Grazie di tutto

 

Il marito di Clara ciondolava davanti al televisore, dopo si sdraiò lungo
sul divano di nappa grigio azzurro e chiuse gli occhi.
La suocera faceva la cucina, sua moglie nella camera dei bambini perché
litigavano come ogni volta che finivano di cenare.
Si sentivano i tonfi dei cuscini lanciati con entusiasmo e la voce acuta
di  Clara in mezzo ai gridi dei figli:
< Io sono stanca, non ne posso più, volete mettervi a letto? >.
Sua madre aveva le caviglie ed i polpacci  gonfi, con le vene bluastre,
uno strano dolore nel calcagno destro.
Notò la larga chiazza di unto sotto la testa di lui e come con le scarpe
stropicciasse la pelle, pensò a quanto le era costato quel salotto,
regalo a sorpresa per tentare di attirarlo a sé in qualche modo
e la sopportasse, ma il modo non c’era.
Da quando era rimasta vedova piangeva sempre, tanto ormai viveva sola
e nessuno la vedeva tranne la sua gattina.
Preparò la macchinetta del caffé per quando si sarebbe svegliato.
Poco dopo l’avrebbe dovuta accompagnare in stazione
a prendere il treno per tornare a casa.
Erano quasi due mesi che non vedeva sua figlia e i bambini ed era
arrivata quel pomeriggio con il chilo di pasticceria mignon,
i maglioncini fatti a mano per i nipoti, non ci vedeva più bene da vicino
e aveva lavorato a fatica scucendo ogni poco. Malgrado i regali
era stata accolta con freddezza, anche la figlia aveva lo sguardo remoto.
A tavola la suocera chiacchierava animatamente nel tentativo di dissipare la tensione, all’improvviso lui diceva alla moglie: <  Hai pagato la bolletta
della luce? > ed ai bambini: < Smettetela di tirare molliche >
oppure qualche altra cosa comunque fuori tema.
Non le rivolse mai la parola per primo.
Sembrava che pure sua figlia non avesse piacere di vederla dopo
tanto tempo.
< Tu non te ne devi andare? Ti accompagno > disse lui rialzandosi
all’improvviso .
Rientrò Clara: < Finalmente dormono > affermò sedendosi.
La suocera accese il gas sotto la macchinetta del caffé e le venne da dire:
< E’ ancora presto >, ma si trattenne.
Gli portò il caffé, che a quell’ora di sera prendeva lui solo tanto,
diceva sempre, gli conciliava il sonno, egli non pensò di
ringraziare, ripeté:
< Allora ti accompagno >.
Clara non disse niente, l’abbracciò rapidamente, la baciò, non sorrise
né le fece un cenno, si mise solo il dito sulla bocca perché i bambini
dormivano e la madre parlasse piano.
Neanche la suocera sorrise né parlò oltre, solo si chiedeva perché non l’accompagnasse mai alla stazione sua figlia, che pure guidava.
Avrebbero potuto parlare. Lei le avrebbe comprato una rivista,
anche due all’edicola. Una volta Clara leggeva continuamente quotidiani,
giornali e saggi di poesia, ma a casa sua aveva visto che
non c’era niente, nemmeno libri nuovi .
In macchina con lui la suocera tacque ancora a disagio.
Egli sembrava nervoso e insultava gli altri automobilisti imprecando
a mezza voce e correndo, lei pressava un invisibile freno
sotto la propria scarpa.
Poi Andrea gridò che proprio glielo doveva dire, non poteva più
starsi zitto, quando si doveva svegliare a quell’ora era ” come se
gli sparassero nel centro della fronte “.
Continuò la scenata fino alla stazione.
Qui le chiese se volesse essere accompagnata al treno, la suocera rispose
che non occorreva. Egli sembrò diventare appena più cortese,
le diede un bacio e rapidamente se ne andò.
“ Il bacio di Giuda “ pensò la suocera.
Appoggiata al corrimano, scese le scale del sottopassaggio fermandosi
ogni tanto per via del calcagno che ancora faceva male e raggiunse il binario.
Pensava a com’era diverso lo stesso uomo da perfetto fidanzato, quando
suo marito era vivo.
Ingoiò il groppo e salì sul treno, si sedette, aprì la borsetta per
prendere un fazzoletto e toccò un pacchetto avvolto in carta di
giornale arrotolata accuratamente, dentro c’erano due uova e un
bigliettino della figlia: “ Mamma, ti voglio bene, grazie di tutto,
queste sono fresche di stamattina, me ne ha regalato sei la vicina.
Ti abbraccio, la tua Clara “.
Con quel biglietto d’amore in mano, pianse sulle due uova. Passò il controllore
e la guardò sbalordito.
 
