L’angelo Francesco Pasticcio chinò la testa e disse, con atteggiamento contrito:
< Maestà, l’ho combinata grossa, stavolta >.
La Luce Divina si intensificò ballando nell’azzurro del Paradiso ed una voce paziente rispose:
< Lo so, ho visto. Non preoccuparti >.
LUI sapeva sempre tutto e aveva sempre la parola buona. L’angelo Francesco Pasticcio tirò un sospirone. Era un ometto piccolo, compostino, che stava lì per la bontà del proprio cuore e gli alti pensieri della mente. Nella vita terrena aveva fatto il prete, teologo e scrittore. Ne aveva passate di tutti i colori.
Cincischiò con le mani la stoffa di pura lana vergine a quadrettini bianchi e celesti del proprio doppiopetto e si allentò la cravatta. LUI aveva il potere di emozionarlo sempre come la prima volta che l’aveva visto.
Al ricordo, l’aureola gli tremò intorno alla testa. Inghiottì e continuò:
< Mi è capitato stanotte, quando la poetessa si è addormentata. Voi mi avete comandato di prenderle l’anima per farle fare un bel sogno. Io, al rientro, mi sono confuso e mi è cascata l’anima della poetessa nel petto del muratore e l’anima del muratore è finita nel petto della poetessa. Il fatto è che sono vicini di casa.
< Potrebbe essere un esperimento interessante > disse LUI, < lasciamoceli stare per ventiquattro ore >, e si mise a ridere.
L’angelo Francesco Pasticcio rialzò il capo e vide che gli aveva aperto le braccia. Tutto rosso, si precipitò a volo nascondendo la testa quasi calva nella morbida barba bianca del Padre.
< E’ veramente una brava poetessa quella > considerò LUI, < cocciuta, ma brava. Mi piacciono tanto le cose che scrive >.
< E allora perché nessuno gliele pubblica ? >.
< Che vuoi, Ciccino mio > lo vezzeggiò il Padre, < anche tu, sulla terra, hai fatto lo scrittore e dovresti ricordartelo. Gli uomini sono ancora molto incivili e dicono che la poesia non si mangia. Alle carte scritte preferiscono la cartamoneta, alla riflessione la partita di calcio, così non pensano più a niente >.
< Sono proprio stupidi, Maestà > rispose Pasticcio col cuore che gli batteva forte. Strusciò contro la divina, piumosa barba come un gattino che faccia le fusa alla mamma, < io pensavo che stavolta vi sareste arrabbiato con me >.
< E come farei, piccolo? Mica li combini apposta i pasticci, ti escono spontanei > ridacchiò LUI. Era sempre allegrissimo, addirittura spiritoso e, in tutte le proprie, seriose contemplazioni terrestri, mai l’angelo Francesco Pasticcio si sarebbe aspettato che avesse un tale carattere.
Il muratore Salvatore Mattonella si svegliò che albeggiava appena attraverso le imposte socchiuse.
Sua moglie dormiva ancora, rannicchiata con un braccio appoggiato al petto di lui e la testa alta sul cuscino.
“ Le tue palpebre sono conchiglie che nascondono perle vive “ pensò il muratore, “ i tuoi pugni di bambina chiusa nel recinto del sonno, la pelle eburnea celata dal lenzuolo “.
Strani pensieri, ridacchiò, e poi, chissà cosa voleva dire “ eburnea”.
Pierina aveva una massa di riccioli e due sopracciglia molto marcate, che non aveva mai depilato in vita sua, “ Arcobaleni neri “ gli venne in mente, “ nell’aureola di carbone della chioma “.
Guardandola, respirava piano per paura di svegliarla. Lei aveva una bella bocca carnosa, rosa come un fiore, “ tenerezza del desiderio “ pensò Salvatore.
Si toccò il mento ispido per la barba e, cautamente, sgusciò giù dal letto per farsi la doccia.
Pierina si mosse nel sonno con un piccolo gemito, aggrottò la fronte e annusò il profumo del caffè che egli le aveva messo sotto il naso.
