La bocca della verità

 

Avevo cinque o sei anni, la mamma mi aveva portata in visita da una vicina bloccata in casa per l'artrosi, le avevamo fatto la spesa e pagato un vaglia della luce alla posta, loro due parlavano di morti e, all'epoca, per me non esisteva discorso più interessante perché proibito e i grandi abbassavano sempre la voce per non farmi capire, < Tanto i vecchi devono morire > dissi osservando la faccia della vicina, che era decrepita specialmente ai miei occhi infantili. La mamma  mi rimproverò: < Cosa dici? Non deve morire nessuno, né giovane né vecchio >, < Oh, come facciamo? > chiesi sbalordita che sul mondo ci fosse tanto spazio da contenere tutti costoro.

Poi guardai meglio la vicina: < Per esempio lei è vecchia > proclamai, la mamma mi diede un pizzico sotto il tavolo ed io dissi : < Ahi, mi hai fatto male >.

La vicina rise, ma allora non capii perché né mi spiegai il motivo per cui la mamma, invece, quel pomeriggio, piangeva tra le braccia del papà e diceva che aveva una figlia scema.

Ora io ero l'unica femmina, quindi la scema ero io. Mio fratello più piccolo non sapeva ancora leggere nemmeno le vocali, quello sì, era scemo, ma tutti lo preferivano a me. Ne ero gelosissima e non lo nascondevo, ma i grandi non se ne accorgevano.

Conosceva a memoria molte capitali del mondo, che a me non entravano in testa, ed anche cime alpine dai nomi difficilissimi. Io, invece, imparavo tutte le poesie che stavano sul libro della prima elementare, quando le seppi come il Padre nostro e l'ave Maria, se non meglio, mandai a memoria le prose ed  anche l'indice, alla fine dovettero incominciare a regalarmi altri libretti, per farmi stare ferma. Cento novelline, Fatine rosa e principi azzurri, Le fate del giorno e della notte, Bambola, Topolino, avevo una scatola di cartone sotto il letto piena dei miei tesori.

Finalmente il computer mi saziò: a  turno il fratellino giocava ed io ci disegnavo col mouse. Imparai ad usare Paint e salvare i miei capolavori, ma il papà diceva che facevo " cose inutili" mentre il " bambino " aveva intelligenza. Continuai ad esserne gelosa e mi sembrava un gran peccato. Me lo confessavo contrita ed il prete ne sorrideva rassicurandomi.

Così ebbi una qualche difficoltà quando gli dissi che anche lui mi sembrava uno scemo. Da dietro la grata sentii qualcosa che somigliava a una risata malamente trattenuta ed infine il verdetto: ben cinque Salve Regina, che nemmeno mi ricordavo e me le dovetti cercare sul libro di preghiere della mamma, non finivano mai.

La mia vita, da quando avevo memoria, era stata sempre difficile. Ormai tutti mi chiamavano " La bocca della verità " a casa, ma anche a scuola e non ero certa che si trattasse di un complimento.

Un altro episodio significativo capitò a diciotto anni. Ora di Divina Commedia, sesto del Paradiso, canto di sintesi storica, una rogna per me negata da sempre per guerre, politica e simili.

Il professore, uno alto, bianco, allampanato, spiegava appassionatamente ed io mi lamentavo sottovoce soffrendo. Egli era uomo mite, ma non cieco né sordo e mi chiese di ripetere il passo, cosa che eseguii malissimo e decisamente sotto tono, < Non mi piace > declamai.

Allora lui, per farmelo piacere, ripeté il tutto impiegando i seguenti tre quarti d'ora, finì con una chiusa fulminante, come a dire: < Sono bravo, eh? >, ed io confermai < Ma a me non piace >.

Vinto, mi chiese se almeno avessi capito, qui risposi di sì.

Tutte le compagne, alle quali dettavo regolarmente il tema, mi tradirono come Giuda e lodarono il sesto canto del Paradiso, non ce n'era una fuori dal coro. Mi salvò la campanella e nel pomeriggio, sudando sulle note a piè di pagina, fui costretta a studiare anch'io la Divina Commedia come tutti i mortali, senza affidarmi esclusivamente alla spiegazione sentita la mattina ed alla mia indubbia fantasia estetica. Il prof. mi aveva annunciato un'interrogazione e non volevo perdere quello che restava della mia faccia.

