La trottola e il sogno

Trottola
 
Chi è innamorato dice follie.
 
Indosso la gonna di seta
rossa e il cappellino di paglia coi fiori.
 
E vado
sognando gorgheggi
in assurdo. Dalle mie mani
spicco il volo di piume. Cose innocenti
mi alitano.
 
Se i pinguini mangiassero ad uno ad uno
i chicchi del melograno. Facciamo finta
che ero la ballerina Mimosa
e versavo polline giallo
tintinnando vita. Evviva.
I giocattoli hanno un cuore che batte
e il cavallo a dondolo nitrisce. Una trottola antica
gira a colori sulla punta di latta. Adesso
mai più
prima poi sempre.
 
Mi hanno tagliato i boccoli
sogno a sogno, ne ho salvato uno
furtivamente
nella grotta dei miei misteri.
 
Cuscino tiepido al riposo. E la trottola
dice: presto, presto
presto.

 
                                              Domenica Luise
                                      (Elaborazione grafica di Domenica Luise)

Mimma signorinella

 

Vi voglio aggiungere la foto di quando avevo dodici o tredici anni, qui indossavo la vestina di seta rossa
( gonna e giacchetta con fazzoletto
ricamato nel taschino) e il cappello di paglia
decorato con fiori multicolori di stoffa
a cui accenno nella poesia:
mi sentivo stupenda. La mamma mi combinò così per la prima Comunione di mia sorella Iole. La foto
è un po' sfocata, ma è un cimelio.

                                                                                    (Fotografia di Espedito Luise)

 
 

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Sabato e domenica

                                                
 
