Anni vecchi e vecchie befane

<Ah, ah, ah, l’anno vecchio non è ancora finito e già cerca moglie> disse una befana rattrappita alla sua compagna di tavola nell’elegante sala da pranzo dell’ospizio in collina dove vivevano ricoverate ognuna col suo sacco di carbone, residuato di tempi migliori, le calze spaiate e i giocattoli fuori moda che nessun bambino voleva perché ormai tutti riforniti di computer, tablet e telefonini.
<I genitori dovrebbero smetterla di viziare i figli, poi diventano tutti drogati, ubriaconi, politicanti imbroglioni e ladri, che si svergognano in televisione l’uno contro l’altro e così la gente capisce tutti i trespoli> rispose una secca, col mento puntuto e gli occhiali a specchio, da un paio di centinaia di anni incominciava a dimenticarsi le cose mentre le stava dicendo.
<Cosa c’entrano i trespoli?>.
<Di quali trespoli si tratta?>.
<Ma di cosa stavamo parlando?>.
<Con questa crisi perfino l’anno vecchio, che ha fatto il giovincello fino a tutta l’estate, si è dovuto togliere parecchi optional>.
<Ti sei messa pure tu a parlare inglese?>.
<Tanto quello c’è rimasto, ormai, l’italiano è una lontana memoria, chi lo ricorda più tranne qualche poetessa pazza?>.
<A proposito, cosa portiamo a Domenica Luise, oltre un sacchetto piccolo di carbone?>.
<E chi è questa?>.
<Quella dell’Usignola stonata, ha messo pure noi in una favola metaforica>.
<Perché, cosa c’è di metaforico? Noi siamo reali e artrosiche>.
<Magari un pacco di cinque o sei quaderni, qualche penna e una matita con la gomma sopra per fare le parole crociate quando la notte non dorme>.
<Ah, quella che crede di essere una poetessa>.
<Poveraccia, zoppica. Un paio di stampelle?>.
<Oppure una sedia a rotelle di seconda mano>.
<Non abbiamo tanti soldi. Forse un buono per un commento sul suo ultimo post>.
<E chi lo scrive? Io no>.
<Io nemmeno>
<Potremmo tirare a sorte, col metodo della cannuccia più corta o più lunga>.
<Sì, conosco i vostri brogli elettorali. Diamole il solo carbone>.
<Ma chi l’ha detto che tutti gli anni vecchi cercano moglie?>.
<Stava sulla gazzetta delle favole di stamattina. Ognuno di loro aspira a una befana, visto che nessun’altra donna li sopporta più>.
<E che cosa vogliono da noi?>.
<Quello che vogliono tutti i maschi dalle femmine: essere accuditi, coccolati e massaggiati, nutriti, lavati, stirati e rispettati>.
<Ma io credevo che alla fine morissero>.
<Sei una sognatrice. Ognuno vive nel ricordo che lascia: terremoti, onde anomale, guerre, politicanti corrotti, imbrogli e prevaricazioni>.
<Ma non c’è rimasto niente di buono?>.
<Resiste ancora qualche brava persona che non usa i poveri per arricchire se stessa, ma è sempre più raro incontrarne>.
<Ma voialtre, di carbone, ne avete ancora nell’armadio? Io l’ho distribuito tutto alla camera dei deputati>.
<Io l’ho dato ai mariti violenti e alle mogli crudeli>.
<Io a quelli che predicano bene e razzolano male>.
<Io ai figli maleducati coi genitori>.
<E basta, finitela con questi elenchi oppure non concludiamo niente. Il carbone è esaurito dapertutto, dobbiamo andare nel bosco, scavare una buca, riempirla di legna e accenderla. Ci sono volontarie?>.
<Alla nostra età?>.
<Siete befane o no?>.
<Siamo befane, no sceme, scava e accendi tu, dopo devi assistere il carbone finché è cotto>.
<C’è crisi, c’è crisi. Cosa potremmo dargli al posto del carbone?>
<Secondo me questa è una domanda di quelle senza risposta. Parliamo d’altro>.
<Una volta si diceva non vale un fico secco, oggi costano a peso d’oro>.
<I fichi secchi no, ho detto di cambiare discorso. Consolatevi, tra poco arriva l’anno nuovo, speriamo che non si ammazzino fino dal primo giorno>.
<Ma cosa vuoi sperare. Ti sei fatta perfino la crocchia con quei quattro capelli che ti sono rimasti>.
<Sarai bella tu, con la parrucca gialla e le rughe stirate dalla crema miracolosa alle cellule staminali>.
<Meglio il botulino, ti fa la faccia come una bambola di plastica>.
<Ragazze, finitela di litigare>.
<Ragazze un corno. E noi litighiamo quanto ci pare, del resto litigano tutti>.
<Non saresti buona nemmeno per accudire il 1943>.
<E perché proprio il 1943?>.
<È la data di nascita di una superbefana poetessa>.
<Ma è ancora viva?>.
<Sicuramente, ce l’ha fatta di nuovo>.
<Ammirevole. Che resistenza>.
<A lei il regalo bisogna farlo, magari una scopa nuova, in stile antico, di saggina vera naturale>.
<Ma tutti gli anni vecchi cercano moglie?>
<Già, nessuno escluso. E noi befane siamo numerosissime, possono scegliere>.
<Io non mi voglio sposare>.
<Io un marito ce l’ho ed è anche troppo>.
<Io sto bene single con la gatta>.
<E dagli con quest’inglese, si dice zitella>.
<Io un anno vecchio lo sposerei pure, ma solo se si può permettere una cuoca, due domestiche e un giardiniere> saltò su una befana ben tenuta a furia di bustino e stecche retro.
<Ma quelli sono vecchi bacucchi>.
<Noi, invece, pure> ammise Mimma, diceva sempre quello che pensava e perciò nessuno la sopportava, nemmeno gli anni vecchi più decrepiti>.
<A te non ti pigliano sicuro, sei strana>.
Mimma fece la sua tipica espressione imbronciata che, quand’era piccola, otteneva tanti consensi.
Cristina subito la difese: <Ma non vedete quant’è ingenua?>.
<Lasciatela stare in pace> intervenne la sorella Iole, <non è colpa sua, è stata sempre così>.
<Non dico il 1943, che è troppo antico, ma io un annetto vecchio lo sposerei, sono sincera> confessò una befana rossa, crespa, con la faccia bianca e il rossetto viola quasi nero assortito alle unghie, che sembrava anoressica tanto mangiava poco perché non voleva ingrassare.
<Meglio sola che male accompagnata> rispose una befana femminista a oltranza, in pantaloni aderenti, seno appiattito, maniche al gomito per mostrare le braccia tatuate e piercing che le tirava giù il labbro inferiore esibendo i pochi denti rimasti fra un buco e l’altro.
<Finché c’è vita c’è speranza> concluse una befana fachira sistemandosi nella posizione del loto sul suo letto di chiodi, <ed ora state tutte zitte, devo meditare sul futuro dell’umanità>.