Quella volta andò così così e, a mia onta, sul registro venne scritto un misero sei meno, in compenso mi laureai al volo col minimo del tempo necessario e il massimo dei voti, a ottobre iniziai ad insegnare. Intanto mi fidanzai con Giovanni, bello, intelligente, magro, alto e con tanti capelli scuri, occhi inquietanti, del quale non nascosi a nessuno quanto fossi innamorata, parlavo sempre di lui oppure stavo con lui, aspettavo lui, compravo regali per lui dai portachiavi alle caramelle alle felpe alla valigetta di cuoio. Impazzivo di gioia e tutti lo seppero, egli sembrava quasi superiore alle mie manifestazioni di lietezza incondizionata, persona equilibrata, più matura dei suoi anni. Contrariamente alle pessimistiche previsioni di mamma e papà riuscii a sposarlo e di quel giorno ricordo solo che mi sentivo in trance, troppo felice per essere realmente presente a quello che facevo e dicevo, sorpresa che mi avesse proprio voluta, sua moglie davanti a Dio e agli uomini. L'organo suonava, io piangevo e ridevo, mi vidi nel film: una scema tentennante, avevo un'espressione che definire strana è riduttivo.

A ventisei anni, sposata da un anno, in attesa del mio primogenito, da un po' di tempo mio marito, secondo me, trovava scuse per cenare fuori la sera e soffermarsi con vaghi impegni di lavoro. Incominciai a indagare col telefonino e spesso trovavo che teneva spento il suo. Ora il patto tra noi due era della massima sincerità, ma a quanto pareva il baldo giovine giocava sporco in casa e fuori. Imbufalita, capii che interrogarlo poteva fare uscire la storia e spingerlo ad una scelta che non volevo facesse, era mio marito, peggio, ne ero innamorata cotta e intendevo tenermelo. Mi lavai, mi profumai, indossai il negligè dal quale usciva tutta la pancia,  sciolsi i capelli e provai a presentarmi così sui tacchi alti che quasi cascavo, egli scoppiò a ridere intenerito e, quella sera, si addormentò abbracciandomi, coi pizzi neri che mi si stamparono sul seno e bagnati pure perché lui ronfava ed io piangevo sicurissima dell'altra, una moglie queste cose le sente.

Però lo strinsi tutta la notte fortemente, sebbene impedita dalla pancia, che prendeva spazio.

Egli, nel sonno, si lamentò e disse un nome forse di donna che, per quanto impastato, non mi sembrò quello mio. Sbarrai gli occhi e smisi di piangere all'istante.

L'indomani, malgrado la nausea regolamentare, il mal di testa da insonnia e la voglia di restare a letto per autocompatirmi a volontà, andai al Pizzini, dove insegnavo materie letterarie. Era la festa della donna e gli alunni mi regalarono tre rose rosse stupende, una per l'affetto, dissero, una per la promozione e una perché ero donna.

Mai che Giovanni, da quando ci eravamo sposati, fosse arrivato a casa con un fiore. Da fidanzato sì: il rituale era stato eseguito alla perfezione. Va bene, tutti sanno come sono insensibili i maschi, ormai avevo desistito dal tentativo di farglielo capire, tanto mi sbadigliava in faccia. Ma l'avventura extraconiugale no, mai e poi mai, non l'avrei sopportata, meglio che niente ancora fosse accaduto.

Quasi quasi non gli potevo perdonare nemmeno un pensiero una tantum.

Tornai a casa e misi i fiori nel vaso di cristallo sulla consolle antica dell'ingresso, regalo nuziale del povero zio Giacomo, buonanima, che mi voleva bene come a una figlia. Ed io lo ricordavo sempre, < Aiutami >, sussurrai rimettendomi a vomitare e a piangere.

Fu allora che mi venne un'idea. Aprii la bustina e tolsi il biglietto, dove c'erano tutte le firme dei ragazzi. Con rammarico presi un accendino di Giovanni, uscii in balcone come una ladra e lo bruciai accuratamente disperdendone le ceneri al vento per cancellare ogni traccia.

Alle tredici e trenta, come di regola, entrò il coniuge ed esclamò: < Che belle. Chi te le ha regalate? >.

Sentii la mia voce rispondere: < Non lo so. Le ho trovate sulla cattedra stamattina, ma non sono stati i ragazzi, quelli non mi porterebbero nemmeno un mazzo di carciofi >.