< Svegliati, mia diletta > diceva il muratore Salvatore Mattonella, < l’astro solare già percorre le celesti arcate >.
Con la bocca aperta e gli occhi sbarrati per la sorpresa, Pierina si tirò su a mezzo del letto. Tutto olezzante di bagno schiuma al pino silvestre, appena sbarbato, sorridente e servizievole, Salvatore le porgeva la tazzina fumante.
< Ma come parli ? > chiese lei,
< e poi, ti sei lavato e fatto la barba? Così, di mattina? >.
< Perché? > chiese Salvatore, < dovevo aspettare stasera? >.
< Ma tu aspetti sempre la sera, di ritorno dal lavoro. Di mattina non ti lavi mai >.
< Che sporcaccione sono > rispose lui senza approfondire, < disseta a questa coppa deliziosa l’arsura della tua bocca > proseguì porgendole la tazza, che Pierina non si era ancora decisa a prendere dallo stupore.
Mai avvenuto, in tre anni di matrimonio, che lui le portasse il caffé a letto. E poi, come parlava, oggi, Salvatore?
< Cosa dicevi della mia bocca ? > domandò sorbendo la bevanda calda, densa, perfetta.
< La tua bocca, rosa arsa d’amore tra le spine della vita > declamò il muratore, < oasi del deserto, dattero succoso, frescura e vetta tempestosa per sovrabbondanza di azzurro >.
< Che vuol dire “ sovrabbondanza “ ? > chiese Pierina, che a stento aveva fatto la terza media ed era stata promossa per anzianità.
< Non lo so > rispose lui dopo averci pensato a fondo.
< E allora perché lo dici ? >.
< Non lo so > ripeté lui, < mi viene >.
< Stai male? >.
Egli rise : < Oh, no. Sono felice. Mi sento come se un filo d’oro trasparente mi legasse ad una nuvola >.
< Ma l’oro non è trasparente e nemmeno legato alle nuvole. Che vuoi dire ? >.
< Oh, nulla, nulla > rispose svagato il muratore, le tolse la tazzina vuota di mano, le baciò molto lentamente i due palmi e l’abbracciò con passione.
< Vorrei una bambina coi tuoi capelli > le sussurrò in un orecchio, < perché una piccola voce di cristallo gorgheggi l’amore della vita >.
Per quanto Pierina arrivava a capire, le voci dei bambini non erano di cristallo come i bicchieri del servizio buono. E poi, lui non aveva mai voluto figli :
< E’ presto, quando saremo sistemati…C’è tempo, perché deve nascere in questa casa tanto piccola, voglio che mio figlio abbia tutto ciò che non ho mai avuto io… Che sia un laureato, magari dottore o ingegnere, o fisico nucle…nucleico…nuclearico… come si dice? E non un poveraccio come noi. Prima ci dobbiamo costruire la villa, ci penso io, una bella villa comoda, con tutto ciò che non abbiamo avuto mai. Vedrai, vedrai! >.
< Ma diventeremo vecchi > Pierina si imbronciava e, appena lui partiva per il lavoro, piangeva lavando i pavimenti, strigliando il bagno e mettendo in moto la lavatrice.
Lo guardò. Mai l’aveva baciata con tanta tenerezza. L’amore parve farle scoppiare l’anima nel petto. “ Vuole una bambina che somigli a me “ pensò soavemente.
Quel giorno il muratore Salvatore Mattonella arrivò con ritardo al lavoro e non seppe quale scusa trovare alle rimostranze del capo, che tuttavia lo perdonò rapidamente, poiché non era mai avvenuto prima. In mattinata ne provocò di guai, il Mattonella, sembrava quasi che avesse disimparato il suo mestiere con un colpo di spugna. Forse aveva bevuto o stava male. Anche da come parlava era strano, tanto che, nel primo pomeriggio, stanchi di vedergli scappare i mattoni dalle mani e impastare la calce annacquandola a volontà con aria completamente assente, lo mandarono a casa dicendogli di mettersi a letto, cosa che lui fece, ma con la moglie.