Domenica Luise

Guardate cos’ha scritto Renzo Montagnoli, che vista sintetica politica e quale lucidità:

http://confrontodiopinioni.blogspot.it/2013/01/lagenda-monti-anzi-no-lagenda-montagnoli.html

Terzo millennio: gli omini verdi

Quando la pittrice quella mattina si guardò allo specchio per mettere la crema idratante che cancellava le rughe istantaneamente, trovò delle strane sfumature verdi, specialmente sui pomelli. Le labbra, poi, erano verde bandiera e gli occhi brillavano tanto che sembravano fosforescenti.
Restò a bocca aperta, ma anche i denti erano verdastri.
Si guardò le unghie: assortite alle labbra.
Terrorizzata chiamò l’ambulanza e si fece portare al pronto soccorso.
Il colorito verde intensificò fino al massimo della sua densità. La pittrice sembrava un prato in primavera e nel pronto soccorso le dettero assoluta precedenza.
<Qua ci vuole il prete> proclamò il primario, <forse è opera diabolica>.
Venne il prete e disse:< Figliola, quali sono i tuoi peccati?>.
<I soliti, padre, sempre gli stessi: ho tradito mio marito con uomini diversi, ho usato la gattina della vicina come tiro al bersaglio e l’ho ammazzata con una freccia, ho fatto la dichiarazione dei redditi falsa come tutti gli anni certificando un introito di duemila e trenta euro per l’anno passato, ho scritto lettere anonime piene di calunnie e ho rubato un bracciale di oro vecchio alla mia vicina Mimisia quella volta che mi ha invitata a pranzo, era un caro ricordo della sua defunta madre. Nient’altro, come può vedere tutte venialità> .
<Figlia, non sarai stata anche invidiosa di qualcuno?> chiese il prete, che era un vecchio saggio e sapeva le cose della vita.
<È vero, padre. Ho invidiato quella Mimisia perché dipinge meglio di me e scrive meravigliose poesie sul suo dannato blog. L’avrei strangolata volentieri con una calza di nylon, però non l’avevo perché era estate e stavo a gambe nude>.
<Se non smetti di invidiarla il colore verde non passerà mai>.
<Allora come posso fare?>
<Cerca di sostituire l’invidia con l’amore>.
La pittrice rispose di sì e intanto pensava che anche il prete aveva gli occhi verdi che mandavano lampi, difatti era invidioso di un suo collega perché aveva preso la terza laurea, il quale a sua volta verdeggiava  perché un suo compagno di seminario, meno devoto di lui ed anche meno intelligente, era stato elevato alla porpora cardinalizia, intanto il cardinale era verde d’invidia per il papa eletto, il quale anche lui diventava sempre più verde perché era invidioso del proprio segretario, baldo giovane pimpante non artrosico.
Quel giorno medici e infermieri verdi si agitavano dicendosi l’uno con l’altro: <Ma di che colore sei?>, fuori dall’ospedale non andava meglio e in poche ore finì che soltanto i bambini neonati rimasero rosei.
Non tutti i verdi erano uguali, si andava dal color germoglio al marcio seguendo le diverse sfumature. Le epidermidi risultarono refrattarie a qualsiasi rimedio anche drastico: impacchi di bicarbonato, che fa bene a tutto o quasi, bagni di succo di limone, acqua ossigenata e ammoniaca, detersivo per piatti, perfino la varechina della biancheria e gli smacchiatori di marche varie. Niente da fare, verdi erano e più verdi diventavano, se si pungevano con la spina anche il sangue era verde. Il malumore dilagò e tutti incominciarono a dire, prima sottovoce e dopo urlando nelle strade e dai mass media, che la colpa era della politica e si erano messi d’accordo per sterminare la popolazione dai cinquant’anni in su senza pagargli la pensione. In giornata subito si formarono gruppi di studio dei medici più prestigiosi, compresi i premi nobel e i veterinari, per trovare l’origine e il rimedio di tale fenomeno, specialmente protestavano i più invidiosi, ai quali venivano le orecchie a sventola, il naso adunco e un grosso artiglio ai due indici delle mani. Li isolavano in camere senza specchi anche perché si rotolavano per terra con le convulsioni e la bava alla bocca, verde anch’essa. Non si capiva se fossero infettivi, il pronto soccorso andò in tilt in tutti gli ospedali, vennero chiuse le scuole e i mafiosi si nascosero nei bunker preparati per sfuggire alla polizia, ma anche i poliziotti si rintanavano vergognosi di quel colore sgargiante. I peggio combinati erano i poeti, ai quali nulla mancava, né gli occhi saettanti, il naso adunco e le orecchie a sventola e nemmeno una specie di cresta ritta sulla testa che li contraddistingueva. L’evento fu comune e definitivo così tutti, per tornare al colore normale, incominciarono a fingere di amarsi, ma non era una cosa facile e non poté funzionare, allora parlarono di evoluzione, alla quale diedero ogni colpa.
Il che spiega come mai, quando sulla terra arriva un’astronave aliena, subito si racconta che “i marziani” siano omini verdi, provenienti da una civiltà più evoluta della nostra. Ormai anche noi ci siamo evoluti dignitosamente e omologati al verde universale. Mal comune mezzo gaudio. Perché smacchiarci? E se anche ci trasformassimo in piante sostituendo la circolazione sanguigna con la fotosintesi clorofilliana, perché considerarla una regressione? L’importante è la salute e il conto in banca. In quanto alle convulsioni, si potrebbero considerare una forma di danza moderna nuovissima e prestigiosa: il ballo di santa invidia.

