono a presentare ognuno il proprio simbolo, ma anche le pulci, che erano universalmente presenti sui diversi manti pelosi, si dettero da fare, cercarono alleanze e formarono una lista di alti acrobati dei conti pubblici. E tutti si organizzarono svelando in televisione le magagne vicendevoli, sempre le stesse secondo i corsi e i ricorsi storici di vichiana memoria, sicché alla fine nessuno capì più niente tranne una cosa elementare universalmente nota: che a pagare le tasse e permettere la sopravvivenza economica del pianeta non erano i ricconi, a parte le lodevoli eccezioni, che evadevano e avevano sempre ragione, né i mendicanti, che soldi non ne avevano o facevano finta di non averne, ma quelli di mezzo: professorucoli, pensionatucci, impiegatucci, fattorini portabagagli, colf messe in regola e via così temporeggiando. In realtà gli unici che lavoravano davvero erano i volontari, su cui si basava il benessere del pianeta, perché lo facevano solo per amore e non per rubare il denaro pubblico o i soldi della beneficenza.
<C’è crisi, c’è crisi> squittivano i topi, compresi Topolino e Minnie.
<Ma che è questa quaresima?> si lamentavano i leoni maschi perché le prede trascinate dalle femmine erano sempre più magre e anemiche.
<Perfino la luna piena non dà più la sua bella luce, è imbronciata, rannuvolata, quasi piangente> ululavano i lupi, anche i cani gli facevano il controcanto abbaiando a tempo al ritmo della coda.
<Smettetela di sfottermi> rispondeva la luna, <ho appena pagato la seconda rata dell’imu celestiale e mi è passata la voglia di scherzare>.
<Tutte bugie per manovrare la popolazione> strepitavano le iene rosicchiando le ossa rimaste dopo il banchetto di condor e sparvieri.
<Chicchirichì> intervenne il gallo, <e cosa dovrei dire io, mi hanno perfino accusato di essere un estremista violento solo perché ho queste quaranta galline da tenere in riga, se non le becco per bene non obbediscono, come tutte le femmine, ma io sono buono, lo faccio per il loro bene, per i figli, i posteri e il pianeta, mica per il piacere di fare loro sanguinare il collo e la schiena>.
Le galline, tutte insieme ammassate in un angolo perché si spaventavano di buscarle ancora, mormoravano sottovoce: <Coccodè. Ma che colpa abbiamo noi, sempre a spremerci e fare le uova, covare e crescere i pulcini e neanche dicono mamma e pio pio che già ci sono le altre uova e le altre covate> e presentarono una propria lista per la liberazione delle femmine.
<È il meccanicismo illuministico che condanna alla sofferenza> teorizzava una gallina di cultura, che aveva aperto un blog di poesia infrequentatissimo ed era perfino laureata.
<Ma tu per chi voti?>.
<Non lo so, e tu?>.
<Votare bisogna, un’opinione ci vuole>.
<Sì, ma cosa scegliere?>.
<I lupi no, troppo ululanti e sono pure ladri>.
<I leoni nemmeno, troppo presuntuosi, sono maschilisti e rubano a dritta e a manca>.
<Le iene ci mangerebbero subito e sono tutte ladre>.
<Le pulci fanno le finte tonte, ma sono innumerevoli e hanno un motto preoccupante: l’unione fa la forza>.
<Anche loro rubano sempre doppia porzione di sangue e si sono organizzate in eserciti di squadre violente>.
<Coccodè, daremo tutte a noi stesse il nostro prezioso voto>.
<Forse le oche potrebbero allearsi con noi>.
Ma anche le oche avevano presentato la propria lista, che intitolarono Campidoglio.
<Vota per me> disse la formica, <sono una che fa lavorare gli altri>.
<No, vota per me> fece l’ape, <altrimenti ti pungo a morte insieme allo sciame>. <No, vota per me> sbraitò la tigre, <altrimenti ne patirebbe il commercio delle armi e senza guerre qui o lì come camperemmo?>.
Così ognuno votò per sè e per i fatti propri e gli unici che votarono per gli altri furono quelli che non avevano potere, che pagavano le tasse e si ostinavano a risparmiare in tempi di magra, temendo che alla fine arrivassero tempi più magri ancora e che la banca a cui dovevano l’ultima rata del mutuo gli levasse la casa e l’orto.
La conclusione fu che le tasse superarono ben presto gli stipendi e, dopo il fallimento delle piccole e medie imprese, nessuno poté più pagarle, così li condannarono ai lavori forzati e si vedevano professori anche universitari, medici, ingegneri e farmacisti insieme a poveri poeti, maestri d’arte, ferraioli e pensionati perfino ottantenni che sterravano le strade, riparavano le case cadenti e lavoravano la terra nuovamente col bue e l’asinello per risparmiare. Di buono ci fu che diminuirono i mucchi di spazzatura, le discariche si liberarono, si tornò al baratto, al carbone e tutti i ragazzi smisero di giocare sempre al computer e organizzare feste sceme con qualunque scusa.
Domenica Luise

Prendi la mia mano e non lasciarmi, dammi
ancora una volta il tuo tepore.
Allora il mio avatar si aggirerà
nel bosco delle fate
e volerà sugli alberi e alto alto
andrà, poi lascerò che atterri
con un capitombolo. Camminerà
a grandi passi dentro l’acqua e attraverso i muri
nella vita finta di eroina
belloccia dai capelli fluttuanti.
Così l’anima della poetessa
ancora si diverte senza speranza. Una vecchia
giocherellona. Ah, ah, ah
ahi. E mica mi posso tenere
un teschio al posto del mouse, tanto non occorre
poiché non ne perdo la memoria e sta dentro la mia testa
a contenere il cervello, più o meno. Ossa
e morte incarnati. Ecco
quanta allegria. Odio il viola nerastro
mortuario di moda dall’anno scorso, liturgia quaresimale
dei poveretti, quelli che risparmiano
e faticano
manovrati dai burattinai
con fili di lacrime e sangue.
Ancora non hanno tassato
l’aria che respiriamo. È grave
che l’abbiano dimenticata.
Siamo stati molto cattivi, non noi
paghiamo per qualcun altro. Troppo
cattivi. E adesso
il rattoppo non riesce, uno squarcio
di settanta metri con una gugliata
a piccoli punti. E l’ago
attraversa le nostre carni.
Domenica Luise
Rielaborazione grafica di Domenica Luise su una propria fotografia giovanile.
Avviso urgente: Finalmente è uscito il libro di Cristina Bove “Mi hanno detto di Ofelia”, che tutti aspettavamo.Per chi volesse acquistarlo, andate al link che vi metto qui sotto:
http://www.edizionismasher.it/cristinabove.html