(Fine della prima puntata. Continua)
La poetessa Floriana si svegliò alle prime luci dell’alba col pensiero del bucato, che doveva togliere dalla lavatrice senza farcelo ammuffire dentro e di tutti gli altri panni sporchi che, subito dopo, avrebbe messo a mollo. C’era anche il letto da cambiare, “ Le lenzuola si stanno facendo nere “ pensò, la polvere accumulata, l’idraulico da chiamare per il rubinetto dell’acqua calda del bagno, che da un bel po’ perdeva la goccia.
Avrebbe scopato, lavato i pavimenti e stirato le lenzuola ammassate disordinatamente nell’armadio, c’erano anche sei o sette camicie di Camillo, parecchi pantaloni, due giacche, le proprie camicette, tre gonne, uno scamiciato e finanche il vestito di lino, tutto da stirare d’urgenza. Giornata piena, ragionò. E la spesa da fare, il frigorifero da sbrinare, il forno della cucina, poi, aveva bisogno di una pulita a fondo. La poetessa Floriana si fregò le mani dalla soddisfazione e saltò giù dal letto per la fretta di dare inizio alle pulizie, “ Farò stasera la doccia e mi laverò i capelli “ decise indossando rapidamente una vestaglietta a pallini bianchi e gialli su fondo blu, senza maniche. Camillo, al suo irruente balzare dal letto, si era girato mugugnando nel sonno, ma dopo aveva ripreso a ronfare : quel giorno sarebbe stato a scuola fino alla sera perché, nel primo pomeriggio, gli iniziavano i consigli di chiusura dell’anno scolastico.
“ Così mi posso organizzare i lavori di casa “ pensava la poetessa Floriana. Il trillo della sveglia fu seguito dal sordo brontolio di Camillo e da un allarmato : < Floriana! Floriana! >.
Lei entrò in camera da letto : < Presto, caro. Alzati e prepara il caffé >.
< Io? Ma se fino a ieri era l’unica cosa che sapevi fare. Il caffé a letto: la tua specialità firmata, il caffè Floriana, come lo chiami tu > altercò subito lui passandosi una mano nel ciuffo biondo e liscio.
“ Oggi gli compro lo sciampo per capelli grassi “ pensò Floriana osservandolo.
< E va bene, va bene > tagliò corto malvolentieri lei dirigendosi verso la cucina, e mise sul gas la caffettiera. Venne fuori un liquido anemico, inodore, incolore e insapore. Floriana ci girò dentro due cucchiaini di zucchero e, con atteggiamento orgoglioso, gli dette la brodaglia così ottenuta.
< E questo cos’è? Adesso non sai fare più nemmeno il caffé? >.
< Perché, cos’è che non so fare io? > si infiammò subito Floriana.< Nulla > gridò lui,
< stiamo in mezzo all’immondizia, alla polvere e al frigorifero vuoto, anzi, vuoto no, pieno di ghiaccio: Perché tu scrivi sempre quelle maledette poesie che nessuno ti pubblicherà mai >.
< Delle maledette poesie non mi importa più niente > costatò improvvisamente calma Floriana,
< ma che sono disordinata non lo puoi dire. Stasera ti faccio vedere io >.
Camillo infilò la chiave nella toppa con atteggiamento rassegnato. La cucina di sua moglie era, a dir poco, preoccupante. La domenica preparava la pasta asciutta col ragù in scatola, poiché era incapace di regolarsi sulla quantità c’era sempre troppa pasta e poco sugo, quella che restava veniva riciclata al lunedì sotto forma di “ Frittata Floriana “, solo che lei non la sapeva girare e così lui, nel più segreto recesso dei propri pensieri, la chiamava “ Pappa Floriana “ , se non si dimenticava il sale oppure il formaggio o le uova non era nemmeno tanto cattiva, quando non la bruciava da un lato, dall’altro o da tutti e due.