Aprì il cancello e la gatta Macchia Nera, dall’alto della pergola contorta
e priva di foglie, incominciò a miagolare con modulazioni festose,
sembrava dicesse:
 < Padrona, finalmente sei arrivata >.
Saltò giù e le intralciava il passo strusciandosi, lei si chinò
ad accarezzarla, <Andiamo dentro > le disse senza accorgersi
che parlava come ad un essere umano.
La micia entrò dirigendosi dritta alla ciotola dei croccantini.
Prese il telefono e fece il numero di Clara.
< Pronto, sono arrivata adesso, stai tranquilla >.
 < Sì, mamma, come si è comportato lui? Stamattina si è svegliato
“con l’uovo storto” >.
La madre rise in modo argentino: < Come doveva comportarsi?
Bene, affettuoso, mi ha baciata. Voleva venire fino al treno,
ma non avevo bagagli, non occorreva, a proposito,
grazie delle uova > cambiò discorso.
< Grazie di tutto a te > rispose Clara sollevata.
La madre guardò sul comodino la foto del marito e di lei quand’erano
fidanzati e sorrise perché la gattina le saltò in grembo facendo le fusa.
 
Andrea era furibondo con se stesso. Si era messo dalla parte del torto,
non avrebbe dovuto mai trattare a quel modo la suocera che adesso,
appena arrivata a casa, a quest’ora aveva già preso il telefono e spifferato
ogni cosa a sua moglie.  Avrebbero avuto una pessima serata.
Aprì la porta con le mani sudate e si sentì abbracciare da lei,
che quasi gli toglieva il fiato. Non credeva ai propri occhi.
Ricambiò con entusiasmo le effusioni, alla fine osò chiedere:
< Ha telefonato tua mamma?>.
< Sì, caro, è arrivata poco fa > rispose Clara, grata che egli l’avesse
accompagnata in stazione, quasi fino al treno, fosse stato affettuoso
ed ora perfino chiedesse.
Andrea si sentì un verme, ma passarono una serata bellissima,
contrariamente alle sue previsioni.

                                                               Domenica Luise

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La solitudine umana

Ci sentiamo soli e lo siamo davvero.  
È notte, dalle persiane socchiuse entra la luce gialla del lampione.
Non è colpa nostra se non riusciamo a capire nemmeno noi stessi, figuriamoci gli altri. Eppure siamo sempre sotto tensione nella sete d'amore e di condivisione.
Abbiamo bisogno d'affetto e lo chiediamo con tutti noi stessi.  
Siamo un accumulo di contraddizioni vicendevoli che stridono per la diversità delle idee, del sentire, del desiderare. Non è soltanto il colore della pelle, la religione, gli usi e i costumi. In realtà siamo poco adattabili gli uni agli altri, tanto che quando ci si innamora sembra di vivere un miracolo: noi sì, il resto del mondo, invece…poverini! Non sanno questa meraviglia.  
Poi l'amore cambia, da passione e aquilone volante diventa nido di sacrificio materno e paterno, bisogno di sopravvivenza e anche lotta. Il quotidiano subentra al viaggio di nozze come il grigiore all'arcobaleno.
Coloro che più amavamo si allontanano, noi pure. Ciò che sembrava eterno si spegne.
Talora tradiamo e siamo traditi. Ed è duro.
I poeti parlano di Ermetismo, in realtà scrivono per trovare un'altra solitudine da stringere per mano. O altrimenti perché desidereremmo tanto non essere ignorati?
E come possiamo fare per incontrarci realmente? Ditemelo voi.
Anzi, diciamolo gli uni all'orecchio degli altri.

Domenica Luise

I misteri dell’Ermetismo: lo stile


Ci sono, in poesia, degli elementi in comune, che oltrepassano le mode storiche.
Il primo è la conoscenza perfetta della lingua nella quale l’autore scrive.
Se io possiedo, e non solo per sentito dire, la grammatica e la sintassi italiane,
posso esprimermi efficacemente.
Il secondo elemento necessario è la voglia del dire comunicando:
si scrive per se stessi e per gli altri simultaneamente.
Punto terzo: l’originalità. Leggere è soltanto l’inizio e non si piglia spunto
dalla poesia altrui scopiazzando qua e là e rielaborando furbescamente,
sempre che il rifacimento riesca. Non funziona così, è dentro se stessi
che si scava, non nelle cose degli altri.
Lo studio continuo è indispensabile, ma uno che studia non è automaticamente
un autore né prosastico né poetico.
Lì deve scoccare la passione malgrado tutto, perché la poesia sovrasta la
cultura come il volo dell’aquila quello della gallina.
Difatti è la passione che attraversa la storia formando il presente poetico.
Dante e Saffo sono attuali oggi come ai propri tempi.
Ciò che colpisce nei grandi è l’incisività.
Dante: La bocca sollevò dal fiero pasto (Inferno, canto XXXIII)
            La divina foresta spessa e viva (Purgatorio, canto XXVIII)
                    L’amor che move il sole e l’altre stelle (Paradiso, canto XXXIII).

Saffo: Mi pare simile a un dio
colui che ti siede di fronte
e ti guarda mentre parli dolcemente.
                                       (Ode della gelosia, purtroppo frammentaria)

Gli altri due elementi comuni sono la semplicità espressiva e la vitalità.
Il resto è impalcatura e moda che passano, se non zavorra da gettare.

                                                                   Domenica Luise

Vi comunico che QUI è stata pubblicata una mia poesia sul suicidio
che ho scritto da giovane, se volete potete leggerla e partecipare
alla conversazione.

