Invece così

quanta bellezza o poesia
che avanza e nessuno se ne accorge
o così pochi da dirsi nessuno. Allora
io guardo l’erba
e vado ad allargare.

Chi ha orecchi per intendere intenda.

 E chi ha occhi guardi. Toccate
quei petali con due giorni di vita
e dopo ancora, dalla morte
al sole.

                                                           Domenica Luise

(Acquerello di Domenica Luise)

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Di silenzio

 La notte gira blu. Il sonno
umano che dà
pace, si chiudono
i pensieri. Ah, l’amore
a stilettate di fuoco.

E i ricordi di quando
non avevo ricordi, ma vita.

E tu
chi sei perché
dove quando? Sottigliezza
o invisibilità.

Mi ammanto. E spremo l’anima
come un tubetto di dentifricio.

                                       Domenica Luise

(Quadro di Domenica Luise, olio su tela 24 per 30)

 

Miele

Uno torna a casa pensando che il motore della macchina fa un singhiozzo strano e oggi ha voglia di spaghetti, aglio, olio e peperoncino, idee svagate, a breve riceveremo una visita di mia suocera, che ha scadenze bimestrali improrogabili e deve vedere d’urgenza sua figlia e che noia, fra un’ora e mezza debbo tornare in cantiere. Vado e vengo da un io soggetto al me complemento oggetto e dall’attivo al passivo, uffa, il mio corpo scalpita ogni volta che la segretaria, in tuta blu lenta e ballerine raso terra, si avvicina con una scusa o l’altra, oggi ha trovato un micetto nero da malaugurio abbandonato sul marciapiede e subito l’ha messo fra le mie braccia: <Vedi, Cicciotto mio, quant’è carino>, io non sopporto i gatti, ma poiché mi piace lei, e una volta anche mia moglie mi era piaciuta così, se non di più, l’ho preso e accarezzato, era ispido, con gli occhi bavosi e mi ha fatto le fusa.
<Chiamalo Bruttissimo> ho detto, lei si è messa a ridere: <Vuoi scherzare?>.
Il bavoso ha incominciato a strusciarsi  contro di me e a ciucciarmi sul doppio petto grigio a righine sottili di pura lana vergine garantita, così lei l’ha ripreso e poco dopo è andata a portarlo dal veterinario senza chiedermi il permesso.
Adesso che viene a letto con me gioca a fare la padrona, si è accorta che mi piace ed io non riesco a tenerla in pugno a nessun livello, è lei che vince.
Mia moglie, invece, l’ho soprannominata Miele. Mai un broncio in due anni e mesi spiccioli di matrimonio, un contrasto, una parola, sempre sissignore. Che noia. Dopo tanto tempo insieme possiedi tutto di quel corpo e l’uomo è poligamo, si sa, checché se ne dica.
Non ho ancora aperto il risultato dell’analisi che ho fatto al polipo del colon, tanto sono tutti benigni, si sa anche questo. Mi sento la salute in ogni cellula. Miele, invece, ha sempre il mal di testa, deve essere genetico, anche sua madre, quando è qui, spesso corruga gli occhi e stringe le labbra, ma non si lamenta.
Fermo la macchina davanti casa e vedo il capannello di gente, per terra c’è un corpo coperto da un lenzuolo da cui sfuggono i capelli biondi di Miele.
La riconosco subito e sento un colpo dal cuore fino allo stomaco, netto e rovente.
<Miele, Miele, Miele> grido come un pazzo, e poi:
<Amore>.
Mi dicono che è uscita di corsa proprio dieci minuti prima ed ha attraversato senza guardare, così mi ricordo di averle appena telefonato per dirle che avevo voglia di spaghetti, olio, aglio e peperoncino.
<Ma ho già fatto la pasta al forno>.
<Pazienza>.
<Vado subito a comprare l’aglio>.
<Sei un tesoro>.