Il martedì, in genere, toccava ai fagioli in scatola, prosciutto e formaggio, mercoledì minestrone surgelato e carne in scatola, il giovedì sono di regola gli gnocchi in tutte le case dove si mangia, questo si sa. Floriana rispettava le regole: gnocchi surgelati, uovo sodo e mozzarella oppure carne arrostita, pardon, affumicata. Venerdì ceci in scatola e sogliole surgelate, sabato piselli in scatola, mortadella e formaggino, domenica si ricominciava.
“ Mi sento una scatoletta pure io “ pensò Camillo. Ed anche surgelato, si sentiva.
Quella non era una poetessa, era una disgrazia. Nemmeno la gioia di un figlio aveva saputo dargli: < C’è tempo, siamo giovani. Quando pubblicherò le mie poesie > gli aveva detto una volta, < Cioè mai > aveva urlato lui in risposta.
< Non me la sento… non saprei come crescerlo e neanche allattarlo >piangeva lei. Ci voleva tanto ad appoggiarsi sul seno un bambino. Comunque, davanti alle lacrime, Camillo cedeva subito e cambiava argomento.
Stasera l’avrebbe portata a cena fuori, non si sentiva la forza di mangiare panino e mortadella, era troppo affamato. Oltretutto il preside l’aveva pure presa con lui davanti a tutti, dicendogli che bocciava troppo e aveva blaterato che ora i genitori degli alunni avrebbero fatto ricorso e gli avrebbero forato le gomme della macchina oppure nascosto il tritolo nella scuola. In realtà il preside infuriava tanto perché, tra quei bocciati, c’erano un paio dei propri raccomandati di ferro.
Appena aprì la porta, Camillo si sentì venire incontro un soave effluvio: agnello al forno con patatine, diagnosticò. Impossibile.
In realtà, se la poetessa sapeva solo fare il caffè, il muratore, in compenso, sapeva fare tutto il resto, avendo frequentato, da giovanissimo, con buoni risultati, un corso di alta cucina in Svizzera, dove il proprio padre si era trasferito e faceva il cuoco in un albergo.
La casa era tirata a lucido e profumava di detersivo al limone. Le maniglie mandavano bronzei riflessi, < Ha tolto perfino la polvere dai mobili, oggi > mormorò Camillo, aprì tutte le luci e trasecolò guardando il lampadario : era pulito pure quello. Passò un dito sui vetri della finestra, che erano stati lavati e deodorati e scricchiolarono felicemente. Camillo si guardò il dito, che dalla prova finestra era uscito nitido, senza neanche ombra di grigiore. Restò a bocca aperta.
< Camillo, sei tu? >.
Floriana gli venne incontro : si era alzata i capelli, cosa che lui, da tempo, inutilmente le chiedeva. Gli piacevano tanto, difatti, le piccole orecchie della moglie. Indossava jeans e canottiera, la tenuta preferita dal muratore. Come mai aveva deposto le gonnellone coi fiori giganti e le camicette di pizzi, che egli aveva sempre odiato senza saperglielo dire? Così era tanto più sexy. Sulla gola le brillava il grosso zircone montato in oro che egli le aveva regalato durante il fidanzamento.
Gli andò incontro e lo strinse, per questa volta, non distrattamente. Egli percepì subito, e con sbalordimento, l’intensità dell’abbraccio.
< Sei stanco? Il bagno è pronto. Ho chiamato l’idraulico, che ha aggiustato il rubinetto >.
Con le orecchie che gli ronzavano felicemente, Camillo deviò verso la cucina, nitidissima pure quella. Non c’era in giro nessun foglietto con versi appuntati sopra né vestiti buttati qua e là. Aprì il frigorifero sperando in una birra e vide che dentro c’erano frutta, vettovaglie ed ogni ben di Dio, bottiglie di birra comprese, della sua marca preferita. Il congelatore era stato sbrinato, la carne ordinatamente divisa nei vari sacchetti, il pesce coperto con carta di alluminio.
Forse era un tentativo di seduzione, ragionò lui.