                                                                                                    Domenica Luise

Mimma e la casa autopulente

Era vergognoso che, con i nuovi ritrovati della scienza e della tecnica, la donna dovesse ancora faticare tanto per spazzare, lavare, spolverare, cucinare e ripulire continuamente la casa.
Dopo secoli di angelo del focolare alla brava massaia caddero le ali e se il maschio volle mangiare sulla tovaglia e dormire nelle lenzuola stirate dovette condividere la condanna.
Così ci furono i secoli bui del Medioevo di coppia, quando le arti erano sottomesse alle faccende domestiche: <Non posso dipingere la Gioconda> si lamentava Leonardo da Vinci, <debbo preparare il ragù e dare aria ai materassi> e perfino Michelangelo aveva interrotto a metà uno dei diavoli del Giudizio Universale perché sua sorella aveva mal di pancia e non c’era nessuno che spolverasse col piumino di penne di gallina.
Per non parlare di Dante Alighieri e Alberto Moravia che, da quando si erano conosciuti, litigavano sempre per le opposte opinioni etiche e stilistiche e su una cosa sola erano d’accordo: nessuno dei due voleva andare a buttare la spazzatura.
Ora Mimma aveva un gran buon cuore, una bella intelligenza artistica ed era stata una delle prime donne al mondo a perdere precocemente le ali di angelo del focolare, che le caddero verso i tre anni accartocciate una di qua e l’altra di là  in due miserevoli mucchietti di pennucce gialle da pulcino bagnato perché la mamma le aveva consegnato uno strofinaccio a quadri rossi e ordinato di asciugare quattro cucchiai. Nessuno la volle così sfornita e Mimma restò zitella anche se poetessa.
Allora, almeno, si organizzò la casa.
Al mattino c’era la sveglia, questo si sa: una dolce musica si diffondeva nella stanza, poi il ritmo cambiava divenendo sempre più galoppante fino a quando i colpi di grancassa la facevano incominciare a sbadigliare, il letto si girava, si piegava e la scodellava sul tappeto, che incominciava a vibrare portandola fino in bagno, Mimma veniva delicatamente sospinta in una specie di attrezzo che sembrava un autolavaggio, massaggiata, asciugata, rivestita e seduta al tavolo dove la robottina di casa le aveva preparato la colazione.
<Buongiorno, signora Mimma, dormito bene? Come vanno i dolori dell’artrosi? > chiedeva la robottina scuotendo i morbidi capelli color arcobaleno. Le tagliava il pane e le spalmava la marmellata, il burro Mimma non lo mangiava per non ingrassare più di quanto già fosse, le versava il caffè col latte e il dolcificante. Dopo avere inventato la robottina, ormai diffusa a livello planetario e funzionante ad acqua marina, Mimma era diventata ricchissima tanto che tutti volevano diventare suoi eredi e si erano trovati molti lontani parenti. Anche gli enti benefici si procuravano il suo numero di telefono, benché non fosse in elenco, e le chiedevano continuamente offerte per i bisognosi, così Mimma destinò l’uno per cento dei guadagni ai poveri esentasse e tutti furono soddisfatti, almeno momentaneamente, ogni palazzo, albergo, associazione e finanche i conventi di clausura ebbero le proprie robottine tuttofare non inquinanti, il cui effetto collaterale era semplicemente una moderata produzione di sale che serviva per i bisogni di casa.
Ben presto alcune robottine si riunirono in associazioni ribelli e pretesero il robottino compagno, a Mimma sembrò giusto e così uomini e robot popolarono felicemente il mondo, ma solo perché questa è una favola e tutti vissero contenti.

                                                                   Domenica Luise

Avviso urgente: se fate clic sul link qui sotto potrete saltare sul blog di Cristina ed avere notizia di una bella antologia poetica alla quale partecipa anche lei:
http://cristinabove.splinder.com/post/25738528#commenthttp:
//cristinabove.splinder.com/post/25738528#comment

La zanzara povera e la zanzara ricca

Buona estate a tutti!!!

Mimisia era una zanzara di campagna sottile, brunetta e zufolante, sempre piena di “mestieri”.
“Debbo fare le faccende” pensava come prima cosa la mattina presto al canto del gallo. Fuori era ancora scuro.
Prima cosa partorire, operazione lunga e laboriosa, non indolore, per la quale le era indispensabile una goccia di sangue umano che le desse energia. Se l’era procurata di notte, dall’oste ronfante e ciccione, che le aveva girato due sventole riuscendo a colpire soltanto se stesso. Sudato e rabbioso, era rimasto sveglio a strofinarsi il ponfo mentre Mimisia volava nell’acqua stagnante del sottovaso grande in giardino, dov’era la sala parto esposta all’umido com’è necessario. Le partorienti strillavano e i neonati vagivano mentre i mariti facevano, fra i gelsomini, lo spuntino di mezzanotte, anzi di tutte le ore, si nutrivano di nettare loro, raffinati, e intanto preparavano  le liste delle nuove mogli future con classifiche delle più carine.
In una saletta parto a pagamento c’era anche una zanzara nobile e ricca, si chiamava Iolina, indossava delle estensioni d’ali madreperlacee, che erano costate una fortuna a suo marito Pippetto, una tunica argentea firmata e partorì sotto anestesia senza soffrire con un infuso di papavero letargico purificato al cento per cento. I tempi, per le zanzare facoltose, erano cambiati, tuttavia aveva avuto bisogno anche lei della goccia di sangue umano, ma le sue umili ancelle, pagate quotidianamente, lo avevano succhiato per lei, omogeneizzato, disinfettato e posto in tazzina perché lo sorbisse dignitosamente. Ogni volta Iolina si lamentava che era amaro e puzzava, ma alla fine doveva berlo o i bambini non sarebbero nati vivi. Cosa non fa fare l’amore materno, quanti sacrifici. Anche suo marito era al bar con quello di Mimisia e tutti gli altri dei dintorni a nutrirsi di fiori vari e divertirsi dicendo male di tutte le prossime donne della propria vita. Qualche sfacciatella sfascia famiglie,anche minorenne, andava a trovarli con la minigonna e la cintura tanto stretta in vita che ogni tanto qualcuna si spezzava come nei film horror. Il secondo argomento dei maschi era la partita a chi pungeva di più nel minor tempo possibile, qui le scazzottate erano all’ordine del giorno e della notte, dopo gli argomenti erano esauriti e si contavano i feriti e qualche morto.
La zanzara Mimisia, a parto concluso e figli volati via belli e svezzati, si mise a lustrare la casa preparando il letto per il ritorno di lui: pannocchia di granturco scricchiolante come materasso e coperta di bava di lumaca, offerte speciali dell’ultima televendita. Egli tornò un po’ inebriato di succo zuccherino e la trascinò a letto dicendo con voce sexy: < Vieni qui, piccola>.
<Sì, sì, sì> zufolò lei rassegnata al prossimo parto.
La zanzara Iolina si svegliò dall’anestesia che i figli se l’erano squagliata senza nemmeno salutare, le umili ancelle l’accompagnarono a casa in fretta, dove prepararono il letto per il ritorno di lui: una piuma di passerotto come materasso e la coperta di tela di ragno della più prestigiosa boutique della città. <Vieni qui, piccola> fischiò l’amato bene come se le desse il primo premio della lotteria, e la trascinò sotto le lenzuola.
O ricchi o poveri, o campagnoli oppure raffinati, tutti siamo uguali nel gioco della vita: le femmine partoriscono e i maschi brindano in attesa della prossima volta.
Nel passato, almeno, la donna non andava pure a faticare fuori casa perché uno stipendio solo non basta, adesso si è evoluta, lavora dentro e fuori.

