Rose della roccia

Rosa della roccia

Talvolta siamo lava che scioglie la pietra
e rose nate contro natura, stillanti
con le radici nel fuoco che non consuma
e strana vita imprevista. Nati
dalla corona di spine, cresciuti con cuori secchi, ma
all’improvviso questo fiorire
e ci guardiamo, come possono petali
tanto delicati
resistere in questa guerra perpetua
dentro, fuori e intorno? Quale potere
ha la primavera, il rialzarsi
nella Pasqua di Dio, quella vera
nuda e cruda, un boccone di pane
e null’altro. La poesia umana
non è nelle vaghezze e nemmeno nelle stranezze
o nella furia della natura: è dentro
al di là delle parole e delle forme, dove
ci smarriamo deliziosamente e vediamo, noi
drogati dalla parola e dai colori e da questa
invincibile pienezza. La fanciulla giocosa
si diverte a piedi nudi sui carboni accesi.

Domenica Luise

(Fotomontaggio fantasticato da Domenica Luise)

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Gli zoppi balleranno

vergine addolorata

Lia era nata così: la gamba destra piegata ad angolo, senza articolazione, e il piede storto verso dentro. Camminava su una specie di stampella che le aveva intagliato il papà e saltellava pure su e giù per le ubertose valli dove frequentemente ruzzolava e la rompeva, ogni volta il papà buttava due strilli, ma poi gliela rifaceva subito con un altro pezzo di legno , che non doveva essere né troppo fragile né troppo grosso o la ragazzina, essendo smunta, non l’avrebbe potuto trascinare. Ci volevano un pomeriggio di ricerche per il legno giusto, una serata col coltello a raschiare accanto al fuoco, e l’indomani, al suo risveglio, la gruccia nuova sarebbe stata pronta.

Lia era sempre distratta e si comportava come una bambina ancora piccola né si accorgeva di come le sue coetanee le ridessero dietro e avanti mentre i coetanei ci provavano, ma lei nemmeno se ne accorgeva.

“Questa figlia mi resta zitella a stentare”, pensava sempre la mamma.

Quel giorno la giornata era più azzurra che mai, gli ulivi, le colline, il fiume e il paesaggio di sempre scintillavano. Uscì salterellando con attaccato alla spalla un tovagliolo di quelli buoni, che guai se la mamma se ne accorgeva, dentro ci aveva messo il pane, l’acqua e la sua bambola preferita (e unica) di quand’era piccola, di pezza, con gli occhi ricamati tristi e la bocca rossa.
Non era stagione di frutta selvatica, cosa avrebbe mangiato col pane?

-Figlia- disse alla bambola, -siamo povere-, e per consolarla la baciò dopo essersi guardata furtivamente intorno per paura che qualcuno la vedesse.

Sulla collina c’era una gran folla, tutti ad ascoltare un profeta che predicava, quel Gesù.
Era carino e, quando sarebbe stata appena un po’ più grande, lo avrebbe seguito come gli apostoli, sempre con lui.
Forse si sarebbero sposati e avrebbero avuto bei bambini come tanti altri.
Si mise a correre e sgomitare per andargli più vicino possibile, la folla la strizzò e qualcuno le fece lo sgambetto volontariamente o involontariamente, non sapeva.
La bambola si spaccò contro uno spuntone di roccia e uscì la segatura che l’imbottiva, così tutti videro che non era una vera bambola, ma un tentativo casalingo fatto di stracci. Capì che non era riparabile e si sentì ridicola per averci giocato fino a undici anni.

-Ti sei fatta male?- Gesù aveva raccolto la bambola da terra, era decisamente morta, poverina (pendeva dissanguata con gli occhi non solo tristi, anche disperati) e si chinava su di lei con un atteggiamento che pareva la mamma. Lia si commosse e, senza volere, le uscirono due lacrimoni.
-No, sono felice- rispose.
-Neanche la tua bambola si è fatta male- disse Gesù porgendole lo straccetto che continuava a perdere segatura,
-anche lei è felice- continuò.
Lia prese la bambola che, improvvisamente, era nuova come se l’avessero appena imbottita e gli occhi ricamati non erano più tristi, anzi ridevano felici. Felicissimi.

-Adesso ti puoi alzare- continuò Gesù. E rideva pure lui.
Lia tornò a casa con la bambola e la gamba nuove, saltando di suo e senza stampella, della quale non vi fu più bisogno.

