Avevo cinque o sei anni, la mamma mi aveva portata in visita da una vicina bloccata in casa per l'artrosi, le avevamo fatto la spesa e pagato un vaglia della luce alla posta, loro due parlavano di morti e, all'epoca, per me non esisteva discorso più interessante perché proibito e i grandi abbassavano sempre la voce per non farmi capire, < Tanto i vecchi devono morire > dissi osservando la faccia della vicina, che era decrepita specialmente ai miei occhi infantili. La mamma mi rimproverò: < Cosa dici? Non deve morire nessuno, né giovane né vecchio >, < Oh, come facciamo? > chiesi sbalordita che sul mondo ci fosse tanto spazio da contenere tutti costoro.
Poi guardai meglio la vicina: < Per esempio lei è vecchia > proclamai, la mamma mi diede un pizzico sotto il tavolo ed io dissi : < Ahi, mi hai fatto male >.
La vicina rise, ma allora non capii perché né mi spiegai il motivo per cui la mamma, invece, quel pomeriggio, piangeva tra le braccia del papà e diceva che aveva una figlia scema.
Ora io ero l'unica femmina, quindi la scema ero io. Mio fratello più piccolo non sapeva ancora leggere nemmeno le vocali, quello sì, era scemo, ma tutti lo preferivano a me. Ne ero gelosissima e non lo nascondevo, ma i grandi non se ne accorgevano.
Conosceva a memoria molte capitali del mondo, che a me non entravano in testa, ed anche cime alpine dai nomi difficilissimi. Io, invece, imparavo tutte le poesie che stavano sul libro della prima elementare, quando le seppi come il Padre nostro e l'ave Maria, se non meglio, mandai a memoria le prose ed anche l'indice, alla fine dovettero incominciare a regalarmi altri libretti, per farmi stare ferma. Cento novelline, Fatine rosa e principi azzurri, Le fate del giorno e della notte, Bambola, Topolino, avevo una scatola di cartone sotto il letto piena dei miei tesori.
Finalmente il computer mi saziò: a turno il fratellino giocava ed io ci disegnavo col mouse. Imparai ad usare Paint e salvare i miei capolavori, ma il papà diceva che facevo " cose inutili" mentre il " bambino " aveva intelligenza. Continuai ad esserne gelosa e mi sembrava un gran peccato. Me lo confessavo contrita ed il prete ne sorrideva rassicurandomi.
Così ebbi una qualche difficoltà quando gli dissi che anche lui mi sembrava uno scemo. Da dietro la grata sentii qualcosa che somigliava a una risata malamente trattenuta ed infine il verdetto: ben cinque Salve Regina, che nemmeno mi ricordavo e me le dovetti cercare sul libro di preghiere della mamma, non finivano mai.
La mia vita, da quando avevo memoria, era stata sempre difficile. Ormai tutti mi chiamavano " La bocca della verità " a casa, ma anche a scuola e non ero certa che si trattasse di un complimento.
Un altro episodio significativo capitò a diciotto anni. Ora di Divina Commedia, sesto del Paradiso, canto di sintesi storica, una rogna per me negata da sempre per guerre, politica e simili.
Il professore, uno alto, bianco, allampanato, spiegava appassionatamente ed io mi lamentavo sottovoce soffrendo. Egli era uomo mite, ma non cieco né sordo e mi chiese di ripetere il passo, cosa che eseguii malissimo e decisamente sotto tono, < Non mi piace > declamai.
Allora lui, per farmelo piacere, ripeté il tutto impiegando i seguenti tre quarti d'ora, finì con una chiusa fulminante, come a dire: < Sono bravo, eh? >, ed io confermai < Ma a me non piace >.
Vinto, mi chiese se almeno avessi capito, qui risposi di sì.
Tutte le compagne, alle quali dettavo regolarmente il tema, mi tradirono come Giuda e lodarono il sesto canto del Paradiso, non ce n'era una fuori dal coro. Mi salvò la campanella e nel pomeriggio, sudando sulle note a piè di pagina, fui costretta a studiare anch'io la Divina Commedia come tutti i mortali, senza affidarmi esclusivamente alla spiegazione sentita la mattina ed alla mia indubbia fantasia estetica. Il prof. mi aveva annunciato un'interrogazione e non volevo perdere quello che restava della mia faccia.
Quella volta andò così così e, a mia onta, sul registro venne scritto un misero sei meno, in compenso mi laureai al volo col minimo del tempo necessario e il massimo dei voti, a ottobre iniziai ad insegnare. Intanto mi fidanzai con Giovanni, bello, intelligente, magro, alto e con tanti capelli scuri, occhi inquietanti, del quale non nascosi a nessuno quanto fossi innamorata, parlavo sempre di lui oppure stavo con lui, aspettavo lui, compravo regali per lui dai portachiavi alle caramelle alle felpe alla valigetta di cuoio. Impazzivo di gioia e tutti lo seppero, egli sembrava quasi superiore alle mie manifestazioni di lietezza incondizionata, persona equilibrata, più matura dei suoi anni. Contrariamente alle pessimistiche previsioni di mamma e papà riuscii a sposarlo e di quel giorno ricordo solo che mi sentivo in trance, troppo felice per essere realmente presente a quello che facevo e dicevo, sorpresa che mi avesse proprio voluta, sua moglie davanti a Dio e agli uomini. L'organo suonava, io piangevo e ridevo, mi vidi nel film: una scema tentennante, avevo un'espressione che definire strana è riduttivo.
