Sto scrivendo un racconto del quale, al momento, conosco soltanto il titolo: Teste di rapa.
Seduta in bagno, che è l’unico posto intimo e richiudibile della casa, cautamente, sfilo dal cesto dei maglioni sporchi la penna e il quaderno che ci ho nascosto una ventina di minuti fa. Ho impiegato una vita ad abituare marito e figlie a piegarli tutti a parte. Sospiro di soddisfazione ed apro il quaderno.
Veramente dovrei intitolarlo Teste e testine di rapa. Le testine sono le tre figlie, che intanto rumoreggiano selvaggiamente intorno al tavolo buono del salone perché, dicono, stanno studiando. E’ l’intervallo fra la fine della cena e l’uscita serale, un’ora di studio.
Mio marito ha dovuto lasciare la cena al primo morso perché l’ha chiamato la nipote di Federico, <Sembra polmonite, è vecchio, debbo correre> ha detto accavallando le parole in fretta, si è asciugato la bocca col tovagliolo di carta, ha dato uno sguardo allo sformato di verdure che così passionale nei miei confronti non gliel’ho visto mai, ha preso la sua valigetta ed è schizzato fuori dalla porta, allampanato e un po’ pallidino, quasi verdastro. Un cespo pure lui.
Si sa com’è la vita dei medici, di quelli bravi, voglio dire. Lui, in vita sua, non ha mai staccato il telefono nemmeno quando ha l’influenza, dà consigli a dritta e a manca con voce rauca e bassa, talmente sensuale, gli dico io per farlo ridere. E difatti ogni volta lui ride, si illumina e mi tira sul suo petto.
Chissà come fanno a promuoverle, le testine, è un mistero per me. Quando vado a scuola a parlare coi professori è sempre la stessa storia: Lucia, la grande, terzo liceo classico, non vuole saperne di latino e greco e disegna sempre sotto il banco. E’ bravissima, afferma la prof., appunto, di latino e greco, naturalmente in disegno, apre una carpetta di cartone blu e mi sventaglia il proprio ritratto, che la ruffiana le ha regalato. E’ nitido, col tratteggio sicuro di un vecchio artista e mi rivedo ragazzina, al liceo classico anch’io, ahimè, mentre sotto il banco scrivo le prime poesie d’amore e faccio il ritratto ad un altro cespo, che mi affascinava socchiudendo gli occhi blu come la carpetta della prof.
Resto a bocca aperta fissando il foglio.
Questa figlia ne ha preso da me. Poveraccia.
In quanto alla mezzana, Maria Chiara, primo liceo, idem come sopra: la prof., stavolta, mi esibisce un acquerello, cielo, mare e due gabbiani in volo, opera indiscutibilmente semplice, ma ci sono dieci azzurri diversi, che si intrecciano con gialli, viola e carminio d’incanto non stridenti.
La molto preparata prof. di latino e greco ha ancora una freccia al suo arco:
< E questo l’ha fatto la sua figlia più piccola >. Tira fuori dalla carpetta il terzo foglio d’album col gesto di un gioielliere mentre esibisce il collier di brillanti all’acquirente.
Floriana frequenta il quarto ginnasio, guarda sempre fuori dalla finestra mostrando il minimo interesse per qualsiasi materia ed il suo prof. di lettere, l’altro ieri, le ha confiscato un disegno astratto, vortici che diventano fiori e fiori che diventano mostri che a loro volta si sciolgono in vortici. L’opera sembra eseguita coi pennarelli colorati. Forse, però, è una tecnica mista, ci ha buttato dentro pure le cere. Buttato dentro è l’espressione giusta.
< Signora, ma perché le ha iscritte al liceo classico?> chiede la prof. con un sospiro.
< Ormai la più grande ha finito > mormoro illogicamente.
< E le altre due? E Floriana? >.
< Mio marito dice che il liceo classico, oggi, è l’unica scuola a dare una solida preparazione letteraria > declamo.
< Signora > risponde la prof. mettendosi a ridere, ed all’improvviso sembra una ragazza, < dipende dai professori che incontrano, non dalla scuola. Mi promette che le manda tutte e tre all’accademia di belle arti? >.
Prometto con entusiasmo.
Dalla finestra del bagno entra una luce intermittente, è l’insegna rossa e celeste dell’hotel di fronte, il chiasso in salone è diventato uno strano silenzio illogico. Le testine si stanno agghindando perché alle ventitrè, mezz’ora più, mezz’ora meno, arrivano i rispettivi “fidanzati” per la discoteca del sabato sera alla quale il cespo ed io ci siamo dovuti rassegnare. Ai miei tempi, due o tre secoli fa, passavo il sabato pomeriggio a pulire tutta la casa, la sera ero esausta e dormivo appena intravedevo il letto, la domenica mattina io, mamma, papà e mia sorella andavamo a messa, insieme occupavamo un intero banco proprio accanto all’orrido ceffo di un satana oleografico, sul quale un S. Michele arcangelo roseo e pingue calcava il piede minaccioso. Il pomeriggio al cinema, ed era il massimo sollazzo settimanale. Di ritorno commentavamo il film ed anche nei giorni seguenti, quando pranzavamo.
Come eravamo felici.
I fidanzati non erano, quasi, nemmeno pensabili, stavano a scuola, celati fra i banchi, con le orecchie rosse, la balbuzie da emozione e la rosa strappata di nascosto dal giardino pubblico passando al mattino.
Ballare era quasi peccato.
La chiave gira nella toppa, aspettavo questo segnale d’allarme , è tornato testa di rapa padre ed ora le testine devono affrontarlo coi rispettivi fidanzati prima dell’uscita.
Con un sospiro rimetto quaderno e penna nel cesto dei maglioni sporchi, non ho scritto un rigo. Apro la porta del bagno, Testa di rapa mi dà le spalle.
Le figlie sono in fila davanti a lui, che controlla i centimetri delle gonne, la trasparenza, il dito di trucco, le ciglia infinite, annusa perplesso la nuvola di profumo che emanano, china gli occhi sulle calze nere traforate, i tacchi a spillo e le cavigliere d’argento coi campanellini rotondi.
< Come siete belle > sento che dice con voce strozzata, subito interrotta da un imperioso squillo del campanello.
Entrano i fidanzati ed ognuno si dirige verso quella sua. Le ragazze squittiscono:
< Andiamo in bagno e siamo pronte >. L’operazione è rapidissima,
< Ciao, mamma, ciao, papà >. Escono in fretta.
Testa di rapa resta un attimo con le braccia penzoloni, si gira lentamente verso di me: < Sono indecenti > alita.
Nemmeno il tempo di tirare il fiato e squilla di nuovo il campanello, sono tutti loro ammassati dietro la porta, Floriana brandisce con una risata a trecento denti il mio quaderno e la penna:
< Li ho trovati nel cesto dei maglioni sporchi, cercavo qualcosa da mettermi, sono tuoi? >. Domanda retorica.
< Perché lasci sempre in giro penne e quaderni nuovi? > chiede Lucia.
Cambio discorso abilmente: < Floriana, perché cerchi “ qualcosa da metterti “ in mezzo ai maglioni sporchi anziché nel tuo armadio strapieno? >.
Piccolo coro delle testine: < Perché non abbiamo più niente >.
I fidanzati sghignazzano.
Prendo il quaderno intatto e la penna nuova. Prima o poi scriverò quel racconto. Forse.
Domenica Luise