Crebbe, divenne bella e si fidanzò. Conservò sempre la sua bambola. Erano passati due anni dal giorno del miracolo.
-Stanno ammazzando il profeta che ti ha guarita- gridò suo padre.
-Perché l’ammazzano, che ha fatto di male?-
-Dice che è contro i romani e ha creato una setta per rovesciare il governo accumulando armi e delinquenti pagati per uccidere, dice che mangiano i bambini dei romani a cena, quando ne rapiscono-.

-Non ci credo-. Lia, in tutta la sua vita, non aveva mai alzato tanto la voce e i genitori non poterono fermare la sua corsa sul Calvario dietro a Gesù.
Sgomitando gli arrivò vicina, gridava:
-Sono io, Signore, sono Lia. Mi vuoi sposare?-.

Egli cadeva sotto la croce e si rialzava. Faceva pena e aveva bisogno di acqua. Sembrò che per un attimo la guardasse negli occhi.
-E vattene, cretina, togliti dai piedi, che dici?- fece uno dei soldati occupati a fustigarlo per farlo muovere. E le diede un calcione.
La gamba destra, così bella e sana, si piegò come prima, senza articolazione, e il piede si torse verso l’interno. Lia cadde svenuta per il dolore.

Nessuno se ne accorse e le ore passarono, quando riprese i sensi c’era buio fitto e tutti gridavano:
-È morto, è morto-.
-È la fine del mondo-.
-Signore, perdonaci, abbi pietà di noi-.
Anche i soldati avevano paura e molti scapparono qua e là senza sapere dove rifugiarsi.

Quando il fidanzato vide cosa le era successo e come ormai fosse nuovamente ridotta, la lasciò subito perché, disse, la sua famiglia era contraria che si pigliasse un’invalida. Ma per Lia fu un sollievo: le bastava, piuttosto, il ricordo di Gesù.
Nessuno seppe mai, nemmeno la mamma e il papà, che cosa fosse successo tra quei due dopo che lui risorse da morte, di sicuro fu che al dito di Lia apparve un sottile filo come di luce, che sembrava d’oro, ma non era.
-Un regalo-, faceva lei a occhi bassi quando qualcuno chiedeva. Non lo nascondeva e non lo esibiva, ma nessuno glielo poté mai sfilare dal dito, nemmeno la mamma e il papà, curiosissimi, che ci provarono più volte mentre dormiva.

Quello che sorprendeva in una povera zoppa era quella strana gioia costante, come se avesse una speranza ben più alta della salute perduta. Gesù l’aveva guarita una prima volta quand’era ancora bambina ed era tornata zoppa da signorinella, perché non guarirla di nuovo?

Ma nel momento della morte, quando ormai Lia era vecchia, rugosa e sempre più tremolante , vide Gesù, che le disse:
-Lia, mi vuoi sposare?-.
E ballarono insieme.

Domenica Luise

(Disegno a china eseguito da Domenica Luise)

 

 

 

I misteri dell’Ermetismo, le deformazioni

Sole

I sogni deformano la realtà, che siano a occhi chiusi o aperti, coscienti o incoscienti. La poesia dice i sogni e quindi le deformazioni. A questo servono le metafore, ad andare oltre.
Se le creature dei miei quadri ballano tutte, compresa l’erba, a me non importa nulla che una gamba si allunghi oltre misura quando mi serve a dare la levità del volo. Nemmeno Modigliani risparmiò la lunghezza dei colli, quegli strani occhi velati, magari un po’ storti: forse aveva un difetto di vista o si era drogato o era disperato o si sentiva tremare, certamente non era compostino e sicuro di sè. Era l’uomo turbato, il che mi pare magnifico, ma soprattutto non aveva bisogno di copiare da nessuno il proprio stile..
E se nei miei quadri il naso c’è o è sottinteso è secondario: lascio l’essenza della forma oltre la se stessa reale.
Non dipingo e non scrivo così perché butto pittura e parole a casaccio, ignorantemente. Dal lato tecnico, è ovvio, conosco meglio la lingua italiana della prospettiva e tanto meno m’intendo di musica malgrado i miei gorgheggi a tutto spiano del passato. Ho dato ciò che avevo, di più non sono capace.
Chi mi capisce è bravo, ma nessuno può capire me, nemmeno io stessa.
Faccio parte dell’Ermetismo: una pentola a pressione in cui la poesia è la valvola di scarico che mi impedisce di schiattare.
Sono deforme come la mia pittura, la mia poesia, la mia prospettiva e i miei canti.
Gli impressionisti come Monet e Degas hanno trasformato il movimento in aria e luce; Dante, nell’Inferno, ha solidificato la parola in carne e cacca (ed elli fatto avea del cul trombetta, tanto per citare un verso a caso, XXI, verso 139, quando Barbariccia dà ai diavoli l’avanti marsch con un peto), l’ha illuminata di barlumi soavi  nel Purgatorio ( I canto, verso 13: Dolce colore d’oriental zaffiro) e l’ha resa abbagliante nel Paradiso compiendo il passaggio dalla luce fisica a quella intellettuale dello spirito profondo. Ungaretti ha trasformato la guerra in parola e lamento universale. E tutte le parole di tutti i poeti, quelli veri, noti e ignoti, sono radicate nel silenzio che le genera e più profondo il silenzio più le parole fanno centro nel silenzio dei cuori che leggono. Da solitudine a solitudine fino alla solitudine corale. Siamo soli perché siamo unici, ma contemporaneamente insieme, accanto, abbracciati, eppure sempre soli per diversità di mente, gusti, pensieri, fede, convinzioni, tradizioni, lingua e magari anche piccole superstizioni. Tutti deformi, anche quelli precisini.