Domenica Luise

                                                             Fiele

È la sensazione che la strada s’incurvi nel fondo. La prima volta che guido dopo di te, Miele. Morta per uno spicchio d’aglio, quale vita vale così poco? Voglio andare al lavoro, ho buttato il casco sul sedile dietro, lei diceva tutte le volte:< Non dimenticarlo mai, non si sa, può capitare una cosa>.
<Sì, mammina> scherzavo io e la baciavo, il suo seno sussultava e aveva la bocca morbida.
Volevamo un bambino, ma presto non ne avevo più parlato. Sostituito dalla segretaria. Come ho potuto fare.
Fermo la macchina perché tremo e piango, urto contro una busta che ho ancora nella tasca del vestito elegante, di pura lana vergine garantita, prima c’era lei a portarlo in lavanderia, adesso l’ho messo spiegazzato com’è. Povera Miele, l’ho amata così poco. Mi ricordo del risultato dell’analisi al polipo del colon, così apro e leggo. Si tratta di cancro maligno, due mesi di vita, forse.
Un forte senso di irrealtà. Non me ne importa niente.
E invece mi viene in mente la faccia del disgraziato che l’ha ammazzata, era distrutto, pallido e gelato, ci siamo abbracciati come due naufraghi persi sull’isola deserta. <Mi creda, si è proprio buttata sotto, correva, non guardava, e sorrideva pure>.
Difatti quello strano sorriso le è rimasto finché l’ho dovuta chiudere, con l’abito da sposa, in una cassa così piccola. L’ho voluta tutta bianca, lo meritava. E sembrava, invece, una bambina di prima Comunione.
Al funerale la madre ghiacciata senza lacrime, che è svenuta, mio suocero col  bastone, la cugina, il marito, la sorella divorziata coi tre figli, il fratello con la famiglia, anche loro pronti a separarsi, no, no, avrei voluto gridare, non sprecate l’amore, il tempo è breve, basta un filo di capello oppure uno spicchio di aglio. E appena entrato in casa c’era il profumo della pasta al forno come la facevi tu, mia indimenticabile.
E tutto il paese stava lì, il prete piangeva sull’altare, seppi di Miele altre cose, che faceva il catechismo ai bambini piccoli, non mi aveva detto niente, che andava a visitare i malati, perché non mi diceva più niente? Poverina, quanto l’ho amata poco, chi si sente disamato si rintana in un fosso di silenzio. Adesso, però, la fossa è vera e lei vi è scesa in abito di lusso. Quando si pavoneggiava davanti a me: <Non credo proprio che porti sfortuna farsi vedere prima dallo sposo.
Sono bella?>.
<Sono contento di venire da te, Miele> dico stringendo quella carta in mano.
Prendo il telefonino e chiamo l’investitore, non mia madre né la mamma o il padre di lei, non la segretaria, non i miei due fratelli. Arriva immediatamente e parliamo.
Ero bambino l’ultima volta che ho confessato al prete i miei “cattivi pensieri” perché volevo disperatamente un bacio dalla compagna della quarta elementare. A lui, invece, racconto tutto.
<Ci penso io alla signora> dice.
<Quale signora?>
<La sua segretaria>.
<Non ne voglio più sapere, non torno al lavoro, tanto è questione di poco>.
<Disponga di me liberamente>.
Piego la testa sul petto: <Quanto l’ho amata poco> dico.
<Mi potrai perdonare?> piango inerme tra le mani del suo uccisore.
Quell’uomo non può rispondermi con nessuna parola di conforto. E difatti sta zitto, a lungo.
Dopo, sottovoce, dice: <Coraggio>.
La parola più inutile e frequente.

Domenica Luise

Strade

La poesia mi culla. Rido
piangendo in fili d’erba o parole
a cui appendere l’universo.

La lupa ulula il suo canto, ma
i lupetti dormono.

C’è rumore di una zampa tra i rami
tracce
e freddo. Odori di vita
lotte, speranze di legno
e piatti di neve. Talora
una lucciola esiliata con le batterie scariche.

Ti ricordi tutte le lucciole in giardino
a Messina, quand’ero ragazza? Ma
allora era estate. Vivevamo
vivevamo. Accanto
c’era un enorme albero di passerotti.

E quelle scale così lunghe.