 

 

 

La moglie grassa

 
Una donna subito si accorge se c’è un’altra, magari un turbamento soltanto,
può avvenire. Poi la cosa persiste. Lui dice che parte per un viaggio di lavoro,
io telefono finta candida in ufficio, chiedo di mio marito, rispondono che è
appena andato a prendersi il caffé. Allora chiedo della segretaria così
educata, fine, giovane e mi informano che torneranno fra poco insieme,
una storia che più banale non si può. Da modifica copia e modifica incolla.
Sto imparando da poco l’uso del computer scervellandomi sui giornali tutti difficilissimi e mendicando aiuto a dritta e a manca a scuola dai colleghi
esperti, voglio capire e scrutare questa modernità per la quale gli altri
sembrano matti. Intendo leggere le email che gli arrivano senza che
se ne accorga. Ecco.
Sono perfino una buona cuoca. Amorosa. E mi piace anche mangiare insieme
a lui,che rimane sempre uno stecco. Un insetto stecco ben mimetizzato. Rido
con la bocca amara, i dolci mi fanno sempre questo strano effetto.
E ingrasso, <Sei opulenta> dice lui accarezzandomi distrattamente i fianchi.
Una donna percepisce subito la distrazione di una carezza.
Finisco una fetta di torta sacher fatta con la crema di cioccolata e
la marmellata delle albicocche che produce il nostro alberello giù in
giardino, quando le ho raccolte ancora non sapevo, credevo di essere amata,
così felice, mai glielo avrei osato confessare a pieno.  Era estate. Ho
sempre sofferto di questo strano pudore retrò.
I pensieri sono disordinati. Apro una bottiglia nuova di cherry e ne bevo
mezzo bicchiere. Rido e la bocca è sempre più amara. Lascio la bottiglia
sul tavolo della cucina, lui torna dall’ufficio in questo momento, vede
il piatto con dentro le briciole della torta, il bicchiere, grida: <Ma guardati,
sei diventata una vacca e mangi e bevi continuamente>.
Già.
<Ne vuoi, amore?> rispondo con tono di scherno.
Ed aggiungo: <Bevo per dimenticare>.
Qui avviene la chiarificazione, anzi l’esplosione. Mi accorgo di avere fatto
il suo gioco quando egli afferra una valigia e incomincia a buttarci dentro
i propri indumenti, va alla cassaforte dietro il quadro e si rifornisce
di soldi e libretto degli assegni. In quattro e quattr’otto è fatta,
infila la porta gridando: <Tanto tu hai il tuo stipendio e non hai
bisogno di aiuto>.
<Non aspettavi altro> mormoro, ma egli è già fuori e non mi sente.
Strano silenzio. Strano letto enorme. Televisione a tutto volume e pianti
e gridi tempestando di pugni i due cuscini di piume così grandi, ricordi
quante chiacchierate comodi nel nostro nido così lo chiamavamo, un covo
di serpi, sei già con lei, non è vero? E che baci, allora non ti distraevi.
Anche il cibo era amore, ma tu sempre attento a non ingrassare,
io invece.
Corro in bagno a vomitare.
Ricordi, ex amore, la nostra complicità? Eravamo una forza contro
il mondo. E quando quel preside fece il cretino con me e tu venisti a
scuola ad accompagnarmi, un metro e novanta di marito tutto
muscoli guizzanti, bello, sì: non può negarlo nessuno.
Ti bastò salutare serio e il preside la smise per sempre.
Domani debbo spiegare Machiavelli nella quarta classe. La ragion di stato.
Già.
Per la mia mente semplice una improbabilità assoluta.
Per fortuna non sono incinta. O forse peggio: almeno avrei avuto una speranza.
Passano i minuti, le ore, i giorni, poi le settimane e i mesi senza di te.
Non mi va né di cucinare né di mangiare né di andare dal parrucchiere.
Allungo i capelli, tanto non devo piacere a nessuno. Ogni pomeriggio,
se non diluvia, esco e vado nelle campagne qui intorno, cammino a lungo,
stranita senza guardare realmente il paesaggio, una volta fotografavo
la natura e tu eri il mio primo piano preferito. Spesso mi accorgo che
mi hanno salutata e non ho risposto.
<Professoressa, si sente male?>.
<Chi, io? No>.
<Vuole essere accompagnata a casa?>.
<No, grazie>.
Mi ci sento soffocare, nella casa che fu nostra. Passato remoto.
Avessi almeno la mamma e il papà, sono ancora una ragazza.
Morti nell’incidente automobilistico come da copione per le Cenerentole.
Nessuno può difendermi. Conosco i casermoni per mangiare e gli altri
casermoni per dormire, le orfanelle tutte uguali a me e le suore
tutte uguali fra di loro, alzarsi presto per la messa intruppate
e il rosario ogni giorno. La domenica si mangiava meglio.
Sembrava tutto così arido. E quella smania di studio e di riscatto.
Credevo di avere vinto. Ho lavato le scale e i bagni per prendermi la laurea.
Il mio primo giorno da insegnante fu indicibile.
Il pescivendolo mi chiede perché sono dimagrita tanto e mi pulisce i pesci
più saporiti consigliandomi con uno strano sguardo che sembra affettuoso.
Provo un tocco di conforto. Li mangio lessati senza nemmeno metterci
il sale, non ho voglia, non ho fame, nemmeno io so cosa racconto
agli allievi. Una volta gli sento dire: <Poverina>.
Tutti lo sanno. Parlo e cammino come in una nebbia quasi indolore.
Passa un anno senza di lui, poi una telefonata.
Chiede perdono. Vuole vedermi. Apro l’armadio per l’incontro e mi accorgo
che tutto mi va largo.
Corro a comprarmi un abito nero aderente, taglia quarantadue. Mah.
Ci metto sopra una giacca sgargiante, che non è nel mio stile.
Lego i capelli in uno chignon arrangiato perché sciolti sulle spalle
non mi piacciono. Non mi trucco, non ne ho voglia.
Prima mi facevo bella sempre per lui. E mi profumavo.
Sulla bocca soltanto un burro cacao per tenermi pronta ai suoi baci.
Al bar dove gli ho dato appuntamento lo vedo di spalle, è curvo.
Mi spaventa la fitta che sento fino allo stomaco.
Lo raggiungo da dietro e gli tocco una spalla. Egli si gira e resta
a bocca aperta alcuni attimi.
<Sei bellissima> dice.
Ci guardiamo e piango. Anche lui.
Poi ci abbracciamo.
 
