Punto di equilibrio

Mimma e Giovanni che danzano 7

La notte ha un punto nero nel quale mi risveglio, la placidezza
al centro del tifone nel giallo dei lampioni tra le serrande e
la luna e le stelle. È strano.

 Da dove come perché
e verso quale traguardo voliamo tutti
oltre tempo spazio e caducità.

 Il punto interrogativo
è un vecchio gobbo con gli occhi a terra
o uno spaventapasseri o un bastone
per la professoressa zoppa. Una gruccia
senza scopo perché manca l’abito corrispondente
e un appiglio disoccupato, che sta lì. Segno
in corteggiamento del punto senza toccarlo
mai, sempre esitante
smarrito nella selva o nell’oceano.

 Così adesso non sono più bambina
ed ho smesso di chiedere perché.

 Il punto interrogativo si è messo a ridere
trasformandosi in geroglifico umano. Ecco. Tutti uguali
a testa in giù, soldati nella trincea
dei pipistrelli. Avete, abbiamo
scritto la storia, sempre la stessa
lavagna di buoni e cattivi
per un fritto misto a imbandire
una mensa di chissà chi, chissà perché
chissà dove quando come forse.

 Domenica Luise

Rielaborazione grafica di Domenica Luise

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Poeti di oggi: Antonio Sabino, schiavi con la sportula

Schiavi con la sportula
in viaggio mattina e sera
verso la casa del patrono
a pigliare pane in faccia
per famiglia e famigliari.
A raccoglier pane come all’epoca
orribile della statale galera,
la scuola che è carcere immeritato
dove si accede senza alcun merito compiuto
d’una azione che si possa dire tale.

Di quel pane un poco sbocconcelliamo
tornando mesti e affaticati
con la nostra sportula
e forse era meglio essere schiavi antichi
nati
dentro la casa o comprati piccini
che più lavoravano tra le quattro mura
meno dovevano uscire per commissioni
e liberati, con gesto gentile,
facevano fruttare i loro guadagni.

E forse meglio, clienti diventati,
da casa nostra a casa del patrono
con la sportula, sì, ma destinati
ad un appoggio meno in catene,
alla infamia meno conclamata.

 Invece di essersi evoluto
l’impero è caduto
e come quando cade ogni cosa
si mischiano e si uniscono
e questi e quelli,
per lasciarci a faticare
nei nostri viaggi quotidiani
lontano dalle case,
lontani da dove si dice che si vive,
in balia del mondo
trasciniamo trascinati
schiavi con la sportula
dal giorno in cui si è nati.

La sportula è il paniere della spesa dove i poveri tengono il pane. In tutta la poesia c’è un pessimismo di vita appena temperato dall’accenno alla schiavitù antica, quando gli schiavi “liberati con gesto gentile facevano fruttare i loro guadagni”.
Per il resto, gli schiavi siamo noi, sotto il piede di un non bene identificato “patrono”, verso la cui casa affannosamente viaggiamo “a pigliare pane in faccia”, quel pane di cui abbiamo disperato bisogno per noi e per la nostra famiglia.
E la scuola, nei versi di Sabino, diventa “statale galera, carcere immeritato”: talora, nelle menti degli allievi, in mezzo al grigiore indifferenziato, emerge il ricordo di un insegnante che fu umano con loro, perfino sorridente, anche buono. Qui no: il vuoto completo. Viene da pensare alla disumanità che i prepotenti e i superbi usano gustosamente contro i più deboli, ancora più miserabili degli schiavi romani. Abbiamo soltanto quella sportula e un po’ di pane, una sopravvivenza stenterella che farebbe compassione ai sassi, ma non  al “patrono”.
Così il destino umano è di restare “lontano dalle case, lontani da dove si dice che si vive, in balia del mondo”, vuol dire: lontano da dove tutti si illudano che si viva, ma la vita, gli affetti, l’amore sono lussi inattingibili ai poveracci. Così “trasciniamo trascinati”.
Per un po’ di pane.
E trascinati da cosa?
Preoccupazioni, necessità, ingiustizie, falsità che nella poesia restano inespresse e tanto più opprimenti.
Il linguaggio è assolutamente privo di decori o artifici, anch’esso in nuda povertà corrispondente all’uomo.