Il fine settimana, per loro, era sacro. Già il venerdì mattina le bambine si svegliavano con quel pensiero:”Chissà dove ci porta stavolta papà".
Era semplice: nella buona stagione tutti in una campagna intorno a
raccogliere erbe fiorite, giocare, ridere di niente e di tutto e scoprire l’imprevedibile, che so io: la camminata sbilenca dello scarafaggio nero
col corpo a pallina, la prima margherita gialla e gli anemoni di campo viola
col cuore scuro, una lumaca con le corna ritte o la farfalla bianca, che
era una ballerina, diceva il papà. La mamma partiva con una borsa
bella grande, dentro c’erano due bottigline di acqua per le bambine e i
panini bene imbottiti, caramelle per tutti, compreso il papà, che non fumava,
cosa che talvolta, alla figlia più piccola, sembrava un’imperdonabile debolezza.
Poi i grandi le spiegarono che fumare è un brutto vizio, i polmoni si fanno neri
e si può anche morire perché non si respira bene, che papà una volta fumava,
ma aveva smesso e lei concluse: <Meno male, papà, così non muori> e si era
messa a piangere come una scema.
In quelle loro escursioni papà fece amicizia con un contadino, proprietario
di una capretta e un paio di pecore, che offriva ogni volta pane  e formaggio
fatti in casa con un bicchiere di vino rosso <pestato con questi piedi>
affermava orgoglioso, le bambine non avevano l’età per il vino, la mamma
l’assaggiava appena e papà, invece, lo trincava d’un colpo schioccando le
labbra e con gli occhi luccicanti. <Che schifo, si è bevuto il vino pestato
coi piedi di quel vecchio> dissero poi le bambine a casa, e mamma e papà,
dopo avere spiegato che il vino si faceva proprio così, ne risero giorno
dopo giorno a lungo.
Papà, che si dilettava a dipingere nel tempo libero dal lavoro, una volta
portò in regalo a quello che tra loro chiamavano pastore un proprio quadro
perfino incorniciato, un paesaggio campestre, e lui lo volle ricambiare a
tutti i costi con un bottiglione di vino da due litri pestato coi piedi.
Per il papà la figlia grande aveva una vera ammirazione, tanto che,
una volta cresciuta, era convinta di sposarlo.
La sorella minore voleva sempre giocare alle signore che trovavano il figlio
sotto il tavolo o dietro la macchina da cucire nuovissima, comunque né
sotto un cavolo né lo portava la cicogna, nella sua versione appariva,
ma come non sapeva.
E del resto non si conosceva granché nemmeno dei cavoli e delle cicogne.
In inverno, invece, ogni domenica papà portava al cinema quelle che chiamava
“le mie donne”, a vedere film come Biancaneve, Cenerentola, Peter Pan e,
al massimo, L’orfana senza sorriso e Lacrime di sposa.
Si informava accuratamente al botteghino se fosse adatto, altrimenti
non esitava un momento a riportare a casa la famigliola recalcitrante,
le figlie senz’altro, ma pure la moglie.
E sapeva fare doppietta con grande disinvoltura quando cambiava le marce
sulla cinquecento rossa della quale erano tutti e quattro orgogliosi.
Per il colore avevano votato le bambine, lui l’avrebbe voluta blu e la mamma
beige che, diceva, era raffinato.
Nei giorni feriali, al tramonto, quando era bel tempo, uscivano in balcone
a guardare quella che le piccole chiamavano la processione degli asinelli:
tutti i contadini si ritiravano ognuno in groppa al proprio, soltanto qualcuno
gli camminava a fianco perché magari l’asino era vecchio e gli faceva pena
che portasse un altro peso oltre l’erba e le ceste. Uno gli parlava pure
vicino alle orecchie, guardandosi furtivamente intorno per pudore di
essere visto a chiacchierare con l’animale.
Le bambine dovevano contarli tutti, nel frattempo passava qualche
macchina e bisognava indovinare se la targa fosse pari o dispari,
nessuno vinceva, ma ridevano tanto.
La televisione non era ancora arrivata in tutte le case.
Poi una domenica di primavera la cinquecento rossa non si mise in moto.
Dovettero rientrare, le bambine imbronciate esplicitamente, la moglie
si mise a stirare, tutte e tre in cucina.
Dopo cinque minuti arrivò il papà, che rideva. <Venite, andiamo a giocare>.
<Stacca il ferro, moglie. Oggi è festa, non si lavora>.
La mamma, obbediente, tolse la spina e lo guardò perplessa.
Con una matita papà contornò irregolarmente un pezzo di muro e ne assegnò una porzione ad ognuno, compreso se stesso.
<Adesso ci dipingeremo dentro quello che vogliamo> affermò.
<Ma cosa dirà il padrone di casa?>.
<Non dirà niente, tranquilla, moglie, gli parlo io>.
<Ma papà> disse la piccola che era la più saggia delle due figlie, 
<ti consumeremo tutti i colori che costano un sacco di soldi>.
<Io voglio dipingere, io voglio dipingere> rispose invece la grande,
che era la più impetuosa, e già frignava.
Egli distribuì i propri colori ad olio, che costavano tanto, ed incominciarono dapprima timidamente coi pennelli, dopo con furia e a manate.
Il giorno più bello della loro vita insieme.
 
Le due sorelle bussarono al portone elegante, di legno massiccio. Aprì un
vecchio bianco, con la papalina sulla testa, uno scialle a uncinetto blu
da donna sulle spalle e un mouse in mano: il padrone di casa.
<Siete proprio voi…care bambine, signore…>.
<Ed è proprio lei, signor Gustavo>.
<Sua moglie?>.
Egli accarezzò quasi rudemente lo scialle:
<Morta cinque anni fa, i figli lontani, io…>.
<Come sta? Come sta?>.
<Bene, mi passo il tempo su internet, scrivo racconti e poesie>.
<Si mantiene in splendida forma> mentirono le due signore, egli finse di crederci.
<E voi siete bellissime>.
<Possiamo?>.
<Ma certo>.
Il cuore si spezzava in quel lungo corridoio che, quand’erano bambine,
sembrava tanto grande. Nella sala da pranzo la pittura sul muro di quel lontano giorno era stata incorniciata e sembrava appena fatta.
Le signore presero le loro costose macchine fotografiche ed incominciarono
a scattare per trattenere un barlume della vecchia vita.
Mimma sfiorò, con l’indice della mano destra, un pezzo di muro:
<Questo l’ho fatto io>. Era una ballerina storta con gambe lunghissime
ed ali di farfalla bianca.
<E questo io> disse Iole accarezzando uno scarabocchio .
<Che cos’è?> chiese Mimma.
<Un bambino che nasce> rispose Iole.
<Invece questo paesaggio col pastore e la capra l’ha fatto papà, gli piaceva
tanto dipingere le campagne piene di luce>.
<La mamma non sapeva cosa fare e ha buttato colori a casaccio>  fece Iole.
<A casaccio no> rispose Mimma, <c’è il rosso, che sono io, e il giallo, che sei tu>.
<Bella interpretazione> sorrise il padrone di casa, ma aveva la voce
commossa, quasi soffocata.
<Come siamo state felici> mormorarono le due signore.