                                               Domenica Luise

L’immensità delle piccole cose (pensiero mimmiano n° 14)

 

 Pasta in teglia


Nulla c’è nell’universo di troppo piccino tranne il mio piatto di pasta.

                                                                            Domenica Luise

                                                                                                   (Fotografia di Iole Luise)
 

Ricetta del "piatto di pasta":
Cucinate la pasta in acqua e sale tirandola fuori semicruda, tipo da sgranocchiare rabbiosamente.
Mescolare la salsa o il sugo con tutti i rimasugli di prosciutto rimasti in frigorifero,
salame, formaggio,la fettina alla pizzaiola del giorno prima, più ce n'è meglio è.
Pepare o aggiungere una grattata non eccessiva di noce moscata.
Ci stanno bene anche resti di verdura cruda a dadini.  Mettere in una teglia al forno
e lasciare fino a quando la pasta sia al dente. Una delizia pasticciata.
Appena fuori noi aggiungiamo una bella grattata di parmigiano a crudo.

Il mantello

Mantello di piume

 Ho un mantello
di piume del paradiso, che volano da sè
quando, come e perché vogliono, io
semplicemente le porto. Ognuna
ha colori e segreti, insieme
tintinnano.
 
Dentro c’è scritta una storia dallo sperma alla bara.
 
Aria nell’aria.
 
Anche un prato di fiorellini gialli
o un letto di chiodi, una terra bagnata
che s’è aperta per farmi. Così sono
poco più di un verme e nulla c’è
da recriminare.
 
Tutto è bello.
 
Siamo agglomerati di vita e di morte, non sappiamo
né come né perché né dove sia
la radice ultima dell’equazione, così
non soltanto curiosi cerchiamo amore
ed eternità, lasciamo
figli o gatti o quadri e poesie
come in un giardino
di fiori e di pietre. Parole
a volo senza paracadute.
 

                                                 Domenica Luise
                                       (Elaborazione grafica di Domenica Luise)

 
                                                       
 
 

Mimma e Cristina fantascientifiche


                       

Buon divertimento e vivete felici.

Quando l’aereo sul quale viaggiava Cristina sparì nel triangolo delle Bermuda, Mimma non ebbe più pace. Le mancava e forse non era morta,
così almeno voleva sperare.

Le bastava l’uno per cento delle possibilità per partire alla guida del proprio elicottero personale acquistato coi folli guadagni di scrittrice, solo che il pilota, l’aiuto pilota, il maggiordomo, la segretaria, l’autista e perfino la colf
non vollero accompagnarla per nessuna somma al mondo.

Allora Mimma lo chiese alla sorella Iole, che giustamente le rispose
di avere famiglia.

Nemmeno l’arcangelo Francesco Pasticcio rispose alle sue email né sul
telefonino né niente. Poté soltanto lasciargli un messaggio nella segreteria.

Così Mimma partì da sola e col magone. Era una bella notte stellata quando l’elicottero decollò dalla terrazza del palazzo mimmiano,
che occupava il centro di Rometta Marea.

Aveva portato con sè tutto l’indispensabile: il supercombustibile concentrato
che durava a tempo indeterminato, cibo in pillole di tutti i sapori e odori,
perfino un gran mazzo di fiori a lunga conservazione che sperava di non
dovere deporre su una tomba, ma di poterle dare viso a viso,
quaderni e penne a punta fine ed altre cosucce, non escluse alcune
bottigline di acqua minerale naturale e una tavoletta di cioccolata
fondente che a Cristina piaceva.

Consultò il monitor della strada stellare, diede gli ordini ai computer
di bordo e mise in moto il pilota automatico, un bel ragazzo biondo
che sembrava quasi umano.