Domenica Luise

Se volete, su Neobar Abele ha pubblicato una mia favola metaforica e giocosa della quale vi metto il link:
http://neobar.wordpress.com/2013/01/26/domenica-luise-gelosie-di-artisti/#comments

Le e-lezioni delle povere bestie

I lupi in veste di lupo e i lupi in veste di agnello avevano fatto alleanza per vincere le elezioni e mangiarsi il gregge, ma all’ultimo momento era spuntato un nuovo partito che disorientò tutti i progetti: gli agnelli in veste di lupo coi lupacchiotti al seguito, che tentavano di sopravvivere o così affermavano. I leoni e le leonesse, le iene ridentes e piagnucolantes, le tigri, i puma e tutte le belve, intenzionati a farsi lautamente mantenere da topi, gatti, cani e bestiole varie, si affrettarono a presentare ognuno il proprio simbolo, ma anche le pulci, che erano universalmente presenti sui diversi manti pelosi, si dettero da fare, cercarono alleanze e formarono una lista di alti acrobati dei conti pubblici. E tutti si organizzarono svelando in televisione le magagne vicendevoli, sempre le stesse secondo i corsi e i ricorsi storici di vichiana memoria, sicché alla fine nessuno capì più niente tranne una cosa elementare universalmente nota: che a pagare le tasse e permettere la sopravvivenza economica del pianeta non erano i ricconi, a parte le lodevoli eccezioni, che evadevano e avevano sempre ragione, né i mendicanti, che soldi non ne avevano o facevano finta di non averne, ma quelli di mezzo: professorucoli, pensionatucci, impiegatucci, fattorini portabagagli, colf messe in regola e via così temporeggiando. In realtà gli unici che lavoravano davvero erano i volontari, su cui si basava il benessere del pianeta, perché lo facevano solo per amore e non per rubare il denaro pubblico o i soldi della beneficenza.
<C’è crisi, c’è crisi> squittivano i topi, compresi Topolino e Minnie.
<Ma che è questa quaresima?> si lamentavano i leoni maschi perché le prede trascinate dalle femmine erano sempre più magre e anemiche.
<Perfino la luna piena non dà più la sua bella luce, è imbronciata, rannuvolata, quasi piangente> ululavano i lupi, anche i cani gli facevano il controcanto abbaiando a tempo al ritmo della coda.
<Smettetela di sfottermi> rispondeva la luna, <ho appena pagato la seconda rata dell’imu celestiale e mi è passata la voglia di scherzare>.
<Tutte bugie per manovrare la popolazione> strepitavano le iene rosicchiando le ossa rimaste dopo il banchetto di condor e sparvieri.
<Chicchirichì> intervenne il gallo, <e cosa dovrei dire io, mi hanno perfino accusato di essere un estremista violento solo perché ho queste quaranta galline da tenere in riga, se non le becco per bene non obbediscono, come tutte le femmine, ma io sono buono, lo faccio per il loro bene, per i figli, i posteri e il pianeta, mica per il piacere di fare loro sanguinare il collo e la schiena>.
Le galline, tutte insieme ammassate in un angolo perché si spaventavano di buscarle ancora, mormoravano sottovoce: <Coccodè. Ma che colpa abbiamo noi, sempre a spremerci e fare le uova, covare e crescere i pulcini e neanche dicono mamma e pio pio che già ci sono le altre uova e le altre covate> e presentarono una propria lista per la liberazione delle femmine.
<È il meccanicismo illuministico che condanna alla sofferenza> teorizzava una gallina di cultura, che aveva aperto un blog di poesia infrequentatissimo ed era perfino laureata.
<Ma tu per chi voti?>.
<Non lo so, e tu?>.
<Votare bisogna, un’opinione ci vuole>.
<Sì, ma cosa scegliere?>.
<I lupi no, troppo ululanti e sono pure ladri>.
<I leoni nemmeno, troppo presuntuosi, sono maschilisti e rubano a dritta e a manca>.
<Le iene ci mangerebbero subito e sono tutte ladre>.
<Le pulci fanno le finte tonte, ma sono innumerevoli e hanno un motto preoccupante: l’unione fa la forza>.
<Anche loro rubano sempre doppia porzione di sangue e si sono organizzate in eserciti di squadre violente>.
<Coccodè, daremo tutte a noi stesse il nostro prezioso voto>.
<Forse le oche potrebbero allearsi con noi>.
Ma anche le oche avevano presentato la propria lista, che intitolarono Campidoglio.
<Vota per me> disse la formica, <sono una che fa lavorare gli altri>.
<No, vota per me> fece l’ape, <altrimenti ti pungo a morte insieme allo sciame>. <No, vota per me> sbraitò la tigre, <altrimenti ne patirebbe il commercio delle armi e senza guerre qui o lì come camperemmo?>.
Così ognuno votò per sè e per i fatti propri e gli unici che votarono per gli altri furono quelli che non avevano potere, che pagavano le tasse e si ostinavano a risparmiare in tempi di magra, temendo che alla fine arrivassero tempi più magri ancora e che la banca a cui dovevano l’ultima rata del mutuo gli levasse la casa e l’orto.
La conclusione fu che le tasse superarono ben presto gli stipendi e, dopo il fallimento delle piccole e medie imprese, nessuno poté più pagarle, così li condannarono ai lavori forzati e si vedevano professori anche universitari, medici, ingegneri e farmacisti insieme a poveri poeti, maestri d’arte, ferraioli e pensionati perfino ottantenni che sterravano le strade, riparavano le case cadenti e lavoravano la terra nuovamente col bue e l’asinello per risparmiare. Di buono ci fu che diminuirono i mucchi di spazzatura, le discariche si liberarono, si tornò al baratto, al carbone  e tutti i ragazzi smisero di giocare sempre al computer e organizzare feste sceme con qualunque scusa.