                                                                                                  Domenica Luise

(Elaborazione grafica di Domenica Luise)

Il genio incompreso

Alto,  naso forte, ma dritto, occhi grandi tipo Omar Sharif da giovanotto, soprattutto espressivi, mascella squadrata e fossetta sulla guancia destra, una sola, mani lunghe e dita da pianista, spalle e corpo asciutto, né smilzo né muscoloso: perfetto, aveva perfino folti capelli neri sempre in balia del vento. Un lieve difetto di balbuzie, come lo chiamava lui, oppure “quando parla non si capisce niente”, come affermava sua moglie, gli aveva sempre impedito di declamare coram populo  le proprie poesie, che erano stupende o almeno così gli pareva.
Si era fermato al diploma di ragioniere perché il papà era morto precocemente ed egli si era addossato la mamma e due sorelle piccole ancora alla scuola media o così almeno diceva, in realtà era stata sua madre, andando a casa della gente e facendo i servizi, a mantenerli tutti. Il ragioniere aveva iniziato con lavoretti qua e là, ma era svagato e guardava sempre le donne dalla finestra, così sbagliava i conti sulla calcolatrice, fino a che lo misero al lavoro in uno sgabuzzino buio, che serviva da deposito per le scope e le pratiche segrete dei proprietari, due fratelli avvocati che, per raggiungere una laurea col minimo dei voti, avevano superato i quarant’anni. Uno dei compiti del genio, direi il principale, era di rispondere ai “clienti scelti”, le cui pratiche stavano ammonticchiate sulla sua scrivania, affermando che i guadagni ci sarebbero stati a breve, ma intanto lo studio legale consigliava un ulteriore investimento, che avrebbe portato al cinquecento per cento di introiti annuali sicuri entro il primo anno. Cordiali saluti, in fede, seguiva la firma del genio. Quando le pratiche finivano bisognava girarle senza sovvertire l’ordine e ricominciare con altre lettere e promesse altrettanto mirabolanti. Il lavoro era delicato e difatti nessuno toccava la scrivania del genio: sarebbe bastato un filo di vento a scombinare la coreografia, prova ne sia che lì dentro l’aria non arrivava.
Un altro compito fondamentale del ragioniere era l’intrattenimento dei “clienti scelti”, che avevano pagato e magari non una volta ma, non avendo mai visto gli introiti promessi, venivano a protestare e cercavano gli avvocati. Con tono costernato professionale il genio affermava (e peccato per quella balbuzie…lieve, come si sa) che erano partiti in aereo per qui o lì proprio la sera prima o quella mattina stessa, insomma prima. I suoi problemi scomparivano quando si trattava di signore: inchinava ad angolo retto la schiena e poggiava appena le labbra sulla mano della donna in un bacio impercettibile e di un solo secondo più lungo del necessario. Dopo sollevava il volto e sbatteva le ciglia in faccia alla signora come abbagliato. Non occorreva nemmeno parlare o quasi, così avrebbe balbettato di meno. Dopo di che, quando l’afflusso non si reggeva più, tutta la “ditta” si trasferiva in un altro piccolo paese lì intorno, le vecchie pratiche di coloro che minacciavano denunce erano distrutte e i clienti che ancora ci credevano avvisati del cambio di indirizzo e dei nuovi numeri dei telefonini. Amen.
Al ragioniere toccava una percentuale da tenerlo zitto e intanto lui passava il tempo scrivendo poesie, o almeno così le chiamava, per le quali traeva ispirazione girando di blog in blog, tanto erano tutti poeti ignoti dei quali nessuno sapeva niente. Un verso qui, una parola lì, una metafora da quell’altra parte, magari ogni tanto una parola che gli usciva spontanea o quasi, egli, pur essendo fisicamente monumentale, scompariva in mezzo alle pratiche fra le quali si celava componendo.
Gli editori gli rispondevano che la sua scrittura era farraginosa, sdolcinata, piena di luoghi comuni, senza forma, senza contenuto, senza niente e che la redazione riteneva inopportuno pubblicare un suo libro anche perché, come tutti sanno, la poesia non ha comunque mercato. Egli ridacchiava amaramente leggendo tali giudizi sempre più convinto che fossero invidiosi e gli volessero rubare i testi. Sul suo blog nessuno lo aveva mai commentato, malgrado avesse messo come avatar una fotografia della propria faccia in primo piano perché, com’era ovvio per lui, anche gli altri poeti erano invidiosi. Appena dopo morto lo avrebbero capito tutti e pubblicato e ripubblicato, avrebbero trasmesso il funerale in televisione sulla Rai, un noto attore (chi?) avrebbe letto le sue poesie con sottofondo di pianoforte a gloria imperitura. Intanto continuava a firmare le pratiche, a rassicurare gli incerti telefonicamente, ad accogliere i ribelli a braccia aperte offrendogli il caffè buono  del bar perché quello della macchinetta faceva schifo, a mandare gli avvocati nel corno d’Africa, in America, Australia o Cina o dove la testa gli diceva: la destinazione veniva decisa il giorno prima, per non sbagliare l’orario del volo, invece durante le visite dei “clienti scelti” quei due stavano appiattiti nel bagno di servizio.
Quando li ammanettarono piangeva lamentosamente chiedendo il perché, ma smise subito appena quello che comandava, con occhi saettanti, cavò fuori dal gran mucchio delle pratiche il malloppo delle poesie, lesse, lo guardò e disse: <Che cos’è questo schifo?>.