<Così ti hanno lasciata da sola> fece lui. Da un po’ di tempo si prendeva
troppe confidenze, ed aggiunse: <Fifoni>.

Gli occhi verdi gli scintillarono con una specie di lampo, Mimma pensò che
poteva trattarsi soltanto di energia atomica a lungo repressa,
<Io invece darei la vita per te> disse con voce roca.

<Ma non lo vedi che tu sei un pupazzo ed io una vecchia?> rispose
Mimma sbadigliando.

<Io non pupazzo, tu bella femmina> si inceppò il robot con voce
piagnucolosa che Mimma non gli aveva sentito mai. Effettivamente,
con una pilloletta di eternagiovinezza tutte le mattine, era tornata
a vent’anni e un giorno, chiome corvine e peso forma compresi.

Portava una coda di cavallo legata con un nastro rosso ed una tutina
rossa anch’essa che facevano girare vorticosamente i chip al robot,
il quale lasciò la guida e cercò di abbracciarla, l’elicottero incominciò
a precipitare, <Che bello morire insieme> sussurrò lui, Mimma tirò
giù la levetta dello spegnimento facendolo afflosciare per terra
e si precipitò ai comandi, che però non obbedirono.

La velocità incominciò a diminuire: sembrava che una mano invisibile
sostenesse l’elicottero.

“Può trattarsi soltanto di una condensazione di elettroni purificati
e dietro c’è un’intelligenza umana, se non superiore” pensò Mimma.
Chiunque fosse, non voleva la sua morte, era lampante.

Apparve davanti e intorno una nuvola densa e la caduta divenne morbida,
sempre più delicata, anche gradevole.

Sembrava di appoggiarsi su un enorme materasso di bambagia.
Prevedendo un incontro ravvicinato con una forma di vita superiore,
Mimma ingoiò una pillola dov’era copiato tutto il tragitto di ritorno
memorizzato nel computer di bordo. Era l’ultimo ritrovato
della scienza e della tecnica ed avrebbe consentito in qualunque momento
un rientro felice sulla terra da qualsiasi altro luogo anche sperduto
dell’universo, sempre che fosse disponibile un mezzo di trasporto:
una tavoletta su cui puntare i piedi, un pallone tipo mongolfiera,
una piccola astronave o disco volante, anche un aquilone di carta velina.
Dopo di che Mimma ingoiò una pillola della sazietà a tempo
indeterminato, che l’avrebbe anche dissetata in qualunque emergenza
ed una pillola di invulnerabilità. Veramente non era tipo di prendere
tante medicine, preferiva seguire una vita naturale mangiando e
bevendo come gli avi, ma in questo frangente non era il caso
di esitare. Diede un ultimo sguardo al robot disteso per terra e girò
la sicura che lo immobilizzava, così l’avrebbero, forse, creduto guasto.
Aprì lo sportello dell’elicottero e si incontrò con una gran faccia
di donna che le veniva vagamente a conoscere.  Aveva i capelli bianchi
legati con due codini stranissimi, le sopracciglia cespugliose e
poteva pesare centoventi chili, forse più.

<Non mi riconosci?> disse la voce di Cristina.
<Ti riconosco dalla voce, ma come hai fatto ad ingrassare tanto
in sette giorni?>.

<Tu non sai che inferno è questo postaccio> disse Cristina sottovoce,
<hai ingoiato la pillola per il ritorno? E quella che toglie lo stimolo
dell’appetito e mantiene il peso ottimale? Altrimenti siamo rovinate>.

Mimma rispose di sì e Cristina la strinse in un abbraccio che quasi
la soffocava: <O mia salvatrice!> esclamò sussurrando.

Mimma era preoccupata: <Ma qui dove siamo?> chiese anche lei a voce bassa.
<Al centro dei tifoni che sempre battono il triangolo delle Bermuda,
nella zona immobile. Nessuno può tornare indietro perché loro svuotano
i serbatoi di tutti i mezzi che arrivano e che conservano come oggetti
ricordo. Presto, hai portato le pillole anche per me?

Cristina le ingoiò in fretta:<Adesso possiamo tornare a casa anche
coi serbatoi vuoti>.

<Cosa fanno ai robot, li smantellano?> chiese Mimma alla quale dispiaceva
perdere un ammiratore.

<No, li conservano nei loro musei insieme al resto>.
<E per adesso “loro” dove sono?>.
<A pranzo>.
<A quest’ora?>.
< Incominciano alle sei del mattino, finiscono a mezzanotte
e ricominciano alle sei dell’altro mattino>.

<Ma sono come noi?>.
<Sì, soltanto hanno la pelle verde, i capelli rossi e gli occhi viola fosforescenti
che lampeggiano>.

<E ci sono altri con la nostra pelle?>.
<No perché tutti diventano del loro colore e della loro stazza,
centocinquanta chili, poco più, poco meno>.

<Che orrore> affermò Mimma, che era longilinea di natura. Beata lei.
<Ti ho portato dei fiori> disse porgendole il fascio di rose, che Cristina annusò con aria beata.
<Ci conviene distribuirli, così forse non ci chiuderanno nelle segrete>
affermò. <Appena ti vedono ti arrestano> aggiunse preoccupata.