Domenica Luise

Poeti di oggi: Marilena Cataldini, Le parole: parabola breve

Troppe parole furono date al Dio
perché con certezza
indicasse la strada.

Ma quando egli le restituì
non erano più le stesse
ma altre  cose
e per altri uomini
che mai prima
gliele avevano chieste.

La parabola è un esempio facile di vita concreta, che ci fa capire un concetto intellettuale altrimenti non agevolmente raggiungibile da una mente poco istruita e non avvezza alla cultura. Come sarebbe bello se oggi ci spiegassero la politica per parabole, allora ci districheremmo e, forse, apriremmo occhi nuovi.
Le parabole del vangelo sono tutte elementari, ma le conclusioni sono di altissima spiritualità.
Questa è una poesia apparentemente piccola, proprio come una parabola, ed è la conclusione di un pensiero sottinteso.
Incomincia dritta dal centro dell’argomento: “Troppe parole furono date al Dio / perché con certezza / indicasse la strada”.
Davvero, nelle diverse religioni, esistono molti libri sacri: la Bibbia, il Corano, le Upanishad e via discorrendo, trovare fra tutti un concetto comune che li unifichi non è tanto semplice. Quindi noi uomini abbiamo attribuito a Dio “troppe” parole perché avevamo bisogno di sapere “con certezza” quale strada dovessimo percorrere, cosa volesse da noi, come raggiungerlo e sperare. Gli abbiamo chiesto, prima o poi tutti, un miracolo per noi stessi e per le persone che amiamo e senza le quali ci sentiremmo orfani e soli, l’abbiamo interrogato, implorato, ci siamo arrabbiati con lui e talora l’abbiamo anche bestemmiato in parole ed opere.
“Ma quando egli le restituì / non erano più le stesse / ma altre cose / e per altri uomini / che mai prima / gliele avevano chieste”.
Quindi le parole, nella risposta divina, diventano altre ” cose”, parabole di una conoscenza superiore, che va ben oltre la domanda, e si allargano non solo ai popoli eletti o che tali si ritengono, ma simultaneamente ad “altri uomini / che mai prima / gliele avevano chieste”. E non gliele avevano chieste, quelle parole-parabole-cose, forse per ignoranza, anche per indifferenza, magari per ribellione. Ed è avvenuto, malgrado l’oscurità umana, condizione normale di ogni persona terrena, il grande dono della poesia.

Domenica Luise

 

Nata per caso

Mimma acquerello

Prendi la mia mano e non lasciarmi, dammi
ancora una volta il tuo tepore.

Allora il mio avatar si aggirerà
nel bosco delle fate
e volerà sugli alberi e alto alto
andrà, poi lascerò che atterri
con un capitombolo. Camminerà
a grandi passi dentro l’acqua e attraverso i muri
nella vita finta di eroina
belloccia dai capelli fluttuanti.