< Ai miei tempi, invece, volevamo bene agli insegnanti. E chi ti ha regalato rose rosse? Un ammiratore? >, Giovanni assunse il tono ironico sarcastico, ma sembrava sospettoso.

< Mah, non c'era biglietto dentro la bustina, sopra c'è scritto soltanto il mio nome e cognome > risposi a testa alta e scoprii che una piccola bugia, ogni tanto, ci stava bene. < Non sarai mica geloso > aggiunsi. In contemporanea e con mia sorpresa mi resi conto di quanto fosse facile mentire.

< Io ? Noooooooo > rispose l'amato con la fronte sudata e gli occhi di fuori, < ma lo sanno che sei una donna sposata? >.

< Certo, caro, ma mettiti a tavola che le lasagne si raffreddano >.

Fino a quando le rose non sfiorirono non sembrò tranquillo e non parlò più di cenare fuori con gli amici o per lavoro, cenava con me. Ma una moglie non canta vittoria. Imparai a cucinare, io che odiavo i servizi domestici. Lo coccolavo perché lo amavo e me lo volevo tenere,  caffé a letto tutte le mattine col cucchiaino di panna e il pizzico di zucchero tanto e non più, chi ha mai parlato di moglie schiava per una così piccola cosa? Poi lui scoprì il club dei poeti su Internet ed io divenni pure la sua consigliera letteraria, leggevo tutto quello che mandava, dopo le prime mazzate incominciò a ricevere consensi e poi decisamente lodi, ma era bravissimo e le meritava tutte.  Impiegava ore al computer,  che non aveva né morbidi capelli né labbra procaci e tantomeno scollature. Giovanni la sera dimenticò rapidamente le cene di lavoro e la televisione, soltanto di me non si dimenticava, arrivava a letto verso le ventidue, ventidue e trenta, soddisfattissimo, dopo avere letto poesie e scritto commenti, che non avevano neanche essi capelli, labbra e scollature, io chiudevo subito la televisione.

Superammo senza accorgerci di nulla la crisi del settimo anno ed egli è qui con me, ancora bello, solo un po' spennacchiato e moderatamente ingrassato, quando parlo di qualcuno che è morto con le amiche la mia bambina,  sei anni, dice sempre: < Ma tu e papà non siete vecchi e non dovete mica morire >, < No, no > risponde il maschio, cinque anni, < mamma e papà non muoiono mai >.

Domenica Luise

 

 

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Miniraduno poeti a Messina, ah, ah, ah

Appuntamento a mezzogiorno al ristorante Dolce vita, in piazza Duomo a Messina, siamo arrivati disorganizzatissimi, con Lady e suo figlio, provenienti dalla Calabria, dispersi a due isolati di distanza, subito si è presentato un ragazzino che suonava la fisarmonica e chiedeva denaro e due venditori ambulanti, i telefonini e le macchine fotografiche in moto, Lady non arrivava, così ci siamo sistemati al tavolo: Salvatore Genovese, venuto dall'Australia, nel suo ruolo di festeggiato e tutti noi, decisamente vecchiotti, che sembravamo usciti da chissà quale ospizio ( sì, lo so, Gianna, parlo per me, ma tanto tu non vieni sul mio blog e ti ho già mandato le foto per email, a te i blog, compreso il tuo, interessano più o meno quanto facebook a me, quindi non leggi questo post ).
Ho fatto fotografie che definire penose è riduttivo, vi faccio vedere il meglio del meglio, il resto potete immaginarlo.
                                                                                                                 


MimmoTrimacassi e Giovanna

Qui si possono ammirare Trimacassi ( Mimmo Sergi ) e sua moglie, signora Giovanna, accomodati al tavolino  in speranzosa attesa del pranzo e di Lady.

Mimma e Gianni Grillo

Io e Grigio ( Gianni Grillo ) , personalmente posso soltanto sperare di essere venuta in forma più umana in qualche foto scattata dagli altri amici.

Sal e Mimmo
Il festeggiato, A. Sal: Gen ( Salvatore Genovese ), in un brindisi
accanto a Mimmo.

Sal e Gianna

Qui potete ammirare la consegna di una poesia adatta all'occasione, composta da Sal, alla nostra Gianna Curtò, che si è occupata di prenotare il ristorante ed ha provveduto alla buona riuscita della giornata.