Entrò, a passo incerto, in camera da letto, dove aleggiava un insolito odore di cera per mobili. Floriana aveva fatto fuori tutti quegli odiosi poster che teneva appesi ai muri. Anche lì era stata tolta la polvere fino all’ultimo granello e, quando Camillo aprì l’armadio sperando in una camicia pulita, trovò che erano stati messi via gli abiti invernali e che tutti i suoi indumenti erano stirati e impilati ordinatamente.
< Stai bene? > le chiese un po’ preoccupato. Floriana gli era trotterellata appresso e adesso gli strofinava la testa sulla spalla.
Camillo, dalla gioia, si sentì sudare fino al ciuffo.
< Vorrei tanto un bambino coi capelli biondi come i tuoi > gli disse la poetessa. Così, all’improvviso, semplicemente, senza logica alcuna. Era evidente che non stava bene, forse non era in sé, le toccò la fronte con le mani, non sembrava che avesse la febbre, tuttavia…” Patisse un po’ più spesso di questa malattia “pensò Camillo abbracciandola con struggimento, ma a questo punto lei gridò : < L’agnello mi si asciuga troppo ! > e sgambettò, rapidissima, a toglierlo dal forno.
Egli le guardava compiere quei movimenti precisi : mai avvenuto. In genere, le rare volte che Floriana si era cimentata col forno, si era sempre scottata, stasera no.
Mangiarono. Bevvero. Brindarono. Lei aveva addosso un profumo meraviglioso e tante pagliuzze luccicanti negli occhi, dove si moltiplicavano le fiammelle delle candele che aveva messo in mezzo al tavolo.
L’angelo Francesco Pasticcio sfoggiava la divisa di gala, quella mattina : tunica di raso celeste a maniche larghe, con lunga fascia in vita, piedi nudi, aureola delle grandi occasioni. Sembrava quasi bello.
Si inchinò profondamente dinanzi alla Luce Abbagliante e disse :
< Maestà, l’ho combinata grossa di nuovo >.
< Che hai fatto stavolta, Ciccino ? > chiese la voce paziente in tono rassicurante.
L’angelo Francesco Pasticcio si fece rosso fino alle orecchie: < Maestà, vi ricordate che mi avevate ordinato una bambina bruna e riccia per la moglie del muratore e un bambino biondo e liscio per la poetessa? >.
< Ma certo che me lo ricordo > rise allegramente LUI:
< Ho sbagliato coppia, Maestà > disse il piccolo angelo in tono sommesso battendosi il petto, < mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa. Il muratore, adesso, ha un maschio biondo e liscio mentre la poetessa ha una femmina riccia e bruna. Non l’ho fatto apposta >.
< Guarda, Ciccino > disse la voce soave, < guarda come sono felici >.
L’angelo Francesco Pasticcio guardò e trasalì di gioia. Osò, infine, rialzare il capo e si buttò nelle braccia aperte del Padre, che gli sorrideva. “ Non potrò mai abituarmi al Suo amore “ pensò.
(Fine della seconda puntata. Continua)
Conclusione
L’angelo Francesco Pasticcio mosse le alucce spennacchiate.
Questa non se l’aspettava e si sentiva piuttosto a disagio.
Per tutta la vita terrena, umiliato da quel corpicciolo tondeggiante ed appena sufficiente a non farlo definire proprio nano, non aveva avuto grandi problemi di umiltà ed in Paradiso, tutti lo sanno, perfino quelli che affermano a testa alta di non crederci, cessano le tentazioni di qualunque genere. Perciò egli poteva soltanto sbalordire per quanto gli stava avvenendo là dove la schiena cambia nome.
Veniva fuori, a velocità crescente, una gran coda di pavone coloratissima e folta, addirittura sontuosa e senz’altro più grande di lui, che era piccino.
< Non voglio, non voglio > gemeva l’angioletto chiudendo gli occhi per non vedere. Ed ora come avrebbe potuto mai nasconderla al Padre, che sapeva sempre tutto, perfino il più piccolo pensiero?