Domenica Luise

(Elaborazione grafica di Domenica Luise)

Preghiera per la donna

Mimosa 2

Al Dio segreto nel nostro
profondo più profondo: io ti ringrazio
per avere inventato la donna
così romantica, talora perfino ingenua
capace di illudersi dopo ogni delusione
di perdonare l’imperdonabile
e sperare malgrado tutto. Noi
abbiamo bisogno degli uomini, anch’essi
invenzione ed evoluzione divine, ma
li vorremmo a nostro modo. Anch’essi
vorrebbero le donne a modo loro
senza mimosa per forza o mettiamo il muso
ed ogni giorno c’è una buona ragione per litigare
tu sei taccagno e tu sprechi i soldi
tu sei sempre arrabbiato e tu sei una lagna continua
e le bugie…il cappotto della boutique
che diventa uno scarto del mercato
o altrimenti succede la scenata e per oggi
che è l’otto marzo
il cesto di rose gialle striate di rosso alla segretaria
così bella, garbata, mai assente
e alla moglie una sbuffata e un rametto
se c’è
comprato alla bancarella.

Pranzo di gala, è festa, e quanti silenzi
stanchezze dimenticanze. Non sono cose importanti.
Domani si ricomincia. C’è di peggio
dopotutto non ci siamo ancora ammazzati, i telegiornali
sono una vergogna
e quale civiltà? Dove sei
o Dio ignoto d’amore ignoto?

Domenica Luise

(Fotografia di Domenica Luise)