<E perché se non gli ho fatto niente e nemmeno li conosco?>.
<Sei troppo magra, è proibito per legge. Pure io sono troppo magra
se non arrivo almeno a centotrenta chili>.

<Ti hanno fatta mangiare per forza?>.
<E come. Mi hanno drogata con l’elisir spremifame, legata al tavolino
e messo i piatti davanti. Cucinano benissimo>.

<Meglio partire subito> sussurrò Mimma, riattivò il robot automatico,
che la guardò storto lampeggiando e dicendo bip, poi si accorse di Cristina: <Clandestina a bordo, clandestina a bordo, il sistema è infettato da una
virus sconosciuta>.

<Non vedi che è Cristina, scemo?>.
<Denominare password sillabando piano> gracchiò il computer. Cristina
disse una delle proprie cinquantacinque password e finalmente il robot
mise in moto. Appena in tempo.

Gli alieni mangioni arrivavano in massa, per fortuna erano obesi
e correvano lentamente.

Dagli alberi le lasagne col ragù ricoperte di formaggio scolavano un
sugo grasso su cespugli di parmigiana e patate al forno. Una pianta rampicante attorcigliava  polpettoni opulenti a mo’ di frutti e costolette d’agnello
cotte alla brace.

<Questi, quando vogliono andare leggeri, si mangiano pane e sugna
e bevono un litro di vino rosso, che schifo> fece a voce bassa Cristina.

<Coraggio, cara, sei salva, ormai è finita>, minimizzò Mimma.
<O mia salvatrice, come ringraziarti? Ma mi deve essere scesa la pressione,
è da troppo tempo che sono digiuna, mi è arrivato il calo glicemico>
fece Cristina con voce fioca, <non avresti qualcosa
da mettere sotto i denti? Oh, solo uno spuntino, magari una fetta di
cassata siciliana e un gelato al gianduia con due o tre cucchiaiate di panna>.

                                                                   
                                                                Domenica Luise

                                                                             (Fine della prima puntata)


L’arcangelo Francesco Pasticcio bussò timidamente allo studio del Padre.
Una voce allegra disse subito: <Avanti, Ciccino>.
Egli aprì la porta imbottita di azzurro e si fermò sulla soglia, dove le
ginocchia gli cedettero subito. Fissò una piccola nube bianchissima sotto
il suo piede destro e strinse i pugni: non sapeva come dirglielo.
<Cosa c’è, Ciccino? Mi sembra ancora presto per aumentarti di grado
e portarti con me al prossimo cielo. Per adesso il giardino dell’eden è sufficiente, ancora non hai ammirato tutte le piante né annusato ogni fiore>.
<Maestà>, rispose Ciccino flebilmente, <a questo non pensavo nemmeno.
Sua maestà conosce benissimo il mio problema>.
Il Padre, col dito, gli fece cenno di avvicinarsi, il piccolo arcangelo volò,
<Chiedo perdono perché non ho risposto a Mimma, che mi aveva telefonato,
e l’ho mandata da sola nel triangolo delle Bermuda a cercare Cristina.
Chiedo perdono perché Cristina è ingrassata orribilmente.
Chiedo perdono per non avere chiesto consiglio a sua maestà.
Merito una degradazione al purgatorio>.
<Il purgatorio che tu conosci, Ciccino, è soltanto una metafora. Il vero
purgatorio è la cecità spirituale>.
<Che significa, maestà?> si impappinò il vecchio gesuita e lo abbracciò
stretto mentre il cuore gli martellava, <Se non fossi già morto da un po’,
mi sembrerebbe di morire d’amore> tentò di dire, ma non potè perché gli
mancò la voce, si abbandonò su quel petto di pace e provò una intensità
senza confronti, <Questo è un piccolo anticipo del prossimo cielo>
disse il Padre.
<Sì, papà> pensò Ciccino ancora muto.
<E perché, Ciccino, non hai risposto a Mimma e hai abbandonato Cristina all’ingrassaggio? Sei l’angelo custode delle poetesse, non dimenticarlo mai>.
<Il fatto è che le due poetesse sono un moto perpetuo e non le reggo, una ne
fanno, una ne pensano e una ne dicono, io sono un uomo di silenzio e riflessione>
si scusò Ciccino, poi ebbe un’esitazione e confessò: <E va bene, non avevo voglia dell’ennesima avventura>.
<Gli alieni nei quali sono incappate sono ancora molto sottosviluppati,
pensano soltanto a mangiare > disse il Padre, < le due ragazze hanno corso
un bel rischio. E non ti sei accorto che il robot faceva delle avances
a Mimma e l’elicottero stava precipitando? >.
<Ah, ah, ah> scappò a Ciccino, <delle avances a Mimma! Chissà cosa
gli girava per i chip>.
<Anche i robot hanno bisogno d’amore> rispose il Padre e divenne serio,
sicché Ciccino incominciò a battersi il petto e chiedere perdono.
<Ciccino, smettila. Vatti a rendere presentabile, indossa una toga da
arcangelo più dignitosa di questa specie di pigiama a strisce bianche e celesti
con il quale giri per tutto il paradiso e, per una volta, mettiti un paio
di scarpe, mocassini celesti flosci di pura pelle, sono nel corredo
degli alti cori e ti toccano in dotazione, si può sapere perché
non hai nemmeno aperto l’armadio nella tua stanza?>.
<Maestà, permettetemi di piangere un po’> rispose costernato Ciccino,
che in camera sua non si era permesso di toccare niente per umiltà.
<E piangi> rispose il Padre. Subito sulla terra incominciò a diluviare
e nel triangolo delle Bermuda vennero le onde anomale.
Ciccino, al vedere l’inizio della catastrofe, si asciugò gli occhi con bioccoli
di nuvole.
<Vado a cambiarmi d’abito> affermò, poi gli venne un pensiero:
“E se adesso LUI è offeso e non si lascia più abbracciare?”.
Così lo strinse a sè per quella che pensava potesse essere l’ultima volta e
quale non fu la sua gioia quando si rese conto che il Padre gli ricambiava
l’abbraccio e lo sollevava come un fuscello baciandolo in fronte.
Nuovamente gli parve di morire d’amore, ma con ulteriori delizie.
 