                                                       Domenica Luise

Miei cari amici, i personaggi di questo racconto sono reali e li potete vedere,
come erano ai tempi descritti, in questa foto

Famiglia Luise

Non so

Anima 2

C’è questa infinità, calamita
che precede e segue la mia carne
in vagito sorriso e culla buia.
 
Qui si perde il pensiero coniugando
il verbo della sconoscenza.
 
Punti interrogativi come agganci
da cielo in terra o aquiloni
ed ali d’angelo.
 
Cosa m’attende oltre la nuvola?
 
Allungo
le mie mani che tremano.
 
                                           Domenica Luise
                                  
(Quadro di Domenica Luise, olio su tela, 50 per 70)
 

La finta incomunicabilità

Il poeta è sdegnoso del mondo e degli uomini perché l’hanno deluso
deridendolo anziché compartecipando, allora entra nel ruolo del genio
incompreso e costruisce intorno a sè una monade di parole.
Autodifesa per dire: voi mi credete matto? E allora eccovi serviti,
faccio il matto ed anzi divento sempre più simile ad altri matti come me.
Egli, pur rimanendo poeta, incomincia sempre più a compiacersi
delle metafore nuove fino alla stranezza surreale o no che gli vengono fuori,
le studia, le esaspera, si diverte per come sorprenderanno e per quanto
“i critici”, per lo più commentatori improvvisati come me e come te
che leggi, dovranno premersi le meningi tentando di capirci qualcosa.
In realtà è una reazione di bambino indispettito, che rende pan per focaccia.
Però può facilmente diventare una maturazione eccessiva ed un abuso
del proprio stile, come quando un frutto si guasta.
La voglia è anche di toccare espressività nuove, ma questo esige tempo
e fatica mentre la fretta può produrre un regresso poetico anche
con un blocco e la perdita della semplicità dello stile, che diventa artificioso.
L’incomunicabilità ricercata dei versi condanna il poeta ad un posto
di nicchia per eletti, che se ne intendono. Anche lo sfoggio della propria
cultura peggiora la situazione.
Tutto ciò che è poco naturale si deve considerare negativo, naturalmente
non parlo di spontaneismo disimpegnato, che è tutt’altra cosa.
La lingua poetica non si improvvisa, sale da dentro per pienezza.
In realtà l’incomunicabilità ermetica non esiste perché le parole
creano emozioni comunque, più o meno efficaci a seconda dell’autore,
e queste emozioni sono suscitate a livello maggiormente irrazionale.
Il dolore, l’amore, lo smarrimento, la speranza assumono contorni
e colori differenti dall’usuale prosastico, ma non per questo meno validi.
Lettore e autore corrispondono ugualmente e lo scopo della scrittura,
che è comunicazione tra uomo e uomo, è comunque raggiunto,
malgrado i limiti anche gravi che ogni poeta ha e fermo restando che
in fondo ad ogni anima persiste una zona sconosciuta e irraggiungibile,
quindi inesprimibile in parole note di qualunque lingua al mondo.
 
                                        Domenica Luise

Se volete approfondire, fate clic qui sotto su categoria: i misteri dell'Ermetismo
e troverete i precedenti post sulla poesia moderna.

 

La sfioritura

Ballerina papaveri

Dice che questo è il tempo della terra moribonda, quando
le stelle cadranno
e trascineranno con sè anche i buoni
senza distinzioni, tutti figli del caos
e nipoti dell’amore sprecato.
 