< Ho fatto la coda per la vanità > singhiozzò Pasticcio, né gli venne in mente che chiunque, al suo posto, non avrebbe potuto evitarlo. Difatti la sua favola giocosa, audacemente pubblicata sul blog della prof. in pensione Domenica Luise, scrittrice di sicuro insuccesso ed aspirante poetessa, aveva ottenuto un successo formidabile.
Le visite erano aumentate giungendo a ventiquattromila, centinaio più centinaio meno, e la favola, per quanto non fosse illustrata e tantomeno cantata, aveva ottenuto più di sessanta commenti. Sempre dalle stesse persone, è vero, comprese le risposte dell’autrice, ma egli era ugualmente sbalordito che i suoi pasticci, sulla terra, piacessero tanto e si sentiva un benefattore dell’umanità per averne fatto ridere alcuni togliendoli, per pochi minuti, ai propri guai.
Perché anche i maschi, di nascosto, leggevano le favole della Luise e ridevano a crepapelle.
< Mi vergogno tanto > mormorava affannato Ciccino raccattando fiocchi di nuvole e coprendo le piume che sbucavano all’impazzata.
Avrebbe pianto volentieri, ma in Paradiso ogni lacrima è asciugata e non gli era più possibile.
< Cosa dirà, cosa dirà LUI > mormorava parlando da solo com’era sua abitudine. Un’angioletta di tre anni, che stava intrecciando una ghirlanda di cristalli di neve, lo vide e gli rise in faccia incominciando ad accarezzargli le piume della coda.
Portava la scriminatura nel centro della testa, due fiocchetti di taffettà le dividevano i boccoli bruni appena scompigliati dal vento o afflato che sempre aleggia lassù. Indossava un vestito di lana giallo e marrone tutto ricamato a fiorellini multicolori da una certa zia Maria, che sulla terra le aveva voluto bene, scarpe e calzette bianche.
< Com’è bella, com’è bella > diceva, < la voglio anch’io >.
< Te la regalo > rispose Pasticcio sperando che, poiché in Paradiso ogni desiderio è appagato, la coda gli si staccasse e cambiasse proprietario.
Che ciò non avvenisse lo sorprese non poco. Per la prima volta in vita sua, compresa quella terrena, si sentì un grande peccatore.
Il suo cruccio era stato anche questo: non aveva niente o quasi di cui pentirsi. Così pensava di non avere il dono della conoscenza dei propri peccati e si pentiva amaramente nemmeno lui sapeva di che cosa.
Una caramella mangiata in quaresima, un giudizio severo su di un alunno svogliato ( aveva insegnato teologia biblica all’università ), soprattutto le arrabbiature coi propri editori, uno peggio dell’altro per avidità, gli sembravano peccati insormontabili. Il Padre, appena l’aveva visto arrivare da lontano, tutto pentito, rosso e a occhi bassi, gli aveva subito fatto l’incontro e l’aveva rassicurato che sì, era proprio accolto in cielo per sempre, lui così piccino ed incapace anche di un peccato serio.
E poi bisognava vedere come si era messo a ridere abbracciandolo.
< Forse riderà pure della coda > mormorava Ciccino singhiozzando senza lacrime.
Il fatto è che tutti scrivevano alla Luise chiedendo a gran voce il seguito della storia e questo l’aveva come ringalluzzito, lui che in terra alzava gli occhi soltanto per guardare il Crocifisso.
La coda, finalmente, aveva smesso di crescere, del resto più grande di così l’avrebbe trascinato di nuvola in nuvola.
Il seguito della storia era semplice: aveva rimesso a posto le anime dopo le ventiquattro ore di sperimentazione stabilite dal Padre e i due proprietari avevano ripreso le buone abitudini: il muratore impastava calce e cemento come se non avesse mai fatto altro nella vita e la poetessa appuntava versi dovunque: tovaglioli di carta, ricevute dei pagamenti del supermercato e perfino carta igienica quando capitava.