L’arcangelo Francesco Pasticcio era più che presentabile e faceva anzi
bella figura.
Il Padre lo controllò da ogni lato, gli sistemò il cravattino che era un po’ storto
e gli disse che poteva andare.
< Dove, Maestà? >.
< Lo sai benissimo >.
< E cosa debbo fare? >.
< Lascio decidere a te, Ciccino, io vado a passeggio nell’Eden > rispose il Padre.
E sparì.
L’arcangioletto si guardò a destra, dopo a sinistra, infine davanti a sè:
cielo e  nuvole ovunque.
Nessuno a cui chiedere consiglio tranne un’angiolessa anziana
di quarta categoria, che cantava con aria ispirata.
Portava l’abito degli ultimi, che aveva ancora un po’ del cinereo.
Ciccino le si accostò, ma non osò interromperla. Lei si vide guardata e gli sorrise.
<Sono appena arrivata dal Purgatorio> gli disse, <quale felicità sto provando. Mi chiamo Dominica de Luisis de mimmiana familia>.
<Oh, che bel nome> rispose il vecchio gesuita, <io sono Franceschino de Ciccinis de cicciniana familia>.
<Piacere>.
<Piacere. Mi puoi dare una mano? > e le raccontò il fatto,
<Tu cosa faresti?> concluse.
<Intanto cercherei le due poetesse>.
<E poi?>.
<E poi chiederei perdono>.
<Questo non è difficile, ma poi ?>.
<Le accompagnerei a casa con letizia>.
<Nient’altro?>
<Beh, farei dimagrire Cristina al peso giusto>.
<Elementare! Grazie. Come non ci ho pensato da me?>.
Ciccino spiccò il volo e, in un lampo, apparve nell’elicottero, si prostrò dinanzi alle poetesse sbalordite, chiese ed ottenne il perdono e le riaccompagnò fino a casa, prima di sparire rimise a posto il peso di Cristina, ma nel toglierle le sopracciglia cespugliose si distrasse un momento e le aggiunse il dono della bellezza irresistibile. Il robot, che accompagnava le due poetesse con i bagagli, lasciò cadere per terra le valigie, l’inseguì e le si dichiarò sfacciatamente : <Io non pupazzo, tu bella femmina, mi vuoi sposare?>.
 

                                                          Domenica Luise
   
                                                 (Fine della seconda puntata)
 