Ci dovevamo difendere per non soccombere
madre contro figlia, marito contro sposa
pensieri e parole avvelenati
al soffio del serpente. Così
siamo diventati produttori del frutto proibito
su larga scala, un morso ad Adamo
ed un morso ad Eva.
 
La nostra condanna è il pensiero di serie
falsificato anch’esso, ogni speranza
 è disperata, la bellezza caduca.
 
Io non ci sto. Credo nella vita
e che i papaveri siano ballerine coi capelli neri
e la gonna in afflato.
 
                                            Domenica Luise
                     (Quadro di Domenica Luise rielaborato al computer)

 

La forza dei deboli (pensiero mimmiano n° 15)

Arcobaleno 10

Chi si lamenta o grida, oppure tutte e due le cose, è perdente.
Spesso, nella coppia, sono perdenti entrambi.

                                                                  Domenica Luise

                                                   (Elaborazione grafica di Domenica Luise)

Anno 3012, i cloni

Un apparecchietto portatile per la clonazione, ormai, l’avevano tutti in
borsa oppure nella ventiquattrore, i benestanti quello mignon lo
portavano incastonato in un anello, sotto una bella pietra di opale
dalle sfumature variegate.
Col tono della voce la pietra riceveva l’ordinazione desiderata, che so io,
un filone di pane casareccio condito  con olio extravergine di oliva, sale
e pepe rosso, un vestito a quadretti bianchi e blu, anche un fidanzato,
bastava soltanto mostrare una fotografia  e dire una parola, per esempio
ragazzo biondo con gli occhi azzurri oppure donna sexy o che so io,
mazzo di rose rosse con fiocco e biglietto già scritto.
L’opale, nel 3012, divenne uno status symbol. Ormai il quadro della Gioconda
in casa l’avevano pure i poveracci, né si può dire che fosse una copia
essendo ognuno un originale.
La scrittrice, pittrice e stilista Mimma molto bella stava sbadigliando,
la vita era diventata così noiosa, ormai l’universo era pieno di terre
dove mandare colonie essendo diventato facilissimo clonare il nostro pianeta.
Così Mimma prese la propria fotografia di quando aveva tre anni con
l’intenzione di duplicare se stessa per avere una compagnia
intellettualmente stimolante e soprattutto una buona domestica.
Il clone venne perfetto e subito incominciò a correre per tutta la casa
buttandosi dalle scale proprio come faceva lei a quell’età sicché
Mimma I dovette medicare Mimma II, che piangeva disperatamente.
<Ahi, ahi, ahi, mamma> gridava il clone.
<Non sono tua mamma> rispose Mimma I ripassando la pomata a guarigione istantanea.
<Ahi, ahi, ahi, zia>.
<Non sono tua zia>.
<E chi sei?>.
<Sono la maestra e tu sei l’alunna>.
<Odio le maestre, quanto sei brutta, brutta e vecchia, brutta e vecchia
come una scimmia> cantarellò il clone.
“Questa è maleducata proprio come me a quell’età” pensò Mimma I.
A pranzo il clone, mentre Mimma I si girava a prendere il formaggio
da mettere sulla pasta col sugo all’amatriciana, con la velocità del fulmine
aprì la boccia della marmellata di ciliegie e se ne versò nel piatto
una buona metà, poi assicurò, rimestando, che l’avrebbe mangiata tutta,
ma la sputò subito al primo boccone.
<Che schifo, non la vuole nemmeno il gatto>, e si mise a rincorrerlo, lo
afferrò per la coda e mentre quello soffiava gli tirò i baffi a uno a uno.
<Cretina> disse il gatto, che aveva studiato le lingue.
“Precisa a me” pensò Mimma I, “la faccio arrivare a tredici anni di età e vediamo se riesco a insegnarle come si pulisce la casa”. Alitò sull’opale, che scintillò sinistramente e Mimma II raggiunse i tredici anni in un colpo solo. Stava semisdraiata in poltrona, circondata da riviste, e leggeva senza risponderle né sentirla affatto.
                                                                             
                    (Fine della prima puntata)