                                                                                             Domenica Luise

Poeti di oggi, Antonella Montagna: Il grembiule

 Prima lo gridai
il mio dolore,
poi lo squarciai
con ragli d’ugola
ubriacona.

Poi lo silenziai
con l’ago dell’orgasmo
cruna del passaggio
nella lunga notte dell’anima.

Poi lo parlai
e dissi che era antico
quel dolore,
e dissi che era
giovane di vita,
pietra dura,
muro storto,
un singhiozzo
senza consolazione.

Poi lo scrissi
su un libro rosso
e i professori
dissero: brava!

Ora puoi vestirti
di professione,
ora hai il potere
e lo stemma dell’Istituzione.

Oh no, signori professori!
Io come don Tonino
il grembiule
vesto tra i bambini,
la pratica dell’Amore
non contempla luccicanti stole!

Il dolore è un urlo umano, uno squarcio come se un raglio di asino ubriaco si trasformasse in ferita: la poetessa cerca metafore adeguate, che le sfuggono diventando surreali e incisive oltre misura. I suoni delle sillabe evidenziano lo stridio dell’anima. Ed è anche vero che, a questo punto, dopo il grido umano-animalesco, il dolore viene taciuto. La  verità è che il dolore nostro ci concentra in autocommiserazione lucida e approfondita mentre quello degli altri ci stanca, ci annoia e talora ci esaspera. Raramente proviamo la compassione e altrettanto raramente la riceviamo, in questo non siamo particolarmente miserevoli: è autodifesa, voglia di evasione, bisogno di pace. Quindi mettiamo a tacere il dolore: ” Poi lo silenziai”, strano verbo messo qui, ma tanto più efficace, mi fa pensare ad un’arma fornita di silenziatore, e tale è il dolore: un’arma nelle nostre mani, pericolosa perché pronta a uccidere sia e soprattutto noi stessi, ma anche quelli che ci stanno intorno.
“Poi lo silenziai con l’ago dell’orgasmo”: anche questa è un’espressione insolita ed efficace. L’orgasmo o pienezza della vita nel suo culmine diventa un ago regolatore del dolore, che viene ridotto al silenzio come se non ci fosse, anche se in realtà su questa terra niente e nessuno può eliminarlo, soltanto narcotizzarlo, e ciò che narcotizza il dolore è l’amore, qui inteso come passione e “cruna del passaggio nella lunga notte dell’anima”,  l’amore è l’unica galleria che permetta di oltrepassare la montagna e di vedere la luce dall’altro lato, è liberatorio, è la cruna per il filo di Arianna, che fa uscire l’innocente dal labirinto.
Soltanto dopo l’esplorazione profonda del dolore ed il suo silenzio il poeta può dirlo traducendolo in parole, il primo attributo del dolore è “antico”: giusto. Da sempre la vita è stata impastata con la morte e il sogno con la delusione, sì, antico, ma “giovane di vita”: sempre fresco, appena sviluppato con radici imperterrite dentro l’uomo del ventunesimo secolo così come in quello preistorico.
E dopo ancora, alla fine, la poetessa scrive il dolore in un libro rosso come il sangue dei Cristi sparsi su questa terra che gronda. E i professori le dicono: Brava! Così giovane e già così cosciente, che belle poesie, adesso puoi fare parte della nostra oligarchia artistica.
In questo punto della poesia intuisco l’amarezza: quei professori poetici hanno delle regole alle quali non si sfugge. Io non so cos’abbia in mente la poetessa che mi permetto di leggere né cosa le sia accaduto, so soltanto che ha il coraggio di rifiutare tale privilegio di casta e preferisce, come don Tonino, indossare il grembiule dell’Amore a lettera maiuscola “tra i bambini”.