Così l’anima della poetessa
ancora si diverte senza speranza. Una vecchia
giocherellona. Ah, ah, ah
ahi. E mica mi posso tenere
un teschio al posto del mouse, tanto non occorre
poiché non ne perdo la memoria e sta dentro la mia testa
a contenere il cervello, più o meno. Ossa
e morte incarnati. Ecco
quanta allegria. Odio il viola nerastro
mortuario di moda dall’anno scorso, liturgia quaresimale
dei poveretti, quelli che risparmiano
e faticano
manovrati dai burattinai
con fili di lacrime e sangue.

Ancora non hanno tassato
l’aria che respiriamo. È grave
che l’abbiano dimenticata.

Siamo stati molto cattivi, non noi
paghiamo per qualcun altro. Troppo
cattivi. E adesso
il rattoppo non riesce, uno squarcio
di settanta metri con una gugliata
a piccoli punti. E l’ago
attraversa le nostre carni.

Domenica Luise

Rielaborazione grafica di Domenica Luise su una propria fotografia giovanile.

Avviso urgente: Finalmente è uscito il libro di Cristina Bove “Mi hanno detto di Ofelia”, che tutti aspettavamo.Per chi volesse acquistarlo, andate al link che vi metto qui sotto:

http://www.edizionismasher.it/cristinabove.html

Il broncio mimmiano, le galline e S. Antonio

Ho sempre tentato di volare. Da piccolina non camminavo, saltavo, e non scendevo le scale: mi buttavo. Avevo regolarmente le ginocchia scorticate, mi ricordo certe croste immense che mi ero fatta a casa degli zii andando e venendo dal giardino e che io, regolarmente, tiravo via senza sognarmi di ascoltare i grandi: <Non le toccare, non le toccare>.
Odiavo le croste, ma continuavo a buttarmi dalle scale, così zio Peppino fece fare un cancello di legno chiuso col lucchetto a sbarrarmi il passo, appena lo vidi subito tentai di aprirlo, venni rimproverata e mi offesi perché mi avevano impedito la via dei fiori e del pollaio.
Ero convinta che le galline strillassero tanto per avvisare noi che l’uovo era pronto così partivo a prenderlo, dovevano aprire il lucchetto del cancello, accompagnarmi per le scale e abbandonarmi in giardino, da dove poi ero capace di risalire da me senza precipitare.
Il pollaio aveva una porticina giusta per le mie dimensioni minime. Entravo a testa alta, raccoglievo l’uovo nel nido imbottito di paglia e risalivo in casa col mio trofeo.
Ma una volta la gallina non aveva finito, io tentai di spostarla per prenderle l’uovo da sotto e lei, a sua volta, tentò di beccarmi, ricordo benissimo uno sguardo tondo iniettato di sangue, aveva le penne marroni, un colore che non mi è mai piaciuto. Fuggii come il vento dal pollaio e da allora alle uova dovettero pensare i grandi.
Un giorno che ero arrabbiata chissà per quale problema o comunque in fase di pensiero meditativo, i grandi se ne accorsero:
<Ma che cos’ha la bambina?>.
<Tesoro, ti senti male?>.
<Perché sei tutta seria? Perché non parli?>.
<Avrà mal di testa? Tesoro, che c’è?>.
L’interesse suscitato mi piacque molto e da allora iniziai ad assumere la mia tipica espressione che portai avanti per tutte le scuole elementari ed oltre, come si può ammirare in questa foto, scattata a Messina, a piazza Cairoli,

Mimma imbronciata

dove mi trovavo a fare spese con la mamma, da alcuni ragazzi che giravano cercando bambini da fotografare, dopo si andava al negozio e si ritirava il capolavoro, a giudicare dalla potenza del sole doveva essere mezzogiorno passato. Mi piaceva tanto la veste che indossavo perché era di taffettà a quadri ed aveva il grembiulino con sopra le ciliegie ricamate a macchina. La catenina che portavo era d’argento, o almeno così affermavano i grandi per tenermi buona, e sulla medaglia c’era l’immagine di S. Antonio, del quale la mia mamma era devota. In questa foto la catenina era bella lunga, ma poiché la spezzavo sempre e papà era capace di aggiustarla, ogni volta perdeva un pezzetto, alla fine, con mio rammarico, non mi entrò più dal collo.

Domenica Luise

(Fotografo sconosciuto)