<Mimma II, alzati e prepara la cena> fece Mimma I.
<Mimma II….>.
<Mimmaaaaaa II !…>.
<E non gridare, non sono sorda, mi sento stanca, ho mal di testa> piagnucolò
il clone, <mica ti ho chiesto io di venire al mondo. Cosa vuoi da me?>.
<Che tu faccia i servizi domestici>.
<Mai> fece Mimma II. E riprese a leggere.
“Mi è riuscita troppo bene, è precisa a me> pensò Mimma I, e la fece
avanzare di altri dieci anni, al giorno della laurea. Era il 22 giugno e
Mimma III pesava novanta chili. Indossava un tailleur rosso scuro
con la camicetta bianca di seta a pallini neri. Disquisiva con la
massima disinvoltura mentre i professori la fissavano a bocca aperta,
non si sa se per la cultura o per la stazza. Si era scelta da sola
l’argomento della tesi proponendolo al professore, il quale aveva
pensato che non fosse l’autrice di quanto gli aveva consegnato,
ma dopo un interrogatorio di quarto grado su ogni singolo passo si
era dovuto rassegnare all’ineluttabilità: quella ragazza, modestamente,
trattandosi di me, era intelligente, scriveva bene e aveva capito tutto
a menadito traendone conclusioni originali. Si esprimeva inoltre con
un italiano sciolto ed elegante, che era identico a quello della tesi.
Era un uomo giusto e difatti Mimma si laureò col massimo dei voti e le congratulazioni generali. Amen.
Tornò a casa ringalluzzita e incominciò la dieta dimagrante perché,
appena avuto l’insegnamento, voleva farsi trovare in forma dagli allievi,
così disse a Mimma I. Mangiava rigorosamente in bianco, pesce oppure
pollo bollito, insalata scondita, niente dolci né bibite gasate, non solo,
ma costringeva Mimma I a digiunare con lei, diceva, per sostenerla.
Intanto passava i pomeriggi in palestra, tornava distrutta, col mal di testa
e i dolori nelle articolazioni, si coricava subito e si faceva servire a letto
da Mimma I chiamandola continuamente. Alzò soltanto una volta il dito
indice della mano destra, lo passò sul tavolo polveroso e disse a Mimma I
che era sporco, anzi faceva schifo.
La quale si stufò rapidamente e fece invecchiare il clone a cinquant’anni,
sperando che rinsavisse con l’età. Mimma IV si guardò allo specchio e
declamò una poesia, <Presto, presto, scrivi> ordinò a Mimma I,
<prima che mi dimentichi l’ispirazione. Ma sei una lumaca! Domani voglio
comprato un computer e un pacco di carta vergatina formato A4 di medio
spessore. Io detterò e tu mi farai da segretaria. Cosa prepari per pranzo?
Ho fame. Bada che io la pasta la voglio al dente, col ragù che deve bollire
tre ore a fuoco lento, il pesce non mi piace, mangio solo filetto ai funghi
e salsiccia casareccia, fatta da te tagliando col coltello la pura carne
di maiale senza grasso e infilandola nel budello con l’imbuto apposito
a bocca larga, ma puliscilo bene, il budello, non fare la sporcacciona.
E non dimenticare le patate al forno, che siano croccanti, salate e bene
appiccicate, ma non bruciate>.
Qui Mimma I perse le staffe, pressò l’apparecchietto e fece avanzare
gli anni. Il clone ne ebbe settanta, novanta, centodieci, centocinquanta,
poiché la vita umana si era molto allungata. Quant’era brutta.
Alla fine stridette e si dissolse in polvere, così gli esseri umani,
dopo questa stolta esperienza, rinunciarono alla clonazione e si
dedicarono a cercare qualche altro sollazzo meno fastidioso.

                                                                       Domenica Luise

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e vi troverete su New arte insieme, dove Renzo Montagnoli
ha pubblicato una mia fiaba giocosa, Coppie celebri.
E se vi viene voglia di vedere la vera foto di Mimma a tre anni,
quella da cui verrà estratto il clone, fate clic
QUI

Tutto muore

Coccola
 
Mi aiuta questo senso di irrealtà
forse dovuto alla cattiva circolazione, non so
o tutti si sentono camminare nella bambagia
proprio come me? Il pensiero
funziona, suppongo. Poco fa
ho sepolto la gattina Coccola investita da una macchina
ed era così bella. Ha vissuto felice, ma
nemmeno questo so. Deve essere stato
ieri mattina, quando l’ho fatta uscire
in giardino: quattro novembre
duemiladieci, giovedì, non posso saperlo
o forse di pomeriggio.
 
