L’agnellino

Samuele l’aveva trovato ferito accanto a una grossa pietra e l’aveva portato a casa.
<Questo piccolo ha bisogno di latte, sennò muore> disse il papà, <chiederò al padrone se posso tenerlo nel suo gregge, forse abbiamo fortuna e qualcuna delle pecore madri l’accetta>.
La mamma scosse la testa poco persuasa: <Ma poi il padrone se lo terrà lui> affermò steccando e fasciando la zampetta rotta all’animale, che si lamentava come un bambino piccolo.
Samuele seguiva il discorso senza intervenire, ma i suoi occhi neri come il carbone guizzavano attentissimi dal padre alla madre e viceversa.
<Il mio padrone è un uomo giusto> fece lui, <e ha stima di me. Salverò l’agnellino e te lo porterò> promise.
<Grazie, papà> disse infine Samuele con voce un pochino rauca. Sorprendentemente l’animaletto leccò la mano al bambino, poi dette un sospiro come di sollievo, reclinò la testa e subito si addormentò.
Crebbe allattato da Albachiara, la pecora più bella del gregge, che lo accettò subito senza problemi. Quando fu svezzato il padrone chiamò il pastore e gli disse di prendere l’agnello per il suo bambino. Quel giorno, nella misera casa, fu festa grande, la mamma impastò una focaccia tutta coperta di miele e ne mangiarono quanta ne vollero. Da allora l’agnellino dormì in casa con loro e divenne una pecora opulenta, che seguiva sempre il bambino.
Erano felici e non pativano mai la fame. Il padrone era generoso e, da qualche tempo, Samuele andava ad ascoltare le prediche di Gesù, con la pecora appresso.
Una sera non si ritirarono, lo trovarono in un dirupo sul quale si era sporto  per raccogliere la verdura selvatica che piaceva alla mamma. Era morto, con la pecora accanto che belava lamentosamente.
Una piccola comitiva di amici e donne che si battevano il petto portava a casa il cadaverino quando incontrarono Gesù coi discepoli.

<Donne, perché piangete? Uomini, cos’è accaduto al bambino?>.
<Maestro> la madre e il padre gli si buttarono ai piedi, <è caduto nel precipizio ed è morto, è morto>.
<Che dici? Gli è soltanto preso un colpo di sonno> fece Gesù, e toccò il piccolo con la mano, Samuele si dimenò, balzò in piedi e chiese a sua madre:
< Chi mi ha rubato la verdura che avevo raccolto per te?>.
Anche quella sera fu festa grande e bisognava vedere come saltava la pecora. Si improvvisò una cena  e tutt’intorno alla povera casa amici, conoscenti e anche quelli che mai avevano sentito parlare di loro prima di quel giorno venivano a portare pane, formaggi, ricottelle , frutta, miele e tanta verdura selvatica, così mangiarono insieme e bevvero un po’ di vino buono, che volle donare il padrone, compresi Gesù e i discepoli.
< Cosa darò al maestro , che ha restituito la vita al mio bambino?> chiese il padre alzando il terzo bicchiere colmo, o era il quarto?
<La nostra unica ricchezza è la pecora, così potrà mangiarla per la Pasqua>.
I discepoli incominciarono a ringraziare e corsero a prendere la pecora, che li seguì obbediente. Samuele, nel sentire il discorso, si stava affogando con un boccone di pane e ricotta che masticava in quel momento. Voleva dire <No, no>, ma non poté perché era troppo occupato a tossire.
Gesù accarezzò la pecora sulla testa e lei gli leccò la mano, gesto che riservava soltanto al suo padroncino. Docilissima, gli poggiò il muso sulle ginocchia . Gesù guardò Samuele occhi negli occhi:
<Noi non mangeremo la tua pecora, piccolo> disse con disappunto degli apostoli, <questa vi darà latte e lana a lungo e tanto affetto>.
Dopo Gesù si chinò all’orecchio di Samuele e gli disse sottovoce:
<Venerdì prossimo mi crocifiggeranno. Non dirlo a nessuno , ma vai dalla mia mamma e consolala. Io l’affido a te, ricordale che risorgerò il terzo giorno come oggi sei risorto tu>.

