





Buon divertimento e vivete felici.
Quando l’aereo sul quale viaggiava Cristina sparì nel triangolo delle Bermuda, Mimma non ebbe più pace. Le mancava e forse non era morta,
così almeno voleva sperare.
Le bastava l’uno per cento delle possibilità per partire alla guida del proprio elicottero personale acquistato coi folli guadagni di scrittrice, solo che il pilota, l’aiuto pilota, il maggiordomo, la segretaria, l’autista e perfino la colf
non vollero accompagnarla per nessuna somma al mondo.
Allora Mimma lo chiese alla sorella Iole, che giustamente le rispose
di avere famiglia.
Nemmeno l’arcangelo Francesco Pasticcio rispose alle sue email né sul
telefonino né niente. Poté soltanto lasciargli un messaggio nella segreteria.
Così Mimma partì da sola e col magone. Era una bella notte stellata quando l’elicottero decollò dalla terrazza del palazzo mimmiano,
che occupava il centro di Rometta Marea.
Aveva portato con sè tutto l’indispensabile: il supercombustibile concentrato
che durava a tempo indeterminato, cibo in pillole di tutti i sapori e odori,
perfino un gran mazzo di fiori a lunga conservazione che sperava di non
dovere deporre su una tomba, ma di poterle dare viso a viso,
quaderni e penne a punta fine ed altre cosucce, non escluse alcune
bottigline di acqua minerale naturale e una tavoletta di cioccolata
fondente che a Cristina piaceva.
Consultò il monitor della strada stellare, diede gli ordini ai computer
di bordo e mise in moto il pilota automatico, un bel ragazzo biondo
che sembrava quasi umano.
<Così ti hanno lasciata da sola> fece lui. Da un po’ di tempo si prendeva
troppe confidenze, ed aggiunse: <Fifoni>.
Gli occhi verdi gli scintillarono con una specie di lampo, Mimma pensò che
poteva trattarsi soltanto di energia atomica a lungo repressa,
<Io invece darei la vita per te> disse con voce roca.
<Ma non lo vedi che tu sei un pupazzo ed io una vecchia?> rispose
Mimma sbadigliando.
<Io non pupazzo, tu bella femmina> si inceppò il robot con voce
piagnucolosa che Mimma non gli aveva sentito mai. Effettivamente,
con una pilloletta di eternagiovinezza tutte le mattine, era tornata
a vent’anni e un giorno, chiome corvine e peso forma compresi.
Portava una coda di cavallo legata con un nastro rosso ed una tutina
rossa anch’essa che facevano girare vorticosamente i chip al robot,
il quale lasciò la guida e cercò di abbracciarla, l’elicottero incominciò
a precipitare, <Che bello morire insieme> sussurrò lui, Mimma tirò
giù la levetta dello spegnimento facendolo afflosciare per terra
e si precipitò ai comandi, che però non obbedirono.
La velocità incominciò a diminuire: sembrava che una mano invisibile
sostenesse l’elicottero.
“Può trattarsi soltanto di una condensazione di elettroni purificati
e dietro c’è un’intelligenza umana, se non superiore” pensò Mimma.
Chiunque fosse, non voleva la sua morte, era lampante.
Apparve davanti e intorno una nuvola densa e la caduta divenne morbida,
sempre più delicata, anche gradevole.
Sembrava di appoggiarsi su un enorme materasso di bambagia.
Prevedendo un incontro ravvicinato con una forma di vita superiore,
Mimma ingoiò una pillola dov’era copiato tutto il tragitto di ritorno
memorizzato nel computer di bordo. Era l’ultimo ritrovato
della scienza e della tecnica ed avrebbe consentito in qualunque momento
un rientro felice sulla terra da qualsiasi altro luogo anche sperduto
dell’universo, sempre che fosse disponibile un mezzo di trasporto:
una tavoletta su cui puntare i piedi, un pallone tipo mongolfiera,
una piccola astronave o disco volante, anche un aquilone di carta velina.
Dopo di che Mimma ingoiò una pillola della sazietà a tempo
indeterminato, che l’avrebbe anche dissetata in qualunque emergenza
ed una pillola di invulnerabilità. Veramente non era tipo di prendere
tante medicine, preferiva seguire una vita naturale mangiando e
bevendo come gli avi, ma in questo frangente non era il caso
di esitare. Diede un ultimo sguardo al robot disteso per terra e girò
la sicura che lo immobilizzava, così l’avrebbero, forse, creduto guasto.