                Domenica Luise

E con ciò, inizio le mie vacanze lasciandovi in compagnia delle zanzare,  però risponderò ai commenti se avrete voglia di me come  mi auguro poiché io ho sempre voglia di voi. Se poi vi verrà desiderio di leggermi, avete tutto pubblicato su questo blog con un’ampia scelta, vi basta andare su categorie alla vostra sinistra nella pagina di apertura e cliccare sull’argomento che vi piace: volete una stupenda poesia mimmiana, un pensiero, un quadro, uno stucco? Vi volete preparare il bianco mangiare, la pasta tricolore o la torta quadro? Vi è venuta la voglia di una favola come si deve, con lieto fine e speranza a piene mani? Oppure vi vanno quattro belle risate, che so io? Scegliete pure. Al vostro posto io Mimma non me la perderei, è una delle poche persone sincere che ancora conosco. Io controllerò sempre questo blog appena ci sarò per cancellare, come raramente ho dovuto fare, qualche commento scemo, quindi non sarò completamente assente, mi fermo perché voglio dipingere, andare in montagna, è estate, si cambia un po’ e non bisogna fare sempre le stesse cose. 

Ci risentiremo a pieno ritmo il primo settembre, intanto voglio proprio vedere se fate i bravi, vi lascio i compiti delle vacanze: cercate in questo blog e trovate qualche post che vi ispira, scriveteci su uno o più commenti approfondendo. La poesia scavata è succosissima.
Un grande abbraccio a tutti.

Anno 3012, i cloni

Un apparecchietto portatile per la clonazione, ormai, l’avevano tutti in
borsa oppure nella ventiquattrore, i benestanti quello mignon lo
portavano incastonato in un anello, sotto una bella pietra di opale
dalle sfumature variegate.
Col tono della voce la pietra riceveva l’ordinazione desiderata, che so io,
un filone di pane casareccio condito  con olio extravergine di oliva, sale
e pepe rosso, un vestito a quadretti bianchi e blu, anche un fidanzato,
bastava soltanto mostrare una fotografia  e dire una parola, per esempio
ragazzo biondo con gli occhi azzurri oppure donna sexy o che so io,
mazzo di rose rosse con fiocco e biglietto già scritto.
L’opale, nel 3012, divenne uno status symbol. Ormai il quadro della Gioconda
in casa l’avevano pure i poveracci, né si può dire che fosse una copia
essendo ognuno un originale.
La scrittrice, pittrice e stilista Mimma molto bella stava sbadigliando,
la vita era diventata così noiosa, ormai l’universo era pieno di terre
dove mandare colonie essendo diventato facilissimo clonare il nostro pianeta.
Così Mimma prese la propria fotografia di quando aveva tre anni con
l’intenzione di duplicare se stessa per avere una compagnia
intellettualmente stimolante e soprattutto una buona domestica.
Il clone venne perfetto e subito incominciò a correre per tutta la casa
buttandosi dalle scale proprio come faceva lei a quell’età sicché
Mimma I dovette medicare Mimma II, che piangeva disperatamente.
<Ahi, ahi, ahi, mamma> gridava il clone.
<Non sono tua mamma> rispose Mimma I ripassando la pomata a guarigione istantanea.
<Ahi, ahi, ahi, zia>.
<Non sono tua zia>.
<E chi sei?>.
<Sono la maestra e tu sei l’alunna>.
<Odio le maestre, quanto sei brutta, brutta e vecchia, brutta e vecchia
come una scimmia> cantarellò il clone.
“Questa è maleducata proprio come me a quell’età” pensò Mimma I.
A pranzo il clone, mentre Mimma I si girava a prendere il formaggio
da mettere sulla pasta col sugo all’amatriciana, con la velocità del fulmine
aprì la boccia della marmellata di ciliegie e se ne versò nel piatto
una buona metà, poi assicurò, rimestando, che l’avrebbe mangiata tutta,
ma la sputò subito al primo boccone.
<Che schifo, non la vuole nemmeno il gatto>, e si mise a rincorrerlo, lo
afferrò per la coda e mentre quello soffiava gli tirò i baffi a uno a uno.
<Cretina> disse il gatto, che aveva studiato le lingue.
“Precisa a me” pensò Mimma I, “la faccio arrivare a tredici anni di età e vediamo se riesco a insegnarle come si pulisce la casa”. Alitò sull’opale, che scintillò sinistramente e Mimma II raggiunse i tredici anni in un colpo solo. Stava semisdraiata in poltrona, circondata da riviste, e leggeva senza risponderle né sentirla affatto.
                                                                             
                    (Fine della prima puntata)