Adesso vado all’edicola e al supermercato
come di consueto.
 
Da sola.
 
Per qualche ora una può fare finta
che non le sia morta la gatta.
 
                                                 Domenica Luise
                                   (Fotografia di Domenica Luise, La gattina Coccola)

La gattina Coccola nell
Stamattina sono sette giorni che l'ho vista l'ultima volta viva.
Ho cercato una sua foto più bella di quella che vi ho pubblicato
ed ho scritto per lei un'altra poesia o chiamiamola così
per modo di dire. La foto è stata scattata a giugno
scorso dall'amico Francesco Rota.

Il mio cuore è un puntaspilli
 
sei passata
rapidamente, intrattenibile alle sbarre.
 
Adesso mi sveglio ogni mattina
e mi ricordo di te, piumino
non più mio. Né sentirò ancora
la tua voce sottile che mi chiama.
 
Come quando papà giocava col gattino
che avevamo allora e diceva: tu sei imputato
per avere mangiato pane
pepe e peperoni
a prezzi proibiti. La mamma
sfaccendava sempre.
 
Dove siete? Mi sentite? Quale bolla
ferma invisibile
ci separa? Il puntaspilli
duole.
 
                                                                Domenica Luise

                                            Ai sette giorni della morte di Coccolina
 

 
 

Le tentazioni della gatta Cristina

Guarda cos
Guarda cos'ho trovato.

Belli a vedersiBelli a vedersi.

Buoni da odorareBuoni da annusare.

Deliziosi da assaggiareDeliziosi da assaggiare.

Fotografie di Domenica Luise per gentile concessione della gatta Cristina,
dolcini di mandorla e pastafrolla fatti dalla nipote della suddetta,
Mariachiara Crisafulli, se volete la ricetta, pubblicata sempre su
questo blog, cliccate sul link e buona fortuna ai golosi o buongustai che siate.
http://domenicaluise.splinder.com/post/21349198#comment

PS: Se il link non funziona, appena aprite il mio blog andate nelle "categorie"
alla vostra sinistra,
appariranno tutti gli argomenti, fate un clic su "
ricette" e le troverete
tutte raggruppate,fate scendere o risalire la pagina fino a che non vedete
questi dolcini, che sono facilissimi da fare e di grande figura.

                                                                      Domenica Luise

Giardino zoologico

  

Ognuno è imperfetto, sennò che noia
e come potrebbero amici e nemici
dire male di me
se non avessi il mio tallone d’Achille
e sono quasi un millepiedi?

Ma non facciamo
ridere in siciliano
le galline ruspanti e il marito gallo.

C’è la giraffa dal collo
come una colonna dorica
che bruca in alto sulla plebe
razzolante belante strisciante
gemente, la colomba
si è insuperbita da quando è simbolo divino.

Il cane odia il gatto, che odia il topo
che non odia nessuno, ma rosicchia
proprio come gli umani.

E poi ci sono io.

L’orsa bruna cammina nel ghiaccio finto
illudendosi.

Meglio di niente. Il leone si aderge
anche se non conosce la grammatica, ogni tanto
un asino raglia strani versi
singultanti. L’aquila e gli sparvieri
portano ai propri piccoli brandelli di parole
predati di qua e di là
mentre i lombrichi si moltiplicano
litigando marito contro moglie, padre
e madre contro figlio e viceversa. Una farfalla gialla
ha fatto amicizia con la farfalla rossa
e vanno confabulando a proboscide arricciata
di qualche femmineo segreto.

La colomba superba ha mangiato
il millepiedi coi talloni d’Achille, adesso
ha i bruciori di stomaco, non può digerire
e nemmeno lei è felice. L’usignola non più stonata
lancia un trillo blu e il grigiore risplende.

Domenica Luise