La poesia di Sal merita di essere trascritta qui affinché tutti possiate leggerla.

Il traghetto

Per chi se ne va
da quest'isola ancestrale
a mo' di sciabola
un taglio netto
al cordone ombelicale.

pieno di sussurri al cuore
odori dolci e lacrime d'amore
a mo' di cavalla
che cerca il Sangreale
per chi ritorna.

Angela, Lady e Grigio
Ed ecco Lady, seduta tra Grigio e sua moglie, signora Angela.
Avevamo una macchina fotografica per ogni gruppo familiare, fra tutti
chissà cos'è uscito. L'impegno ce l'abbiamo messo. Mah.

Orazio, Gianna e Sal

Questo bel signore dall'atteggiamento riflessivo è Orazio Nastasi, sullo sfondo si vedono Sal e Gianna.

Gaetano

Gaetano, il marito di Gianna.

Il più fotogenicoIl più fotogenico: il piatto del riso.
È stata una giornata bellissima, abbiamo riso, schiamazzato e mangiato quanto
ci è parso opportuno, stupenda la poesia tirata fuori proprio  alla fine
da Orazio Nastasi, ha promesso che la pubblicherà sul club poeti.
La leggeva con tanto pudore, e posso capirlo.

Domenica Luise

Chiara Marinoni Giobba

Chiara originale

Questa bella bionda è Chiara Marinoni
nel giorno del suo ventiseiesimo
anniversario di matrimonio. Auguri, che tu
possa vivere felice.

Chiara nella luce dQui si vede Chiara in una luce d'oro.

Chiara fiori
In quest'altra variazione mimmiana abbiamo la nostra fanciulla
in mezzo ai fiori di campo, in un prato verde da cartone animato.

Chiara acquerello
E per concludere Chiara acquerello.
Oggi le viene attribuito il premio Giobba  per l'affettuosità
e sincerità nel commentare tutte le cosine che pubblico in  questo blog.
Grazie, piccola, per la tua costanza e l'interesse genuino.

Domenica Luise

Il mio principe oppure Giuda

Ballerina a volo


Adesso la ballerina se ne va coi suoi occhi viola
truccati violentemente via, a nascondere
la mascherata dove nessuno
la veda.

Quelle scarpine
si sono macchiate di sangue.

E’ elegante anche nel piangere.

Non ne vale la pena
e chi non ti ama non ti merita

ci sono cento ragioni
tutte valide.

Guardati allo specchio, cos’è
che non hai voluto dare, i tuoi ricordi
la pelle il midollo oppure le poche

ore di vita che ti sono concesse.

 

Talora, una ballerina senza danza. E aspetto
il bacio, ma quale?

 

Domenica Luise
(Acquerello di Domenica Luise)

 

La giacca di zia Mimma


La giacca di zia Mimma 1Qui c'è mia nipote Mariachiara, versione frangetta, che indossa
la mia vecchia giacca jeans riveduta e corretta dopo tre anni di
onorato servizio. È ricamata a uncinetto. Ho fatto il cordoncino che
la rifinisce tutt'intorno creando una catenella con tre gomitoli uguali
di cotone: dal lato rovescio appare un semitubolare, che va benissimo
per ricoprire i punti un po' troppo consumati. Ho decorato con
fiorellini soltanto il colletto. Vi faccio vedere tutto in primo piano.

Colletto
Come potete notare il colletto è ricamato in maniera irregolare nei due lati.
Qui sotto vi metto i particolari destro e sinistro.

Angolo destro del colletto

Questo è il lato destro, fiori, foglie e semitubolare sono semplicissimi da lavorare, dopo si applicano a piacere, con punti nascosti.

Angolo sinistro del colletto
E questo è il lato sinistro. Con lo stesso metodo potrete facilmente decorare borse, scarpe, corredini per neonati e quello che più vi piace. Se poi preferite che i due lati del colletto siano uguali, basta creare i fiorellini e le foglie doppi ed usare contemporaneamente due aghi per applicarli man mano da entrambi i lati.

E per concludere, poiché mia nipote è bella e l'occhio gode,
eccola in altre due pose.

La giacca di zia Mimma 3

La giacca di zia Mimma 2

Piccola curiosità: il papà della mia mamma era rosso di capelli. Quando mia sorella Iole aspettava Mariachiara, io ho sognato che nasceva una bambina bionda coi capelli lisci, invece lei nacque rossa e riccia. Ho pensato: sogni! E non ci ho fatto caso, invece ben presto i capelli di Mariachiara divennero da soli biondi e lisci. Mah.