Aprì lo sportello dell’elicottero e si incontrò con una gran faccia
di donna che le veniva vagamente a conoscere. Aveva i capelli bianchi
legati con due codini stranissimi, le sopracciglia cespugliose e
poteva pesare centoventi chili, forse più.
<Non mi riconosci?> disse la voce di Cristina.
<Ti riconosco dalla voce, ma come hai fatto ad ingrassare tanto
in sette giorni?>.
<Tu non sai che inferno è questo postaccio> disse Cristina sottovoce,
<hai ingoiato la pillola per il ritorno? E quella che toglie lo stimolo
dell’appetito e mantiene il peso ottimale? Altrimenti siamo rovinate>.
Mimma rispose di sì e Cristina la strinse in un abbraccio che quasi
la soffocava: <O mia salvatrice!> esclamò sussurrando.
Mimma era preoccupata: <Ma qui dove siamo?> chiese anche lei a voce bassa.
<Al centro dei tifoni che sempre battono il triangolo delle Bermuda,
nella zona immobile. Nessuno può tornare indietro perché loro svuotano
i serbatoi di tutti i mezzi che arrivano e che conservano come oggetti
ricordo. Presto, hai portato le pillole anche per me?
Cristina le ingoiò in fretta:<Adesso possiamo tornare a casa anche
coi serbatoi vuoti>.
<Cosa fanno ai robot, li smantellano?> chiese Mimma alla quale dispiaceva
perdere un ammiratore.
<No, li conservano nei loro musei insieme al resto>.
<E per adesso “loro” dove sono?>.
<A pranzo>.
<A quest’ora?>.
< Incominciano alle sei del mattino, finiscono a mezzanotte
e ricominciano alle sei dell’altro mattino>.
<Ma sono come noi?>.
<Sì, soltanto hanno la pelle verde, i capelli rossi e gli occhi viola fosforescenti
che lampeggiano>.
<E ci sono altri con la nostra pelle?>.
<No perché tutti diventano del loro colore e della loro stazza,
centocinquanta chili, poco più, poco meno>.
<Che orrore> affermò Mimma, che era longilinea di natura. Beata lei.
<Ti ho portato dei fiori> disse porgendole il fascio di rose, che Cristina annusò con aria beata.
<Ci conviene distribuirli, così forse non ci chiuderanno nelle segrete>
affermò. <Appena ti vedono ti arrestano> aggiunse preoccupata.
<E perché se non gli ho fatto niente e nemmeno li conosco?>.
<Sei troppo magra, è proibito per legge. Pure io sono troppo magra
se non arrivo almeno a centotrenta chili>.
<Ti hanno fatta mangiare per forza?>.
<E come. Mi hanno drogata con l’elisir spremifame, legata al tavolino
e messo i piatti davanti. Cucinano benissimo>.
<Meglio partire subito> sussurrò Mimma, riattivò il robot automatico,
che la guardò storto lampeggiando e dicendo bip, poi si accorse di Cristina: <Clandestina a bordo, clandestina a bordo, il sistema è infettato da una
virus sconosciuta>.
<Non vedi che è Cristina, scemo?>.
<Denominare password sillabando piano> gracchiò il computer. Cristina
disse una delle proprie cinquantacinque password e finalmente il robot
mise in moto. Appena in tempo.
Gli alieni mangioni arrivavano in massa, per fortuna erano obesi
e correvano lentamente.
Dagli alberi le lasagne col ragù ricoperte di formaggio scolavano un
sugo grasso su cespugli di parmigiana e patate al forno. Una pianta rampicante attorcigliava polpettoni opulenti a mo’ di frutti e costolette d’agnello
cotte alla brace.
<Questi, quando vogliono andare leggeri, si mangiano pane e sugna
e bevono un litro di vino rosso, che schifo> fece a voce bassa Cristina.
<Coraggio, cara, sei salva, ormai è finita>, minimizzò Mimma.
<O mia salvatrice, come ringraziarti? Ma mi deve essere scesa la pressione,
è da troppo tempo che sono digiuna, mi è arrivato il calo glicemico>
fece Cristina con voce fioca, <non avresti qualcosa
da mettere sotto i denti? Oh, solo uno spuntino, magari una fetta di
cassata siciliana e un gelato al gianduia con due o tre cucchiaiate di panna>.