                                                                                                 Domenica Luise

Terzo millennio: gli omini verdi

Quando la pittrice quella mattina si guardò allo specchio per mettere la crema idratante che cancellava le rughe istantaneamente, trovò delle strane sfumature verdi, specialmente sui pomelli. Le labbra, poi, erano verde bandiera e gli occhi brillavano tanto che sembravano fosforescenti.
Restò a bocca aperta, ma anche i denti erano verdastri.
Si guardò le unghie: assortite alle labbra.
Terrorizzata chiamò l’ambulanza e si fece portare al pronto soccorso.
Il colorito verde intensificò fino al massimo della sua densità. La pittrice sembrava un prato in primavera e nel pronto soccorso le dettero assoluta precedenza.
<Qua ci vuole il prete> proclamò il primario, <forse è opera diabolica>.
Venne il prete e disse:< Figliola, quali sono i tuoi peccati?>.
<I soliti, padre, sempre gli stessi: ho tradito mio marito con uomini diversi, ho usato la gattina della vicina come tiro al bersaglio e l’ho ammazzata con una freccia, ho fatto la dichiarazione dei redditi falsa come tutti gli anni certificando un introito di duemila e trenta euro per l’anno passato, ho scritto lettere anonime piene di calunnie e ho rubato un bracciale di oro vecchio alla mia vicina Mimisia quella volta che mi ha invitata a pranzo, era un caro ricordo della sua defunta madre. Nient’altro, come può vedere tutte venialità> .
<Figlia, non sarai stata anche invidiosa di qualcuno?> chiese il prete, che era un vecchio saggio e sapeva le cose della vita.
<È vero, padre. Ho invidiato quella Mimisia perché dipinge meglio di me e scrive meravigliose poesie sul suo dannato blog. L’avrei strangolata volentieri con una calza di nylon, però non l’avevo perché era estate e stavo a gambe nude>.
<Se non smetti di invidiarla il colore verde non passerà mai>.
<Allora come posso fare?>
<Cerca di sostituire l’invidia con l’amore>.
La pittrice rispose di sì e intanto pensava che anche il prete aveva gli occhi verdi che mandavano lampi, difatti era invidioso di un suo collega perché aveva preso la terza laurea, il quale a sua volta verdeggiava  perché un suo compagno di seminario, meno devoto di lui ed anche meno intelligente, era stato elevato alla porpora cardinalizia, intanto il cardinale era verde d’invidia per il papa eletto, il quale anche lui diventava sempre più verde perché era invidioso del proprio segretario, baldo giovane pimpante non artrosico.
Quel giorno medici e infermieri verdi si agitavano dicendosi l’uno con l’altro: <Ma di che colore sei?>, fuori dall’ospedale non andava meglio e in poche ore finì che soltanto i bambini neonati rimasero rosei.
Non tutti i verdi erano uguali, si andava dal color germoglio al marcio seguendo le diverse sfumature. Le epidermidi risultarono refrattarie a qualsiasi rimedio anche drastico: impacchi di bicarbonato, che fa bene a tutto o quasi, bagni di succo di limone, acqua ossigenata e ammoniaca, detersivo per piatti, perfino la varechina della biancheria e gli smacchiatori di marche varie. Niente da fare, verdi erano e più verdi diventavano, se si pungevano con la spina anche il sangue era verde. Il malumore dilagò e tutti incominciarono a dire, prima sottovoce e dopo urlando nelle strade e dai mass media, che la colpa era della politica e si erano messi d’accordo per sterminare la popolazione dai cinquant’anni in su senza pagargli la pensione. In giornata subito si formarono gruppi di studio dei medici più prestigiosi, compresi i premi nobel e i veterinari, per trovare l’origine e il rimedio di tale fenomeno, specialmente protestavano i più invidiosi, ai quali venivano le orecchie a sventola, il naso adunco e un grosso artiglio ai due indici delle mani. Li isolavano in camere senza specchi anche perché si rotolavano per terra con le convulsioni e la bava alla bocca, verde anch’essa. Non si capiva se fossero infettivi, il pronto soccorso andò in tilt in tutti gli ospedali, vennero chiuse le scuole e i mafiosi si nascosero nei bunker preparati per sfuggire alla polizia, ma anche i poliziotti si rintanavano vergognosi di quel colore sgargiante. I peggio combinati erano i poeti, ai quali nulla mancava, né gli occhi saettanti, il naso adunco e le orecchie a sventola e nemmeno una specie di cresta ritta sulla testa che li contraddistingueva. L’evento fu comune e definitivo così tutti, per tornare al colore normale, incominciarono a fingere di amarsi, ma non era una cosa facile e non poté funzionare, allora parlarono di evoluzione, alla quale diedero ogni colpa.
Il che spiega come mai, quando sulla terra arriva un’astronave aliena, subito si racconta che “i marziani” siano omini verdi, provenienti da una civiltà più evoluta della nostra. Ormai anche noi ci siamo evoluti dignitosamente e omologati al verde universale. Mal comune mezzo gaudio. Perché smacchiarci? E se anche ci trasformassimo in piante sostituendo la circolazione sanguigna con la fotosintesi clorofilliana, perché considerarla una regressione? L’importante è la salute e il conto in banca. In quanto alle convulsioni, si potrebbero considerare una forma di danza moderna nuovissima e prestigiosa: il ballo di santa invidia.