                           (Fotografie di Domenica Luise e Iole Luise)

Mare verde

Mare verde

  

Deve respirare, cantare, gridare
pregare, sanguinare
morire e rinascere, eternizzarsi.

 

Vivere, insomma.

Talora una superficie mossa
dove i colori si intrufolano amandosi

di infinito sale liquido.

La mia anima che osa.

 

                                            Domenica Luise
(Quadro di Domenica Luise, olio su tela 70 per 50)

 

Gli alunni ed io

 

 

Insegnavo, ai tempi, italiano e latino in un liceo scientifico.  Lui era un ragazzone sempre col sorriso stampato sulla faccia e l’andatura dinoccolata, rigorosamente svogliato.  Passava la giornata in trance, a tutto interessato tranne che a me. Ora di letteratura latina.
< Stai attento, non distrarti > ( io ).
< Sì, professoressa > ( lui, con atteggiamento rassegnato assente ).
< Vedete che poi queste cose le voglio tutte >.
< Sì, professoressa > ( piccolo coro della classe ).
< Facciamo così, dopo vi interrogo e mettiamo un voto >,  gli allievi sollevarono il capo appena più svegli : meglio in letteratura che nella sintassi.
Proseguii dopo avere guadagnato il minimo dell’interesse necessario, ma non da lui.  Allora, quando prendevo le mie vendette, prima facevo finta di sputarmi nei palmi delle mani, dicevo < Ah, ah, ahhhh > , aprivo il registro : < Interroghiamo >.
Fingevo di andare con la penna a casaccio e chiamavo chi pensavo ne avesse bisogno.
Feci il suo nome. Egli restò lì a guardarmi come sorpreso.
< Debbo mettere due subito ? >.
< No, professoressa, vengo >.
Arrivò a passo lento, incominciai a fare domande, i compagni, col libro aperto davanti, suggerivano tutto, egli ripeteva, ma era rosso e sudato un pochino sulla fronte.
Per il suo bene non potevo impietosirmi né dovevo. Il più seriamente possibile toccai qui o lì gli autori svolti, i suggerimenti arrivavano prima a me che a lui. Del resto tutti gli alunni da subito si accorgevano del mio udito sottilissimo e, dopo i primi tentativi, preferivano stare zitti anche per non essere la prossima vittima.
Poiché non dicevo nulla,  essi continuarono a dettargli le risposte ed egli, ma sempre più incerto, a ripeterle.
Alla fine gli detti l’unghiata del leone: volli sapere in quali periodi fosse suddivisa la letteratura latina. Non lo chiedevo mai a nessuno ( non amo il nozionismo forzato ) ed era risaputo quindi tutta la classe, quella mattina, se lo ripassò, giunti all’ultimo, quello di decadenza, egli  apriva la bocca e non fiatava, i compagni suggerivano sempre più forte, ma Salvatore niente.
< Insomma, come si chiama quest’ultimo periodo ? > sbottai ormai all’estremo della pazienza e lui:
< Periodo di catalessi, professoressa >.
< E un’altra catalessi sei tu > gli risposi scrivendo il due necessario.
Stessa classe, Divina Commedia, Inferno. Quella mattina avevo preparato per loro un canto, ma non mi ricordo più quale fosse,  sul quale a scuola si preferisce sorvolare per le difficili connessioni tra

la Bibbia e la mitologia greca : Dante se ne va per fulgurazioni sintetiche, in una forma metrica rigorosissima, come si usava ai tempi, ma con uno stile assolutamente moderno.  Io sono un’appassionata. La dose della lezione era mezzo canto, la regola che dovevano subito essere in grado di ripetermi la spiegazione dimostrando di avere capito tutto: il significato  parola per parola, l’insieme e l’analisi logica e del periodo.
Potevano fare tutte le domande necessarie ed io avrei ripetuto più volte la stessa cosa con parole diverse, ma se al mio : < Avete capito ? > rispondevano di sì, dopo dovevano dimostrarlo.
In questo modo
la Divina Commedia andava bene per tutti ed era per loro facilissimo prendere sette.
Sicché mi chiedevano sempre di essere interrogati in Divina Commedia. Quella mattina si presentarono concordi senza libro.
Ricordo ancora Luigi, con un braccio disteso sul banco e l’aria assonnata :
< Spieghi pure, professoressa, stiamo attenti lo stesso >.