Favola per nessuno

Creatività, Concretezza e Fantasia erano le tre amiche di Poesia, le uniche alle quali, ne era sicurissima,  avrebbe potuto, volendo, dire tutti i suoi segreti, essere ascoltata e, da ognuna, ricevere una risposta opportuna del tutto sincera.
Creatività era una ragazza semplice, tipo mediterraneo, portava sempre uno chignon alto, con trecce da cui dipartivano altre trecce irregolari e, da un lato solo del volto, una frangia lunga a boccoli larghi, com’era di gran moda in quel momento. Vanitosissima, si cambiava d’abito più volte al giorno e aveva inventato, con scialli, sciarpe, fiocchetti, fiocconi e frange arrotolati intorno al corpo, come trasformare in capi d’alta moda i suoi tubini di lunghezze varie secondo gli impegni e incontri della giornata. Difatti faceva la stilista.
Concretezza era una brunetta corta rasata fin sopra le orecchie, sul cocuzzolo portava un ciuffo liscio e irto di gommina che lo tenesse su a cresta di gallo, anzi di gallina.  Era un’avvocatessa dalla mente lucida e razionale,  seguiva la politica interpretandola dall’inglese, dalle sigle e dalle parole a raffica urlate o smozzicate di tutti i telegiornali e programmi vari televisivi e te ne faceva un riassunto  chiaro, semplice e spietato sicché, in due parole, capivi tutta la situazione nazionale e internazionale. Per Poesia, che non capiva nemmeno se stessa, era un grande aiuto. In quanto a Fantasia era una creatura sognante, capace di trasformare gli eventi piccoli e grandi della vita in avvenimenti esaltanti: Intanto i capelli color topo, lavati nell’arcobaleno, erano diventati fiamme di luce varia assolutamente improbabili su qualunque testa umana, gli abiti, che il volgo comune definiva indecenti, appiccicati sul corpo sottile, ma ben definito: petto in fuori, pancia in dentro, culetto pimpante, gambe lunghe, sode e con due ginocchia, dico due, che sembravano conchiglie rosa a nascondere perle rare e uguali. Gli occhi saettavano e colpivano al cuore maschi e femmine con frecce di Cupido accecanti sicché non ne distinguevano nemmeno il colore, forse erano verde scuro, no, c’erano dentro scintille turchesi e dorate, con riflessi neri, azzurro intenso e blu elettrico, ma che dite? Viola come quelli della buonanima di Liz Taylor, che riposi in pace. Viola scuro e chiaro con pagliuzze di opale. Adesso vi faccio uno scoop: Fantasia faceva l’illusionista al teatro Massimo sicché ognuno vedeva quello che voleva, in realtà i suoi occhi erano color topo come i capelli e non era nemmeno tanto alta né soda con le conchiglie rosa al posto delle ginocchia, aveva le ossa e la pelle come tutti noi e certe volte piangeva di nascosto quando si sentiva delusa e stranamente invidiata.
Poesia era la più originale e la più strana del quartetto, anche per i colori sgargianti coi quali talora si vestiva (“Mi sembri un carretto siciliano”affermavano le tre amiche del cuore sincere come sempre, questo si sa) alternandoli con abiti funerei e un mantello di velluto nero che le copriva anche la testa col teschio sulla schiena ricamato in filo di lurex argento (“Mi sembri la morte in vacanza” dicevano stavolta le amiche del cuore, sempre sincere). Poesia, ormai in pensione da alcuni anni, era stata professoressa di lettere al liceo e non si può immaginare quanto ridessero i ragazzi ogni volta che compariva in classe acconciata così o cosà, un giorno si tolse perfino le scarpe perché disse che soltanto a piedi nudi si sentiva perfettamente libera, però ridevano sottovoce perché se quella si arrabbiava e incominciava a interrogarli con l’analisi logica e del periodo della Pentecoste di Alessandro Manzoni oppure di A Zante del Foscolo non se ne sarebbe salvato nessuno tranne una certa Maria, appassionata della lingua madre e, come Poesia sperava, sua erede artistica su questa terra dura e bella. Perché Poesia osava sperare le cose più assurde e certe volte tanto se le sognava che sembravano vere, poi si risvegliava mentre gli allievi, magari, se ne approfittavano e facevano chiasso e pensava che al mondo mai nessuno le avrebbe voluto bene.
Quando fu chiaro che la sua poesia ed anche la sua pittura importavano soltanto a lei e a nessun altro al mondo, Poesia incominciò a dimagrire stranamente perché non le calavano più né gli antipasti colorati di Creatività né il melone con gli spiedini di banane, kiwi e fragole di Fantasia e tanto meno i fagioli con le cotiche di Concretezza sicché passò dalla taglia 52 alla 46, sia pure abbondante, e poiché intanto era anche diventata povera per avere tutto dato e nulla chiesto, incominciò a rimettersi i propri vecchi abiti, almeno quelli che non aveva avuto ancora il tempo di impacchettare per la Caritas, e le stavano di nuovo bene, solo le pendevano dalle spalle, che le si erano rincantucciate per l’età e i dolori dell’artrosi e, quando camminava, faceva cric e croc in tutte le articolazioni dalla noce del collo ai polsi e, talora, anche alle dita dei piedi. Si trascinava col bastone sempre accompagnata e sostenuta pensando a quando andava e veniva a piedi dal mercato nel paese vicino e se lo girava tutto oppure usciva solo per comprare il sacchetto di croccantini ai gatti o partiva in treno e viaggiava di notte da sola da Messina a Roma e, in hotel, telefonava, comodamente sdraiata nel letto della sua stanza, alla persona cara che l’aspettava facendosi dare la linea dalla hall perché allora non c’erano i telefonini e i computer erano cose avveniristiche improbabili e si sentiva una principessa libera dalla corte. Così ricordava e si vedeva adesso, a fantasticare fino all’ultimo queste favole per nessuno.

  Domenica Luise