Domenica Luise
(Fine della prima puntata)
L’arcangelo Francesco Pasticcio bussò timidamente allo studio del Padre.
Una voce allegra disse subito: <Avanti, Ciccino>.
Egli aprì la porta imbottita di azzurro e si fermò sulla soglia, dove le
ginocchia gli cedettero subito. Fissò una piccola nube bianchissima sotto
il suo piede destro e strinse i pugni: non sapeva come dirglielo.
<Cosa c’è, Ciccino? Mi sembra ancora presto per aumentarti di grado
e portarti con me al prossimo cielo. Per adesso il giardino dell’eden è sufficiente, ancora non hai ammirato tutte le piante né annusato ogni fiore>.
<Maestà>, rispose Ciccino flebilmente, <a questo non pensavo nemmeno.
Sua maestà conosce benissimo il mio problema>.
Il Padre, col dito, gli fece cenno di avvicinarsi, il piccolo arcangelo volò,
<Chiedo perdono perché non ho risposto a Mimma, che mi aveva telefonato,
e l’ho mandata da sola nel triangolo delle Bermuda a cercare Cristina.
Chiedo perdono perché Cristina è ingrassata orribilmente.
Chiedo perdono per non avere chiesto consiglio a sua maestà.
Merito una degradazione al purgatorio>.
<Il purgatorio che tu conosci, Ciccino, è soltanto una metafora. Il vero
purgatorio è la cecità spirituale>.
<Che significa, maestà?> si impappinò il vecchio gesuita e lo abbracciò
stretto mentre il cuore gli martellava, <Se non fossi già morto da un po’,
mi sembrerebbe di morire d’amore> tentò di dire, ma non potè perché gli
mancò la voce, si abbandonò su quel petto di pace e provò una intensità
senza confronti, <Questo è un piccolo anticipo del prossimo cielo>
disse il Padre.
<Sì, papà> pensò Ciccino ancora muto.
<E perché, Ciccino, non hai risposto a Mimma e hai abbandonato Cristina all’ingrassaggio? Sei l’angelo custode delle poetesse, non dimenticarlo mai>.
<Il fatto è che le due poetesse sono un moto perpetuo e non le reggo, una ne
fanno, una ne pensano e una ne dicono, io sono un uomo di silenzio e riflessione>
si scusò Ciccino, poi ebbe un’esitazione e confessò: <E va bene, non avevo voglia dell’ennesima avventura>.
<Gli alieni nei quali sono incappate sono ancora molto sottosviluppati,
pensano soltanto a mangiare > disse il Padre, < le due ragazze hanno corso
un bel rischio. E non ti sei accorto che il robot faceva delle avances
a Mimma e l’elicottero stava precipitando? >.
<Ah, ah, ah> scappò a Ciccino, <delle avances a Mimma! Chissà cosa
gli girava per i chip>.
<Anche i robot hanno bisogno d’amore> rispose il Padre e divenne serio,
sicché Ciccino incominciò a battersi il petto e chiedere perdono.
<Ciccino, smettila. Vatti a rendere presentabile, indossa una toga da
arcangelo più dignitosa di questa specie di pigiama a strisce bianche e celesti
con il quale giri per tutto il paradiso e, per una volta, mettiti un paio
di scarpe, mocassini celesti flosci di pura pelle, sono nel corredo
degli alti cori e ti toccano in dotazione, si può sapere perché
non hai nemmeno aperto l’armadio nella tua stanza?>.
<Maestà, permettetemi di piangere un po’> rispose costernato Ciccino,
che in camera sua non si era permesso di toccare niente per umiltà.
<E piangi> rispose il Padre. Subito sulla terra incominciò a diluviare
e nel triangolo delle Bermuda vennero le onde anomale.
Ciccino, al vedere l’inizio della catastrofe, si asciugò gli occhi con bioccoli
di nuvole.
<Vado a cambiarmi d’abito> affermò, poi gli venne un pensiero:
“E se adesso LUI è offeso e non si lascia più abbracciare?”.
Così lo strinse a sè per quella che pensava potesse essere l’ultima volta e
quale non fu la sua gioia quando si rese conto che il Padre gli ricambiava
l’abbraccio e lo sollevava come un fuscello baciandolo in fronte.