Dissi che il canto era difficile e che dopo li avrei interrogati. Tutti.
< Non si preoccupi, professoressa, stiamo attenti lo stesso > ( piccolo coro della classe ).
Spiegai il mezzo canto dovuto e afferrai il registro. Avevano capito in maniera perfetta. Era stato uno scherzo, la voglia di dimostrarmi quanto fossero diventati bravi. Ridemmo insieme e misi sette a tutti.
Franco era l’alunno più indisciplinato dell’istituto, del genere che una mattina, come mi disse lui stesso davanti a tutti i compagni, si fece cogliere in flagrante dalla vicepreside con una  borraccia di coca cola in mano e le lasciò credere che fosse droga, la poverina mandò il liquido ad analizzare dopo essere salita su una sedia ( era formato mignon ) e avergli stampato due schiaffoni ( aveva il consenso disperato della famiglia ) , egli entrò in classe lamentandosi e massaggiandosi la faccia, ma era compiaciuto. Un’altra mattina me lo trovai, in pieno inverno, rapato a zero da capellone che era, la solita vicepreside gli ripeteva sempre di tagliarseli , Franco si presentò a scuola col cranio nudo e le disse: < Vanno bene così o ancora più corti ? >.
Non sopportava il professore di filosofia e così, quando era interrogato, non parlava. Con me aveva sette in letteratura italiana ( in latino no! ) e scriveva articoletti per il giornalino di classe. Mi faceva dei bei temi in calligrafia sbilenca e studiava di gusto.
Quando dettai sette alla chiusura del primo quadrimestre, il collega di filosofia mi attaccò pubblicamente dicendo che non poteva essere. Risposi che andava bene e valeva sette.
Ogni volta che l’anno finiva quello di filosofia restava indietro con le interrogazioni e mi chiedeva sempre di sedersi in fondo alla classe per esaminare i soliti ritardatari, lì l’aspettavo. Lui si sedette ed io chiamai Franco alla cattedra in letteratura italiana, sapevo benissimo quanto avesse studiato. Incominciai con domande terribili e approfondite, il ragazzo si mise a esporre il tutto con la massima disinvoltura, dopo un pezzo sentii una voce dal fondo della classe: < Ma allora è vero che questo non parla soltanto con me >.
Quell’estate ricevetti una cartolina da Franco, diceva così: Grazie di tutto. La ricorderò sempre.

Mi mancano.

 

                                  Domenica Luise

 

 

La vita del cigno

La vita del cigno



Adesso
che i bei capelli giacciono finalmente

tutti possono guardarti di nuovo
respirandoti.

Hai lasciato a noi poesie di una ragazza
incredula a quanto avveniva nella sua carne.

Per te
hanno chiesto il miracolo agnostici e religiosi

insieme. Invece
dobbiamo schiudere le mani. Ciao.

Le tue ali
strappano l’afflato

e guizzano oltre. Piango
perché commuovi il mio spirito.

                                                     Domenica Luise

A Beatrice Zanini, poetessa e mia amica
(Disegno di Domenica Luise)

 

Il saluto di Beatrice

Astratto deformato

Tu che mi segui fitto fitto
in trama di parole e versi
tu che ti affacci e basta
un sorriso 🙂

Tu amico di penna
inchiostro e di sventura
mi tieni fermo il margine
ché non esca poi di troppo
il mio dolore

e mi parli
e ti parlo
senza vergogna di mostrare
le nostre nudità evidenti

sulla schermata
si sfiorano i palpiti
si incontrano le parole
si penetrano i pensieri
si incarnano le immagini

La vita in fondo
è anche geometria di voci
un cerchio diseguale
l'imperfetto movimento che aggrega le distanze

qui
sul nascere
  è poesia d'abbraccio 

Beatrice Zanini
 
  Con questa poesia Beatrice ( Bea Marbe ) ha voluto dire addio agli amici amati.
La sua anima è partita stamattina per il viaggio finale nella luce,
dove alla fine ci riuniremo così come tutti speriamo. Ciao, Beatrice.
Se volete commentare, fate clic QUI per trovarvi sul blog di Bea.

(Disegno di Domenica Luise)