<Mimma II, alzati e prepara la cena> fece Mimma I.
<Mimma II….>.
<Mimmaaaaaa II !…>.
<E non gridare, non sono sorda, mi sento stanca, ho mal di testa> piagnucolò
il clone, <mica ti ho chiesto io di venire al mondo. Cosa vuoi da me?>.
<Che tu faccia i servizi domestici>.
<Mai> fece Mimma II. E riprese a leggere.
“Mi è riuscita troppo bene, è precisa a me> pensò Mimma I, e la fece
avanzare di altri dieci anni, al giorno della laurea. Era il 22 giugno e
Mimma III pesava novanta chili. Indossava un tailleur rosso scuro
con la camicetta bianca di seta a pallini neri. Disquisiva con la
massima disinvoltura mentre i professori la fissavano a bocca aperta,
non si sa se per la cultura o per la stazza. Si era scelta da sola
l’argomento della tesi proponendolo al professore, il quale aveva
pensato che non fosse l’autrice di quanto gli aveva consegnato,
ma dopo un interrogatorio di quarto grado su ogni singolo passo si
era dovuto rassegnare all’ineluttabilità: quella ragazza, modestamente,
trattandosi di me, era intelligente, scriveva bene e aveva capito tutto
a menadito traendone conclusioni originali. Si esprimeva inoltre con
un italiano sciolto ed elegante, che era identico a quello della tesi.
Era un uomo giusto e difatti Mimma si laureò col massimo dei voti e le congratulazioni generali. Amen.
Tornò a casa ringalluzzita e incominciò la dieta dimagrante perché,
appena avuto l’insegnamento, voleva farsi trovare in forma dagli allievi,
così disse a Mimma I. Mangiava rigorosamente in bianco, pesce oppure
pollo bollito, insalata scondita, niente dolci né bibite gasate, non solo,
ma costringeva Mimma I a digiunare con lei, diceva, per sostenerla.
Intanto passava i pomeriggi in palestra, tornava distrutta, col mal di testa
e i dolori nelle articolazioni, si coricava subito e si faceva servire a letto
da Mimma I chiamandola continuamente. Alzò soltanto una volta il dito
indice della mano destra, lo passò sul tavolo polveroso e disse a Mimma I
che era sporco, anzi faceva schifo.
La quale si stufò rapidamente e fece invecchiare il clone a cinquant’anni,
sperando che rinsavisse con l’età. Mimma IV si guardò allo specchio e
declamò una poesia, <Presto, presto, scrivi> ordinò a Mimma I,
<prima che mi dimentichi l’ispirazione. Ma sei una lumaca! Domani voglio
comprato un computer e un pacco di carta vergatina formato A4 di medio
spessore. Io detterò e tu mi farai da segretaria. Cosa prepari per pranzo?
Ho fame. Bada che io la pasta la voglio al dente, col ragù che deve bollire
tre ore a fuoco lento, il pesce non mi piace, mangio solo filetto ai funghi
e salsiccia casareccia, fatta da te tagliando col coltello la pura carne
di maiale senza grasso e infilandola nel budello con l’imbuto apposito
a bocca larga, ma puliscilo bene, il budello, non fare la sporcacciona.
E non dimenticare le patate al forno, che siano croccanti, salate e bene
appiccicate, ma non bruciate>.
Qui Mimma I perse le staffe, pressò l’apparecchietto e fece avanzare
gli anni. Il clone ne ebbe settanta, novanta, centodieci, centocinquanta,
poiché la vita umana si era molto allungata. Quant’era brutta.
Alla fine stridette e si dissolse in polvere, così gli esseri umani,
dopo questa stolta esperienza, rinunciarono alla clonazione e si
dedicarono a cercare qualche altro sollazzo meno fastidioso.

                                                                       Domenica Luise

PS: Se  vi volete divertire ancora, fate clic  QUI
e vi troverete su New arte insieme, dove Renzo Montagnoli
ha pubblicato una mia fiaba giocosa, Coppie celebri.
E se vi viene voglia di vedere la vera foto di Mimma a tre anni,
quella da cui verrà estratto il clone, fate clic
QUI

Mimma e Cristina fantascientifiche


                       

Buon divertimento e vivete felici.

Quando l’aereo sul quale viaggiava Cristina sparì nel triangolo delle Bermuda, Mimma non ebbe più pace. Le mancava e forse non era morta,
così almeno voleva sperare.

Le bastava l’uno per cento delle possibilità per partire alla guida del proprio elicottero personale acquistato coi folli guadagni di scrittrice, solo che il pilota, l’aiuto pilota, il maggiordomo, la segretaria, l’autista e perfino la colf
non vollero accompagnarla per nessuna somma al mondo.

Allora Mimma lo chiese alla sorella Iole, che giustamente le rispose
di avere famiglia.

Nemmeno l’arcangelo Francesco Pasticcio rispose alle sue email né sul
telefonino né niente. Poté soltanto lasciargli un messaggio nella segreteria.

Così Mimma partì da sola e col magone. Era una bella notte stellata quando l’elicottero decollò dalla terrazza del palazzo mimmiano,
che occupava il centro di Rometta Marea.

Aveva portato con sè tutto l’indispensabile: il supercombustibile concentrato
che durava a tempo indeterminato, cibo in pillole di tutti i sapori e odori,
perfino un gran mazzo di fiori a lunga conservazione che sperava di non
dovere deporre su una tomba, ma di poterle dare viso a viso,
quaderni e penne a punta fine ed altre cosucce, non escluse alcune
bottigline di acqua minerale naturale e una tavoletta di cioccolata
fondente che a Cristina piaceva.

Consultò il monitor della strada stellare, diede gli ordini ai computer
di bordo e mise in moto il pilota automatico, un bel ragazzo biondo
che sembrava quasi umano.

<Così ti hanno lasciata da sola> fece lui. Da un po’ di tempo si prendeva
troppe confidenze, ed aggiunse: <Fifoni>.

Gli occhi verdi gli scintillarono con una specie di lampo, Mimma pensò che
poteva trattarsi soltanto di energia atomica a lungo repressa,
<Io invece darei la vita per te> disse con voce roca.

<Ma non lo vedi che tu sei un pupazzo ed io una vecchia?> rispose
Mimma sbadigliando.

<Io non pupazzo, tu bella femmina> si inceppò il robot con voce
piagnucolosa che Mimma non gli aveva sentito mai. Effettivamente,
con una pilloletta di eternagiovinezza tutte le mattine, era tornata
a vent’anni e un giorno, chiome corvine e peso forma compresi.