A ventisei anni, sposata da un anno, in attesa del mio primogenito, da un po' di tempo mio marito, secondo me, trovava scuse per cenare fuori la sera e soffermarsi con vaghi impegni di lavoro. Incominciai a indagare col telefonino e spesso trovavo che teneva spento il suo. Ora il patto tra noi due era della massima sincerità, ma a quanto pareva il baldo giovine giocava sporco in casa e fuori. Imbufalita, capii che interrogarlo poteva fare uscire la storia e spingerlo ad una scelta che non volevo facesse, era mio marito, peggio, ne ero innamorata cotta e intendevo tenermelo. Mi lavai, mi profumai, indossai il negligè dal quale usciva tutta la pancia, sciolsi i capelli e provai a presentarmi così sui tacchi alti che quasi cascavo, egli scoppiò a ridere intenerito e, quella sera, si addormentò abbracciandomi, coi pizzi neri che mi si stamparono sul seno e bagnati pure perché lui ronfava ed io piangevo sicurissima dell'altra, una moglie queste cose le sente.
Però lo strinsi tutta la notte fortemente, sebbene impedita dalla pancia, che prendeva spazio.
Egli, nel sonno, si lamentò e disse un nome forse di donna che, per quanto impastato, non mi sembrò quello mio. Sbarrai gli occhi e smisi di piangere all'istante.
L'indomani, malgrado la nausea regolamentare, il mal di testa da insonnia e la voglia di restare a letto per autocompatirmi a volontà, andai al Pizzini, dove insegnavo materie letterarie. Era la festa della donna e gli alunni mi regalarono tre rose rosse stupende, una per l'affetto, dissero, una per la promozione e una perché ero donna.
Mai che Giovanni, da quando ci eravamo sposati, fosse arrivato a casa con un fiore. Da fidanzato sì: il rituale era stato eseguito alla perfezione. Va bene, tutti sanno come sono insensibili i maschi, ormai avevo desistito dal tentativo di farglielo capire, tanto mi sbadigliava in faccia. Ma l'avventura extraconiugale no, mai e poi mai, non l'avrei sopportata, meglio che niente ancora fosse accaduto.
Quasi quasi non gli potevo perdonare nemmeno un pensiero una tantum.
Tornai a casa e misi i fiori nel vaso di cristallo sulla consolle antica dell'ingresso, regalo nuziale del povero zio Giacomo, buonanima, che mi voleva bene come a una figlia. Ed io lo ricordavo sempre, < Aiutami >, sussurrai rimettendomi a vomitare e a piangere.
Fu allora che mi venne un'idea. Aprii la bustina e tolsi il biglietto, dove c'erano tutte le firme dei ragazzi. Con rammarico presi un accendino di Giovanni, uscii in balcone come una ladra e lo bruciai accuratamente disperdendone le ceneri al vento per cancellare ogni traccia.
Alle tredici e trenta, come di regola, entrò il coniuge ed esclamò: < Che belle. Chi te le ha regalate? >.
Sentii la mia voce rispondere: < Non lo so. Le ho trovate sulla cattedra stamattina, ma non sono stati i ragazzi, quelli non mi porterebbero nemmeno un mazzo di carciofi >.
< Ai miei tempi, invece, volevamo bene agli insegnanti. E chi ti ha regalato rose rosse? Un ammiratore? >, Giovanni assunse il tono ironico sarcastico, ma sembrava sospettoso.
< Mah, non c'era biglietto dentro la bustina, sopra c'è scritto soltanto il mio nome e cognome > risposi a testa alta e scoprii che una piccola bugia, ogni tanto, ci stava bene. < Non sarai mica geloso > aggiunsi. In contemporanea e con mia sorpresa mi resi conto di quanto fosse facile mentire.
< Io ? Noooooooo > rispose l'amato con la fronte sudata e gli occhi di fuori, < ma lo sanno che sei una donna sposata? >.
< Certo, caro, ma mettiti a tavola che le lasagne si raffreddano >.
Fino a quando le rose non sfiorirono non sembrò tranquillo e non parlò più di cenare fuori con gli amici o per lavoro, cenava con me. Ma una moglie non canta vittoria. Imparai a cucinare, io che odiavo i servizi domestici. Lo coccolavo perché lo amavo e me lo volevo tenere, caffé a letto tutte le mattine col cucchiaino di panna e il pizzico di zucchero tanto e non più, chi ha mai parlato di moglie schiava per una così piccola cosa? Poi lui scoprì il club dei poeti su Internet ed io divenni pure la sua consigliera letteraria, leggevo tutto quello che mandava, dopo le prime mazzate incominciò a ricevere consensi e poi decisamente lodi, ma era bravissimo e le meritava tutte. Impiegava ore al computer, che non aveva né morbidi capelli né labbra procaci e tantomeno scollature. Giovanni la sera dimenticò rapidamente le cene di lavoro e la televisione, soltanto di me non si dimenticava, arrivava a letto verso le ventidue, ventidue e trenta, soddisfattissimo, dopo avere letto poesie e scritto commenti, che non avevano neanche essi capelli, labbra e scollature, io chiudevo subito la televisione.
Superammo senza accorgerci di nulla la crisi del settimo anno ed egli è qui con me, ancora bello, solo un po' spennacchiato e moderatamente ingrassato, quando parlo di qualcuno che è morto con le amiche la mia bambina, sei anni, dice sempre: < Ma tu e papà non siete vecchi e non dovete mica morire >, < No, no > risponde il maschio, cinque anni, < mamma e papà non muoiono mai >.
Domenica Luise