Domenica Luise

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I pastori del Natale che viene

 Sacra Famiglia

A mezzanotte, mentre i bambini dormivano sazi di panettone e papà faceva l’amore con la mamma perché l’indomani era Natale  e non dovevano alzarsi all’alba, si sentiva solo schizzare qualche macchina, poi le statuine del presepio incominciarono a stiracchiarsi.
<Ragazze, ma lo sentite quest’accidenti di freddo?> brontolò un vecchio montone alle sue mogli, <Sissignore, che freddo, che freddo> lo assecondarono le pecore belando in coro.
<Amore, ti preparo una minestrina bollente?>.
<Ma no, ma no, è meglio una bevuta e un sigaro, corro a prendere il vino dalla botte>.
<Che dici? Qua ci vuole un bel massaggio sulla nuca e ti rimetto al mondo, spogliati che vengo>.
<Ma perché non puoi dormire, tesoro mio? Cosa succede stanotte? Poi domattina non hai la forza di stare sulle zampe e lo sai quant’è rabbioso il tuo capoufficio>.
<Ma domattina è Natale, non si lavora>.
<Invece sono tutte storie per farti compatire, va bene che ormai sei abbastanza decrepito e da pensione>.
<Coi nostri governanti che ci spremono? Adesso, mogli mie, quando viene quella sanguisuga a chiedere i soldi che cosa gli diamo, un po’ di fieno? Gli dovrò consegnare stipendio e tredicesima>.
<Ma che fa, ce la danno anche quest’anno la tredicesima?>.
<E sennò con che cosa paghiamo le tasse e l’imu dell’ovile? E va bene, noi siamo pecore di speranza, forse fra duemila anni tutti questi problemi non ci saranno più>.
L’ariete controllò allo specchio grande dell’ingresso se le sue corna fossero abbastanza lucide o avessero bisogno di una ulteriore lisciata, poteva scegliere la preferita tra quelle mogli servizievoli, ma che pazienza ci voleva. Femmine, inferiori ai maschi da sempre e per sempre, deboli, lagnose, benché discrete donne di casa, ma quante storie per partorire, tutte che strillavano e soffiavano.
E com’erano gelose le une delle altre, una cosa inqualificabile, che ben dimostrava la modestia del loro cervello. Ancora gli andava bene perché non avevano inventato i telefonini, altrimenti non gli avrebbero dato più pace.
In fondo, molto in fondo, la sua vita non era poi così rosea, e doveva pure guardarsi dagli altri maschi rivali, che gli volevano togliere ora una ora l’altra moglie e aggregarla al proprio harem.
Gli avevano fatto slittare l’età pensionabile e non avrebbe confessato mai a nessuno quanto gli facessero male i piedi e le ginocchia per i reumatismi incalzanti. Mai dare segni di debolezza o gli avrebbero fatto il subentro.
<Io mi sono stufata di lavare panni di carta e stenderli su quel filo ad ogni Natale> affermò la lavandaia alzandosi impetuosamente dalle ginocchia sulle quali stava piegata, <ho un appuntamento>.
Dall’interno di una casetta di cartone venne una voce stridula: <Comportati bene, figlia, altrimenti resti zitella e siamo rovinati, Almeno pigliati uno che ha un lavoro sicuro>.
<Il lavoro sicuro è finito> rise la ragazza con una mano sul fianco e la cesta coi panni asciutti sull’altro, <loro dicono che sarebbe noioso e dobbiamo cambiare sempre e lavorare tanto per pagare il mutuo della catapecchia o l’affitto della catapecchia e comunque la catapecchia, ormai le banche pigliano troppi interessi e vogliono troppe garanzie e nessuno ha più una catapecchia decente>.
<Dove stai andando, figlia mia? Bada che gli uomini sono cacciatori> disse la voce della madre altrettanto rauca dalla casa di cartone, <Mi sono innamorata dell’incantato della stella> rispose lei lasciando la cesta sulla soglia, <ma non ho intenzione di andarci a letto, voglio cuocerlo bene prima o non mi sposa>. E la ragazza partì.
<Ho paura che pesca e pesca qua non abbocca niente come il solito> fece il pescatore sullo stagno di specchio circondato da pietruzze raccolte a mare nell’estate precedente. Il suo collega gli sorrise: <Tranquillo, anche stasera mangeremo verdura selvaggia, speriamo che sia rimasto un po’ d’olio e che il pane non sia troppo duro, mi stanno cadendo alcuni denti, sono vecchio, ma non posso andare in pensione>.
<Siamo tutti sulla stessa barca> considerò l’altro mentre l’onda li dondolava con una certa, impertinente soavità.
Intanto si mise a nevicare e la stella, dall’alto dei cieli, scivolò sulla cima di una capanna piuttosto malridotta, le mancava perfino una buona parte del tetto. La stella illuminò una coppia e un bambino che vagiva a braccia spalancate, ognuno vide perfettamente per quanto fosse lontano e fosse buio:
<È nato anche quest’anno> gridarono, belarono, ragliarono e muggirono tutti insieme, anche i pesci dello stagno piroettarono.
<Questa non me l’aspettavo> brontolò il mugnaio svegliando sua moglie che si era addormentata davanti alla televisione, per quanto non fosse stata ancora inventata nemmeno quella, <che fai, dormi, amore?> le disse strattonandola, <Quante volte ti devo ripetere di non chiamarmi così forte quando mi abbiocco? > gridò lei furibonda, <poi mi sento male come ora, ecco>.
<Ma Lui è nato anche quest’anno> fece il marito afferrando due pagnotte ancora calde da portare alla grotta come faceva regolarmente da quando l’avevano modellato così bello, era solo riuscito un po’ più grande degli altri, difatti nel presepio l’avevano soprannominato “Il gigante”.
<È nato in questo caos? Coi peccatori incalliti e mummificati, i poeti disprezzati, le mamme che hanno la depressione post partum e i politicanti scatenati, le escort e il bunga bunga?>.
<È nato anche stavolta> fece il mugnaio afferrando la pelliccia di visone e porgendogliela.
<Sì, vengo, ma non mi metto quella…mi vergogno di averla pretesa…dammi la vecchia mantella, l’ho appesa fuori dai piedi, in alto e non ci arrivo senza salire sulla sedia. Tu, invece, sei bello alto> lo lodò, l’uomo ringalluzzì e arrossì perfino.  La lavandaia, che stava scambiando un bacio passionale, ma non troppo per non dare luogo a procedere, con l’incantato della stella rizzò la testa:
<Hai sentito, forse, piangere un bambino? Lui deve essere nato un’altra volta. I pannolini si devono ancora stirare, vado, tu comincia a correre alla grotta> disse scappando. E pensava: <È nato, lo fa ogni anno, niente e nessuno lo può fermare>.