Portava una coda di cavallo legata con un nastro rosso ed una tutina
rossa anch’essa che facevano girare vorticosamente i chip al robot,
il quale lasciò la guida e cercò di abbracciarla, l’elicottero incominciò
a precipitare, <Che bello morire insieme> sussurrò lui, Mimma tirò
giù la levetta dello spegnimento facendolo afflosciare per terra
e si precipitò ai comandi, che però non obbedirono.

La velocità incominciò a diminuire: sembrava che una mano invisibile
sostenesse l’elicottero.

“Può trattarsi soltanto di una condensazione di elettroni purificati
e dietro c’è un’intelligenza umana, se non superiore” pensò Mimma.
Chiunque fosse, non voleva la sua morte, era lampante.

Apparve davanti e intorno una nuvola densa e la caduta divenne morbida,
sempre più delicata, anche gradevole.

Sembrava di appoggiarsi su un enorme materasso di bambagia.
Prevedendo un incontro ravvicinato con una forma di vita superiore,
Mimma ingoiò una pillola dov’era copiato tutto il tragitto di ritorno
memorizzato nel computer di bordo. Era l’ultimo ritrovato
della scienza e della tecnica ed avrebbe consentito in qualunque momento
un rientro felice sulla terra da qualsiasi altro luogo anche sperduto
dell’universo, sempre che fosse disponibile un mezzo di trasporto:
una tavoletta su cui puntare i piedi, un pallone tipo mongolfiera,
una piccola astronave o disco volante, anche un aquilone di carta velina.
Dopo di che Mimma ingoiò una pillola della sazietà a tempo
indeterminato, che l’avrebbe anche dissetata in qualunque emergenza
ed una pillola di invulnerabilità. Veramente non era tipo di prendere
tante medicine, preferiva seguire una vita naturale mangiando e
bevendo come gli avi, ma in questo frangente non era il caso
di esitare. Diede un ultimo sguardo al robot disteso per terra e girò
la sicura che lo immobilizzava, così l’avrebbero, forse, creduto guasto.
Aprì lo sportello dell’elicottero e si incontrò con una gran faccia
di donna che le veniva vagamente a conoscere.  Aveva i capelli bianchi
legati con due codini stranissimi, le sopracciglia cespugliose e
poteva pesare centoventi chili, forse più.

<Non mi riconosci?> disse la voce di Cristina.
<Ti riconosco dalla voce, ma come hai fatto ad ingrassare tanto
in sette giorni?>.

<Tu non sai che inferno è questo postaccio> disse Cristina sottovoce,
<hai ingoiato la pillola per il ritorno? E quella che toglie lo stimolo
dell’appetito e mantiene il peso ottimale? Altrimenti siamo rovinate>.

Mimma rispose di sì e Cristina la strinse in un abbraccio che quasi
la soffocava: <O mia salvatrice!> esclamò sussurrando.

Mimma era preoccupata: <Ma qui dove siamo?> chiese anche lei a voce bassa.
<Al centro dei tifoni che sempre battono il triangolo delle Bermuda,
nella zona immobile. Nessuno può tornare indietro perché loro svuotano
i serbatoi di tutti i mezzi che arrivano e che conservano come oggetti
ricordo. Presto, hai portato le pillole anche per me?

Cristina le ingoiò in fretta:<Adesso possiamo tornare a casa anche
coi serbatoi vuoti>.

<Cosa fanno ai robot, li smantellano?> chiese Mimma alla quale dispiaceva
perdere un ammiratore.

<No, li conservano nei loro musei insieme al resto>.
<E per adesso “loro” dove sono?>.
<A pranzo>.
<A quest’ora?>.
< Incominciano alle sei del mattino, finiscono a mezzanotte
e ricominciano alle sei dell’altro mattino>.

<Ma sono come noi?>.
<Sì, soltanto hanno la pelle verde, i capelli rossi e gli occhi viola fosforescenti
che lampeggiano>.

<E ci sono altri con la nostra pelle?>.
<No perché tutti diventano del loro colore e della loro stazza,
centocinquanta chili, poco più, poco meno>.

<Che orrore> affermò Mimma, che era longilinea di natura. Beata lei.
<Ti ho portato dei fiori> disse porgendole il fascio di rose, che Cristina annusò con aria beata.
<Ci conviene distribuirli, così forse non ci chiuderanno nelle segrete>
affermò. <Appena ti vedono ti arrestano> aggiunse preoccupata.

<E perché se non gli ho fatto niente e nemmeno li conosco?>.
<Sei troppo magra, è proibito per legge. Pure io sono troppo magra
se non arrivo almeno a centotrenta chili>.

<Ti hanno fatta mangiare per forza?>.
<E come. Mi hanno drogata con l’elisir spremifame, legata al tavolino
e messo i piatti davanti. Cucinano benissimo>.

<Meglio partire subito> sussurrò Mimma, riattivò il robot automatico,
che la guardò storto lampeggiando e dicendo bip, poi si accorse di Cristina: <Clandestina a bordo, clandestina a bordo, il sistema è infettato da una
virus sconosciuta>.

<Non vedi che è Cristina, scemo?>.
<Denominare password sillabando piano> gracchiò il computer. Cristina
disse una delle proprie cinquantacinque password e finalmente il robot
mise in moto. Appena in tempo.

Gli alieni mangioni arrivavano in massa, per fortuna erano obesi
e correvano lentamente.

Dagli alberi le lasagne col ragù ricoperte di formaggio scolavano un
sugo grasso su cespugli di parmigiana e patate al forno. Una pianta rampicante attorcigliava  polpettoni opulenti a mo’ di frutti e costolette d’agnello
cotte alla brace.

<Questi, quando vogliono andare leggeri, si mangiano pane e sugna
e bevono un litro di vino rosso, che schifo> fece a voce bassa Cristina.

<Coraggio, cara, sei salva, ormai è finita>, minimizzò Mimma.
<O mia salvatrice, come ringraziarti? Ma mi deve essere scesa la pressione,
è da troppo tempo che sono digiuna, mi è arrivato il calo glicemico>
fece Cristina con voce fioca, <non avresti qualcosa
da mettere sotto i denti? Oh, solo uno spuntino, magari una fetta di
cassata siciliana e un gelato al gianduia con due o tre cucchiaiate di panna>.