Il robot innamorato incominciò a squagliarsi dalle falangi delle mani fino
agli alluci dei piedi e in trenta secondi di lui restò un mucchietto di neuroni
e sinapsi sintetici con un cuore di quarzo rosa che si agitava e batteva.
Il minuto dopo tutto fu silenzio.
Mimma guardò Cristina: <Cosa gli hai fatto? L’hai ucciso!>.
<Semplice sindrome di Stendhal> rispose Cristina come se non gliene importasse niente. Si ravviò i capelli e aggiunse: <Forse hai uno specchio?>.
Mimma cercò nella sua borsa e glielo passò.
<Questo è piccolo, non ne hai uno più grande? Come ho fatto a dimenticarmi
lo specchio?> continuò Cristina, <Oh, come sono bella! Ma tu mi hai vista?
Ho gli occhi verdi cangianti che brillano, le labbra rosse, la pelle rosa
e questa rughina vezzosa al centro della fronte>.
<Oh, come sei bella, che ci importa di lui> rispose Mimma indicando ciò che
del robot giaceva per terra. <Io sono la tua migliore amica, non è vero?>
chiese con ansia.
<Certo, Mimma, ma non la prima né l’ultima. Una dei miei innumerevoli
ammiratori, ecco> rispose Cristina camminando senza smettere di specchiarsi.
Tutte le macchine si fermavano, gli elicotteri atterravano, gli aerei
cambiavano rotta, incominciarono parecchi tamponamenti a catena e alcuni
surfisti scivolarono davanti a lei, ginocchioni le proponevano il matrimonio
o almeno una convivenza a tempo indeterminato.
Una schiera di editori apparsi dal nulla incominciò a contendersi il privilegio
di pubblicare un libro delle sue poesie, visto che erano troppi Cristina stabilì
che ognuno ne avrebbe stampato una pagina. La decisione salomonica accontentò tutti, ma tornarono a casa disfatti perché ognuno di loro l’avrebbe voluta
almeno baciare con passione.
Una volta arrivati barcollanti in camera da letto, si coricarono con la febbre
a quarantadue e gli spasmi. Le mogli furibonde dovettero assisterli, ma quando
la sera videro in televisione l’intervista a Cristina se ne innamorarono anch’esse.
Una tigre scappata dal circo, che casualmente si trovò nei pressi della sua casa, intravide la sua silhouette dalla finestra della cucina e subito cadde a terra,
era incinta e partorì, prima del tempo, una tigrotta che volle chiamare Cristina
a perenne ricordo di quell’emozione.
Il telefono squillava, il campanello della porta suonava continuamente, il fioraio
e il pasticciere erano ben felici di andare e venire portando scatole di
cioccolattini e fasci di rose scarlatte.
<Sono sempre io, madame>.
<Altri cioccolattini, signora>.
<Scusi se disturbo ancora>.
<Mi può fare l’autografo?>.
In tarda serata Mimma e Cristina piombarono addormentate lì dov’erano,
sul divano del salotto buono.
Furono svegliate dal canto del gallo, che volò dentro casa dopo avere rotto
a forza di beccate i vetri della finestra e si precipitò fra le braccia
di Cristina tentando di baciarla sulla bocca, ma lei minacciò di
torcergli il collo. Fuori dalla porta si stipavano parecchi  chilometri di folla,
c’erano anche alcuni prelati, con imbarazzo di Mimma e divertimento di Cristina.
La quale non mollava lo specchio. Ora Mimma non era una donna portata
all’invidia per natura, beata lei, ma vedere l’amica così corteggiata,
con un libro di poesie pubblicato una pagina per editore  e a lei niente,
le incominciava a dare un pochino di fastidio, una puntura piccolissima,
quasi inavvertibile.
<Mi sembri il puffo vanitoso> le disse, <ti sei innamorata di te stessa? >.
<Tu sei soltanto invidiosa> fece Cristina soprappensiero.
<Invidiosa di che? Anch’io sono bella> disse Mimma, ma poiché era
una persona sincera aggiunse dubbiosa: <Mah!> col punto esclamativo.
 
Il gesuita Francesco Pasticcio, quella mattina, si presentò dal Padre con l’animo tranquillo: chissà quanto si sarebbe compiaciuto per il suo comportamento e gli avrebbe dato un altro di quei baci che gli spezzavano l’anima.
Aveva perfino indossato una stola con sciarpetta trasparente in vita e si era ricordato di mettere un comodo paio di mocassini celesti. L’aureola gli
sprizzava soddisfazione da tutte le luci.
Il Padre lo abbracciò, gli disse che apprezzava le sue buone intenzioni,
ma che da ora in poi fosse più attento a non lasciarsi scappare sui mortali
doni che essi non potevano sopportare.
E poiché Ciccino sbalordiva, gli mostrò le due poetesse che quasi litigavano
per la prima volta in vita loro col gallo che, spaventato, svolazzava di qua
e di là fra tutti quei fiori e scatole di cioccolattini e fiocchi colorati.
<Cos’ho fatto, maestà! Mi è scappata una scintilla di bellezza irresistibile
e ha colpito Cristina> disse costernato.
In un lampo si presentò alle due poetesse, <Cosa state facendo, litigate a chi
è più bella, vergognatevi, alla vostra età>.
Allungò il dito indice della mano destra e sfiorò la testa di Cristina disintossicandola con il dono della normalità quotidiana.
Subito i prelati se ne andarono in processione, gli aerei ripresero ognuno
la propria rotta, gli elicotteri smisero gli atterraggi di fortuna in quei pressi
e si interruppero di colpo i tamponamenti. Il fioraio e il pasticciere,
stremati, poterono finalmente recuperare il sonno perduto, soltanto
gli editori mantennero l’affare del libro di Cristina pubblicato una pagina
per uno, quei furbacchioni. In quanto ai surfisti, saltarono su di un’altra
onda e nessuno li vide più da quelle parti, anche la tigre tornò al circo
con la figlioletta e il gallo volò nel pollaio a corteggiare le galline.
Per Mimma non cambiò niente, ma riebbe la sua amica e lo specchietto.
 

                                                               Domenica Luise
FINE

 
 

 

La vita

cavalli

Tu sole, io cometa
che si tuffa e brucia.
 
Un cavallo bianco e uno nero
hanno guidato la mia carrozza
con allegria dolore gioia
entusiasmi delusioni, il nitrito
fu comunque tromba di vittoria
malgrado tutto.
 
Il prato secco è pronto alla scintilla.
 

                                                              Domenica Luise
                                         (Disegno di Domenica Luise)