                                                                                                    Domenica Luise

Tu

                                                                               (Disegno a matita di Domenica Luise)

Se il sempre terreno dura cent’anni
è l’attimo del quale l’eternità
nemmeno s’accorge. Ma
chi è l’eternità
o cosa
e come? Io, una noce
in balia all’infinita domanda. Tra poco
ci vedremo
e ogni curiosità sarà appagata
oltre.

Ti ho immaginato, amato
e cercato in abbagliamento. Così
ho innaffiato la mia pietra. Volevo
farti felice.

Quale grande ambizione, ne sorriderebbero
i pulcini appena nati.

E tu?

                                                                           Domenica Luise

Volto di Gesù(Elaborazione grafica di Domenica Luise su un proprio disegno a penna)

(Disegno a matita di Domenica Luise)

Felice come una pasqua

Respiro il silenzio delle parole.

E bevo succo d’amore. Così mi dilato
nelle arterie terrene a trasformare
la spazzatura in lava fino
all’universo e oltre. Rinasco dalle mie ceneri
battendo ali di sangue.

È possibile ogni sorpresa
ora. Ricevo il bacio
e te lo restituisco.

Non c’è che gioia, dove ogni verme
schizza in farfalla e polline
ed il dolore è tramutato
stranamente.

Domenica Luise

( Elaborazione grafica di Domenica Luise)