I due bambini crescevano sani ed urlanti e tutti ne erano orgogliosi, specialmente le nonne, che non potevano staccarsi dai nipotini con la scusa di aiutare e i nonni, che non potevano staccarsi né dalle mogli né dai nipotini anche se si limitavano a leggere il giornale e vedere la televisione negli intervalli fra un pasto e l’altro.
Adesso fra poco il Padre sarebbe sceso nel giardino dell’eden a passeggiare: dai tempi di Adamo ed Eva era un’abitudine alla quale non aveva mai rinunciato.
Tutti si radunavano a fargli festa e nessuno aveva code di pavone appiccicate lì dove stava la sua.
C’erano angeli con ali multicolori, specialmente gli arcangeli, ma nulla di più.
< Sono un caso anomalo > mormorò Francesco Pasticcio cercando di infilare un ultimo batuffolo di nuvola su una piuma rosso squillante.
Si diresse, volando a stento, verso l’eden, arrivò per ultimo e tutti lo stavano aspettando, compreso il Padre, seduto comodamente su un divanetto biposto di nuvole giallo oro.
< Ciccino >, disse festosamente, < vieni a sederti vicino a me >.
< Io? > sbalordì il piccolo angelo.
< Tu sì, ti ho chiamato >.
Non si poteva ribattere. Egli obbedì, ma per sedersi dovette raccogliere la coda e metterla da un lato. Tutti videro e fecero : < Ohhhhh….>.
< Ciccino > disse il Padre ridendo, < cosa porti lì dove la schiena cambia nome ? >.
Tutto il Paradiso si mise a ridere appresso al Padre.
< E’ una coda di vanità pavonesca > rispose mortificato il piccolo angelo, > si può togliere, per piacere ? >.
< Veramente è venuta bene > rispose il Padre, < robusta, colorata, scintillante pure. E come mai sei diventato vanitoso? >.
< Maestà > rispose Ciccino sempre a occhi bassi, < voi sapete in che modo gli editori, sulla terra, si sono approfittati di me. Adesso la mia favola, sul blog di Domenica Luise, è piaciuta a ….>
Stava per dire a tutti, ma si frenò. < A molte persone, volevo dire ad alcune signore forse perché vogliono bene alla scrittrice o gli fa pena >.
Si imbrogliò del tutto, ma tentò di proseguire:
< Insomma vogliono sapere il seguito della storia, se il muratore rimane poeta e la poetessa donna di casa >.
< E gli racconterai anche della coda? > scherzò il Padre aprendogli le braccia.
< Liberatemene, maestà, o sarò costretto a piangere qui dove mi trovo > gli sussurrò Pasticcio in un orecchio.
< Ciccino, nessuno piange in Paradiso > gli rispose il Padre sempre all’orecchio.
Allora il piccolo angelo osò stringerlo a sé: < Fate quello che volete, maestà > gli disse, < vi amo immensamente. Fate di me quello che volete >.
Il Padre lo fece accomodare seduto come un bambino su una sua gamba e rispose: < Lo vedi come voli sbilenco con queste ali così piccole e spennacchiate pure ed una coda così grande ? >.
< Toglietela, maestà, fate come volete, maestà > ripeté Ciccino affondando il naso sul petto del Padre.
< Allora ti darò ali adatte alla coda, grandi e sicure. Ti promuovo angelo di prima categoria >. Lo guardò meglio: < e ti faccio diventare più alto e più magro, che così mi sembri un poco bruttarello per essere un’anima del Paradiso. Ti ricresceranno anche i capelli del tuo colore naturale.
< Ma a che titolo tutto questo, maestà? > chiese Francesco Pasticcio trepidante e, bisogna dirlo, felicissimo di una tale soluzione, ma soprattutto sollevato che il Padre non ce l’avesse con lui, anzi addirittura lo promuovesse, cosa che mai si sarebbe aspettato ed alla quale non aveva nemmeno pensato.
< Per la tua umiltà > rispose il Padre attirandolo a sé. Ciccino provò una delizia spirituale indicibile e si sentì come un fiore che sboccia.
Domenica Luise