                                                                   
                                                                Domenica Luise

                                                                             (Fine della prima puntata)


L’arcangelo Francesco Pasticcio bussò timidamente allo studio del Padre.
Una voce allegra disse subito: <Avanti, Ciccino>.
Egli aprì la porta imbottita di azzurro e si fermò sulla soglia, dove le
ginocchia gli cedettero subito. Fissò una piccola nube bianchissima sotto
il suo piede destro e strinse i pugni: non sapeva come dirglielo.
<Cosa c’è, Ciccino? Mi sembra ancora presto per aumentarti di grado
e portarti con me al prossimo cielo. Per adesso il giardino dell’eden è sufficiente, ancora non hai ammirato tutte le piante né annusato ogni fiore>.
<Maestà>, rispose Ciccino flebilmente, <a questo non pensavo nemmeno.
Sua maestà conosce benissimo il mio problema>.
Il Padre, col dito, gli fece cenno di avvicinarsi, il piccolo arcangelo volò,
<Chiedo perdono perché non ho risposto a Mimma, che mi aveva telefonato,
e l’ho mandata da sola nel triangolo delle Bermuda a cercare Cristina.
Chiedo perdono perché Cristina è ingrassata orribilmente.
Chiedo perdono per non avere chiesto consiglio a sua maestà.
Merito una degradazione al purgatorio>.
<Il purgatorio che tu conosci, Ciccino, è soltanto una metafora. Il vero
purgatorio è la cecità spirituale>.
<Che significa, maestà?> si impappinò il vecchio gesuita e lo abbracciò
stretto mentre il cuore gli martellava, <Se non fossi già morto da un po’,
mi sembrerebbe di morire d’amore> tentò di dire, ma non potè perché gli
mancò la voce, si abbandonò su quel petto di pace e provò una intensità
senza confronti, <Questo è un piccolo anticipo del prossimo cielo>
disse il Padre.
<Sì, papà> pensò Ciccino ancora muto.
<E perché, Ciccino, non hai risposto a Mimma e hai abbandonato Cristina all’ingrassaggio? Sei l’angelo custode delle poetesse, non dimenticarlo mai>.
<Il fatto è che le due poetesse sono un moto perpetuo e non le reggo, una ne
fanno, una ne pensano e una ne dicono, io sono un uomo di silenzio e riflessione>
si scusò Ciccino, poi ebbe un’esitazione e confessò: <E va bene, non avevo voglia dell’ennesima avventura>.
<Gli alieni nei quali sono incappate sono ancora molto sottosviluppati,
pensano soltanto a mangiare > disse il Padre, < le due ragazze hanno corso
un bel rischio. E non ti sei accorto che il robot faceva delle avances
a Mimma e l’elicottero stava precipitando? >.
<Ah, ah, ah> scappò a Ciccino, <delle avances a Mimma! Chissà cosa
gli girava per i chip>.
<Anche i robot hanno bisogno d’amore> rispose il Padre e divenne serio,
sicché Ciccino incominciò a battersi il petto e chiedere perdono.
<Ciccino, smettila. Vatti a rendere presentabile, indossa una toga da
arcangelo più dignitosa di questa specie di pigiama a strisce bianche e celesti
con il quale giri per tutto il paradiso e, per una volta, mettiti un paio
di scarpe, mocassini celesti flosci di pura pelle, sono nel corredo
degli alti cori e ti toccano in dotazione, si può sapere perché
non hai nemmeno aperto l’armadio nella tua stanza?>.
<Maestà, permettetemi di piangere un po’> rispose costernato Ciccino,
che in camera sua non si era permesso di toccare niente per umiltà.
<E piangi> rispose il Padre. Subito sulla terra incominciò a diluviare
e nel triangolo delle Bermuda vennero le onde anomale.
Ciccino, al vedere l’inizio della catastrofe, si asciugò gli occhi con bioccoli
di nuvole.
<Vado a cambiarmi d’abito> affermò, poi gli venne un pensiero:
“E se adesso LUI è offeso e non si lascia più abbracciare?”.
Così lo strinse a sè per quella che pensava potesse essere l’ultima volta e
quale non fu la sua gioia quando si rese conto che il Padre gli ricambiava
l’abbraccio e lo sollevava come un fuscello baciandolo in fronte.
Nuovamente gli parve di morire d’amore, ma con ulteriori delizie.
 
L’arcangelo Francesco Pasticcio era più che presentabile e faceva anzi
bella figura.
Il Padre lo controllò da ogni lato, gli sistemò il cravattino che era un po’ storto
e gli disse che poteva andare.
< Dove, Maestà? >.
< Lo sai benissimo >.
< E cosa debbo fare? >.
< Lascio decidere a te, Ciccino, io vado a passeggio nell’Eden > rispose il Padre.
E sparì.
L’arcangioletto si guardò a destra, dopo a sinistra, infine davanti a sè:
cielo e  nuvole ovunque.
Nessuno a cui chiedere consiglio tranne un’angiolessa anziana
di quarta categoria, che cantava con aria ispirata.
Portava l’abito degli ultimi, che aveva ancora un po’ del cinereo.
Ciccino le si accostò, ma non osò interromperla. Lei si vide guardata e gli sorrise.
<Sono appena arrivata dal Purgatorio> gli disse, <quale felicità sto provando. Mi chiamo Dominica de Luisis de mimmiana familia>.
<Oh, che bel nome> rispose il vecchio gesuita, <io sono Franceschino de Ciccinis de cicciniana familia>.
<Piacere>.
<Piacere. Mi puoi dare una mano? > e le raccontò il fatto,
<Tu cosa faresti?> concluse.
<Intanto cercherei le due poetesse>.
<E poi?>.
<E poi chiederei perdono>.
<Questo non è difficile, ma poi ?>.
<Le accompagnerei a casa con letizia>.
<Nient’altro?>
<Beh, farei dimagrire Cristina al peso giusto>.
<Elementare! Grazie. Come non ci ho pensato da me?>.
Ciccino spiccò il volo e, in un lampo, apparve nell’elicottero, si prostrò dinanzi alle poetesse sbalordite, chiese ed ottenne il perdono e le riaccompagnò fino a casa, prima di sparire rimise a posto il peso di Cristina, ma nel toglierle le sopracciglia cespugliose si distrasse un momento e le aggiunse il dono della bellezza irresistibile. Il robot, che accompagnava le due poetesse con i bagagli, lasciò cadere per terra le valigie, l’inseguì e le si dichiarò sfacciatamente : <Io non pupazzo, tu bella femmina, mi vuoi sposare?>.
 