Nuovamente gli parve di morire d’amore, ma con ulteriori delizie.
L’arcangelo Francesco Pasticcio era più che presentabile e faceva anzi
bella figura.
Il Padre lo controllò da ogni lato, gli sistemò il cravattino che era un po’ storto
e gli disse che poteva andare.
< Dove, Maestà? >.
< Lo sai benissimo >.
< E cosa debbo fare? >.
< Lascio decidere a te, Ciccino, io vado a passeggio nell’Eden > rispose il Padre.
E sparì.
L’arcangioletto si guardò a destra, dopo a sinistra, infine davanti a sè:
cielo e nuvole ovunque.
Nessuno a cui chiedere consiglio tranne un’angiolessa anziana
di quarta categoria, che cantava con aria ispirata.
Portava l’abito degli ultimi, che aveva ancora un po’ del cinereo.
Ciccino le si accostò, ma non osò interromperla. Lei si vide guardata e gli sorrise.
<Sono appena arrivata dal Purgatorio> gli disse, <quale felicità sto provando. Mi chiamo Dominica de Luisis de mimmiana familia>.
<Oh, che bel nome> rispose il vecchio gesuita, <io sono Franceschino de Ciccinis de cicciniana familia>.
<Piacere>.
<Piacere. Mi puoi dare una mano? > e le raccontò il fatto,
<Tu cosa faresti?> concluse.
<Intanto cercherei le due poetesse>.
<E poi?>.
<E poi chiederei perdono>.
<Questo non è difficile, ma poi ?>.
<Le accompagnerei a casa con letizia>.
<Nient’altro?>
<Beh, farei dimagrire Cristina al peso giusto>.
<Elementare! Grazie. Come non ci ho pensato da me?>.
Ciccino spiccò il volo e, in un lampo, apparve nell’elicottero, si prostrò dinanzi alle poetesse sbalordite, chiese ed ottenne il perdono e le riaccompagnò fino a casa, prima di sparire rimise a posto il peso di Cristina, ma nel toglierle le sopracciglia cespugliose si distrasse un momento e le aggiunse il dono della bellezza irresistibile. Il robot, che accompagnava le due poetesse con i bagagli, lasciò cadere per terra le valigie, l’inseguì e le si dichiarò sfacciatamente : <Io non pupazzo, tu bella femmina, mi vuoi sposare?>.
Domenica Luise
(Fine della seconda puntata)
Il robot innamorato incominciò a squagliarsi dalle falangi delle mani fino
agli alluci dei piedi e in trenta secondi di lui restò un mucchietto di neuroni
e sinapsi sintetici con un cuore di quarzo rosa che si agitava e batteva.
Il minuto dopo tutto fu silenzio.
Mimma guardò Cristina: <Cosa gli hai fatto? L’hai ucciso!>.
<Semplice sindrome di Stendhal> rispose Cristina come se non gliene importasse niente. Si ravviò i capelli e aggiunse: <Forse hai uno specchio?>.
Mimma cercò nella sua borsa e glielo passò.
<Questo è piccolo, non ne hai uno più grande? Come ho fatto a dimenticarmi
lo specchio?> continuò Cristina, <Oh, come sono bella! Ma tu mi hai vista?
Ho gli occhi verdi cangianti che brillano, le labbra rosse, la pelle rosa
e questa rughina vezzosa al centro della fronte>.
<Oh, come sei bella, che ci importa di lui> rispose Mimma indicando ciò che
del robot giaceva per terra. <Io sono la tua migliore amica, non è vero?>
chiese con ansia.
<Certo, Mimma, ma non la prima né l’ultima. Una dei miei innumerevoli
ammiratori, ecco> rispose Cristina camminando senza smettere di specchiarsi.
Tutte le macchine si fermavano, gli elicotteri atterravano, gli aerei
cambiavano rotta, incominciarono parecchi tamponamenti a catena e alcuni
surfisti scivolarono davanti a lei, ginocchioni le proponevano il matrimonio
o almeno una convivenza a tempo indeterminato.
Una schiera di editori apparsi dal nulla incominciò a contendersi il privilegio
di pubblicare un libro delle sue poesie, visto che erano troppi Cristina stabilì
che ognuno ne avrebbe stampato una pagina. La decisione salomonica accontentò tutti, ma tornarono a casa disfatti perché ognuno di loro l’avrebbe voluta
almeno baciare con passione.