Azzurra

<Gesù, io quando sono grande mi sposo a te> sgrammaticò la bambina porgendogli un mucchietto di more su una foglia di fico. Poteva avere forse qualche otto anni, capelli neri lisci strizzati in due treccioline che le battevano di qua e di là, occhi neri anch’essi e un sorriso da prima cotta urgente.
Egli prese le more e le mangiò di gusto, <Ma quando tu sei grande io divento vecchio> rispose tra un boccone e l’altro. Dette un’occhiata storta a Pietro e Giovanni che stavano ridendo esplicitamente.
“Peccato che deve diventare vecchio” pensò la bambina, “è tanto bellino adesso” e lo guardò fisso perché non voleva dimenticarlo mai in tutta la vita. A quei tempi non avevano ancora inventato la macchina fotografica, purtroppo.
<Ah, sei qui, Azzurra> disse Veronica, <ogni tanto questa sparisce, ti viene appresso continuamente, non fa che ripetere le tue parole. Hai una discepola fedele>.
Azzurra divenne scarlatta fino agli occhi:
<Sei diventata rossa, sei diventata rossa> si misero a scherzare i discepoli beccandosi un’altra occhiataccia di Gesù, che le mise una mano sul capo. Lei, oppressa da un allargamento inaudito del cuore, che sembrò spezzarsi, chiuse gli occhi e sbiancò lampantemente.
<Ti senti male?> chiesero i discepoli, anche sua madre s’impressionò.
Vide che la piccola si era graffiata raccogliendo le more e la portò a casa per lavarla.
<Non devi disturbare il maestro> le disse ripulendola, <lui ha tante cose importanti da fare>.
<Che cose?>.
<Guarire i malati, per esempio>.
In quell’attimo le piccole ferite di Azzurra si rimarginarono, la pelle liscia, senza nemmeno un’arrossatura.
<Guarda, mamma, sono guarita> trillò la bambina, e scappò fuori di nuovo a cercarlo.
Intanto Gesù aveva risanato un lebbroso, che era in ginocchio ai suoi piedi: <Vai, e non peccare più> gli stava dicendo lui.
Quant’era bello con quegli occhi azzurri e i capelli d’oro, ad Azzurra sembrò che mancasse il respiro, forse per la corsa. Si buttò ai suoi piedi accanto all’ex lebbroso e incominciò a gridare che anche a lei erano guarite tutte le graffiature dei roveti.
Le persone si misero a ridere, ma Azzurra continuava a strillare:<Guardate, guardate> e agitava forsennatamente le manine.

<Mamma, perché mi avete chiamata Azzurra?>.
<Perché è il colore che piace di più a me> rispose Veronica, <e così ha voluto il tuo papà>.
Azzurra non ricordava nulla di lui e ne aveva avuto sempre una grande nostalgia anche perché i compagni la prendevano in giro e la chiamavano orfanella, ma alla mamma non l’aveva mai detto perché aveva paura di darle un dolore.
<E il mio papà somigliava a Gesù?>. Veronica sospirò.
<Tesoro, gli ebrei biondi sono rari. Il tuo papà era bruno, con gli occhi neri e più basso di Gesù>.
<Mamma, forse Gesù la notte sente freddo, gli facciamo una sciarpa bianca? Però ai due lati ci voglio mettere una striscia azzurra come i suoi occhi.
<E anche la frangia bella lunga,tesoro. Domani incominciamo il lavoro>.
Fu così che Azzurra imparò a tessere, ad aggiungere un colore diverso e a intrecciare la frangia. Ci impiegò il suo tempo, otto mesi cucendo e scucendo, ma volle fare solo lei la sciarpa, bisognava poi pensare ad una confezione elegante. Nulla le pareva abbastanza bello per lui e si disperava, alla fine, bene o male, il pacchetto fu pronto ed uscirono, madre e figlia, col loro dono, la bambina ancora un po’ insoddisfatta.
Fuori c’era una marea di uomini agitati, mendicanti, soldati, anche facce brutte e si sentivano volare bestemmie. In lontananza videro Maria, Maria Maddalena ed altre donne, qualcuno sussurrò all’orecchio di Veronica che stavano crocifiggendo Gesù.
Riportò subito a casa la bambina, che non aveva capito, le disse di non muoversi perché c’era pericolo e corse a vedere senza accorgersi di stringere sempre il pacchetto con la sciarpa in mano. Egli camminava sotto una grande croce e nessuno avrebbe guarito tutte quelle ferite.
Grondava sudore e sangue. Veronica si lanciò in mezzo ai carnefici e gli asciugò il volto con la sciarpa di sua figlia.
Gesù la guardò in un lampo di azzurro.
In quel momento gli occhi della piccola divennero di quell’identico colore.

                                                                                                          Domenica Luise

 (Elaborazione grafica di Domenica Luise)

Vi metto i link delle fiabe religiose che ho pubblicato su questo blog per Pasqua negli anni passati:

https://usignolamimma.wordpress.com/2011/04/23/la-notte-del-sabato-santo/#comments

https://usignolamimma.wordpress.com/2010/04/01/il-pane-di-maria/#comments

https://usignolamimma.wordpress.com/2009/04/10/la-cagnetta-di-maddalena/#comments