                                                          Domenica Luise
   
                                                 (Fine della seconda puntata)
 

Il robot innamorato incominciò a squagliarsi dalle falangi delle mani fino
agli alluci dei piedi e in trenta secondi di lui restò un mucchietto di neuroni
e sinapsi sintetici con un cuore di quarzo rosa che si agitava e batteva.
Il minuto dopo tutto fu silenzio.
Mimma guardò Cristina: <Cosa gli hai fatto? L’hai ucciso!>.
<Semplice sindrome di Stendhal> rispose Cristina come se non gliene importasse niente. Si ravviò i capelli e aggiunse: <Forse hai uno specchio?>.
Mimma cercò nella sua borsa e glielo passò.
<Questo è piccolo, non ne hai uno più grande? Come ho fatto a dimenticarmi
lo specchio?> continuò Cristina, <Oh, come sono bella! Ma tu mi hai vista?
Ho gli occhi verdi cangianti che brillano, le labbra rosse, la pelle rosa
e questa rughina vezzosa al centro della fronte>.
<Oh, come sei bella, che ci importa di lui> rispose Mimma indicando ciò che
del robot giaceva per terra. <Io sono la tua migliore amica, non è vero?>
chiese con ansia.
<Certo, Mimma, ma non la prima né l’ultima. Una dei miei innumerevoli
ammiratori, ecco> rispose Cristina camminando senza smettere di specchiarsi.
Tutte le macchine si fermavano, gli elicotteri atterravano, gli aerei
cambiavano rotta, incominciarono parecchi tamponamenti a catena e alcuni
surfisti scivolarono davanti a lei, ginocchioni le proponevano il matrimonio
o almeno una convivenza a tempo indeterminato.
Una schiera di editori apparsi dal nulla incominciò a contendersi il privilegio
di pubblicare un libro delle sue poesie, visto che erano troppi Cristina stabilì
che ognuno ne avrebbe stampato una pagina. La decisione salomonica accontentò tutti, ma tornarono a casa disfatti perché ognuno di loro l’avrebbe voluta
almeno baciare con passione.
Una volta arrivati barcollanti in camera da letto, si coricarono con la febbre
a quarantadue e gli spasmi. Le mogli furibonde dovettero assisterli, ma quando
la sera videro in televisione l’intervista a Cristina se ne innamorarono anch’esse.
Una tigre scappata dal circo, che casualmente si trovò nei pressi della sua casa, intravide la sua silhouette dalla finestra della cucina e subito cadde a terra,
era incinta e partorì, prima del tempo, una tigrotta che volle chiamare Cristina
a perenne ricordo di quell’emozione.
Il telefono squillava, il campanello della porta suonava continuamente, il fioraio
e il pasticciere erano ben felici di andare e venire portando scatole di
cioccolattini e fasci di rose scarlatte.
<Sono sempre io, madame>.
<Altri cioccolattini, signora>.
<Scusi se disturbo ancora>.
<Mi può fare l’autografo?>.
In tarda serata Mimma e Cristina piombarono addormentate lì dov’erano,
sul divano del salotto buono.
Furono svegliate dal canto del gallo, che volò dentro casa dopo avere rotto
a forza di beccate i vetri della finestra e si precipitò fra le braccia
di Cristina tentando di baciarla sulla bocca, ma lei minacciò di
torcergli il collo. Fuori dalla porta si stipavano parecchi  chilometri di folla,
c’erano anche alcuni prelati, con imbarazzo di Mimma e divertimento di Cristina.
La quale non mollava lo specchio. Ora Mimma non era una donna portata
all’invidia per natura, beata lei, ma vedere l’amica così corteggiata,
con un libro di poesie pubblicato una pagina per editore  e a lei niente,
le incominciava a dare un pochino di fastidio, una puntura piccolissima,
quasi inavvertibile.
<Mi sembri il puffo vanitoso> le disse, <ti sei innamorata di te stessa? >.
<Tu sei soltanto invidiosa> fece Cristina soprappensiero.
<Invidiosa di che? Anch’io sono bella> disse Mimma, ma poiché era
una persona sincera aggiunse dubbiosa: <Mah!> col punto esclamativo.
 
Il gesuita Francesco Pasticcio, quella mattina, si presentò dal Padre con l’animo tranquillo: chissà quanto si sarebbe compiaciuto per il suo comportamento e gli avrebbe dato un altro di quei baci che gli spezzavano l’anima.
Aveva perfino indossato una stola con sciarpetta trasparente in vita e si era ricordato di mettere un comodo paio di mocassini celesti. L’aureola gli
sprizzava soddisfazione da tutte le luci.
Il Padre lo abbracciò, gli disse che apprezzava le sue buone intenzioni,
ma che da ora in poi fosse più attento a non lasciarsi scappare sui mortali
doni che essi non potevano sopportare.
E poiché Ciccino sbalordiva, gli mostrò le due poetesse che quasi litigavano
per la prima volta in vita loro col gallo che, spaventato, svolazzava di qua
e di là fra tutti quei fiori e scatole di cioccolattini e fiocchi colorati.
<Cos’ho fatto, maestà! Mi è scappata una scintilla di bellezza irresistibile
e ha colpito Cristina> disse costernato.
In un lampo si presentò alle due poetesse, <Cosa state facendo, litigate a chi
è più bella, vergognatevi, alla vostra età>.
Allungò il dito indice della mano destra e sfiorò la testa di Cristina disintossicandola con il dono della normalità quotidiana.
Subito i prelati se ne andarono in processione, gli aerei ripresero ognuno
la propria rotta, gli elicotteri smisero gli atterraggi di fortuna in quei pressi
e si interruppero di colpo i tamponamenti. Il fioraio e il pasticciere,
stremati, poterono finalmente recuperare il sonno perduto, soltanto
gli editori mantennero l’affare del libro di Cristina pubblicato una pagina
per uno, quei furbacchioni. In quanto ai surfisti, saltarono su di un’altra
onda e nessuno li vide più da quelle parti, anche la tigre tornò al circo
con la figlioletta e il gallo volò nel pollaio a corteggiare le galline.
Per Mimma non cambiò niente, ma riebbe la sua amica e lo specchietto.
 

                                                               Domenica Luise
FINE