Una volta arrivati barcollanti in camera da letto, si coricarono con la febbre
a quarantadue e gli spasmi. Le mogli furibonde dovettero assisterli, ma quando
la sera videro in televisione l’intervista a Cristina se ne innamorarono anch’esse.
Una tigre scappata dal circo, che casualmente si trovò nei pressi della sua casa, intravide la sua silhouette dalla finestra della cucina e subito cadde a terra,
era incinta e partorì, prima del tempo, una tigrotta che volle chiamare Cristina
a perenne ricordo di quell’emozione.
Il telefono squillava, il campanello della porta suonava continuamente, il fioraio
e il pasticciere erano ben felici di andare e venire portando scatole di
cioccolattini e fasci di rose scarlatte.
<Sono sempre io, madame>.
<Altri cioccolattini, signora>.
<Scusi se disturbo ancora>.
<Mi può fare l’autografo?>.
In tarda serata Mimma e Cristina piombarono addormentate lì dov’erano,
sul divano del salotto buono.
Furono svegliate dal canto del gallo, che volò dentro casa dopo avere rotto
a forza di beccate i vetri della finestra e si precipitò fra le braccia
di Cristina tentando di baciarla sulla bocca, ma lei minacciò di
torcergli il collo. Fuori dalla porta si stipavano parecchi chilometri di folla,
c’erano anche alcuni prelati, con imbarazzo di Mimma e divertimento di Cristina.
La quale non mollava lo specchio. Ora Mimma non era una donna portata
all’invidia per natura, beata lei, ma vedere l’amica così corteggiata,
con un libro di poesie pubblicato una pagina per editore e a lei niente,
le incominciava a dare un pochino di fastidio, una puntura piccolissima,
quasi inavvertibile.
<Mi sembri il puffo vanitoso> le disse, <ti sei innamorata di te stessa? >.
<Tu sei soltanto invidiosa> fece Cristina soprappensiero.
<Invidiosa di che? Anch’io sono bella> disse Mimma, ma poiché era
una persona sincera aggiunse dubbiosa: <Mah!> col punto esclamativo.
Il gesuita Francesco Pasticcio, quella mattina, si presentò dal Padre con l’animo tranquillo: chissà quanto si sarebbe compiaciuto per il suo comportamento e gli avrebbe dato un altro di quei baci che gli spezzavano l’anima.
Aveva perfino indossato una stola con sciarpetta trasparente in vita e si era ricordato di mettere un comodo paio di mocassini celesti. L’aureola gli
sprizzava soddisfazione da tutte le luci.
Il Padre lo abbracciò, gli disse che apprezzava le sue buone intenzioni,
ma che da ora in poi fosse più attento a non lasciarsi scappare sui mortali
doni che essi non potevano sopportare.
E poiché Ciccino sbalordiva, gli mostrò le due poetesse che quasi litigavano
per la prima volta in vita loro col gallo che, spaventato, svolazzava di qua
e di là fra tutti quei fiori e scatole di cioccolattini e fiocchi colorati.
<Cos’ho fatto, maestà! Mi è scappata una scintilla di bellezza irresistibile
e ha colpito Cristina> disse costernato.
In un lampo si presentò alle due poetesse, <Cosa state facendo, litigate a chi
è più bella, vergognatevi, alla vostra età>.
Allungò il dito indice della mano destra e sfiorò la testa di Cristina disintossicandola con il dono della normalità quotidiana.
Subito i prelati se ne andarono in processione, gli aerei ripresero ognuno
la propria rotta, gli elicotteri smisero gli atterraggi di fortuna in quei pressi
e si interruppero di colpo i tamponamenti. Il fioraio e il pasticciere,
stremati, poterono finalmente recuperare il sonno perduto, soltanto
gli editori mantennero l’affare del libro di Cristina pubblicato una pagina
per uno, quei furbacchioni. In quanto ai surfisti, saltarono su di un’altra
onda e nessuno li vide più da quelle parti, anche la tigre tornò al circo
con la figlioletta e il gallo volò nel pollaio a corteggiare le galline.
Per Mimma non cambiò niente, ma riebbe la sua amica e lo specchietto.
Domenica Luise
FINE