 <Come ti senti, cara?> chiese Giuseppe a Maria mentre le luci della stella suscitavano mille colori di qua e di là e il focherello che egli aveva acceso sembrava un termosifone gigantesco, tanto riscaldava e sebbene nemmeno i termosifoni fossero stati ancora inventati.
<Bene, come tutte le volte. Il Bambino non mi ha fatto più male di un raggio di luce che mi ha attraversata>.
<Guarda, arrivano i pastori, come ogni anno>.
<C’è lo zampognaro nuovo e anche un gelataio… con tutta questa neve> ridacchiò Maria.


Domenica Luise

Rielaborazione grafica di Domenica Luise

Azzurra

<Gesù, io quando sono grande mi sposo a te> sgrammaticò la bambina porgendogli un mucchietto di more su una foglia di fico. Poteva avere forse qualche otto anni, capelli neri lisci strizzati in due treccioline che le battevano di qua e di là, occhi neri anch’essi e un sorriso da prima cotta urgente.
Egli prese le more e le mangiò di gusto, <Ma quando tu sei grande io divento vecchio> rispose tra un boccone e l’altro. Dette un’occhiata storta a Pietro e Giovanni che stavano ridendo esplicitamente.
“Peccato che deve diventare vecchio” pensò la bambina, “è tanto bellino adesso” e lo guardò fisso perché non voleva dimenticarlo mai in tutta la vita. A quei tempi non avevano ancora inventato la macchina fotografica, purtroppo.
<Ah, sei qui, Azzurra> disse Veronica, <ogni tanto questa sparisce, ti viene appresso continuamente, non fa che ripetere le tue parole. Hai una discepola fedele>.
Azzurra divenne scarlatta fino agli occhi:
<Sei diventata rossa, sei diventata rossa> si misero a scherzare i discepoli beccandosi un’altra occhiataccia di Gesù, che le mise una mano sul capo. Lei, oppressa da un allargamento inaudito del cuore, che sembrò spezzarsi, chiuse gli occhi e sbiancò lampantemente.
<Ti senti male?> chiesero i discepoli, anche sua madre s’impressionò.
Vide che la piccola si era graffiata raccogliendo le more e la portò a casa per lavarla.
<Non devi disturbare il maestro> le disse ripulendola, <lui ha tante cose importanti da fare>.
<Che cose?>.
<Guarire i malati, per esempio>.
In quell’attimo le piccole ferite di Azzurra si rimarginarono, la pelle liscia, senza nemmeno un’arrossatura.
<Guarda, mamma, sono guarita> trillò la bambina, e scappò fuori di nuovo a cercarlo.
Intanto Gesù aveva risanato un lebbroso, che era in ginocchio ai suoi piedi: <Vai, e non peccare più> gli stava dicendo lui.
Quant’era bello con quegli occhi azzurri e i capelli d’oro, ad Azzurra sembrò che mancasse il respiro, forse per la corsa. Si buttò ai suoi piedi accanto all’ex lebbroso e incominciò a gridare che anche a lei erano guarite tutte le graffiature dei roveti.
Le persone si misero a ridere, ma Azzurra continuava a strillare:<Guardate, guardate> e agitava forsennatamente le manine.

<Mamma, perché mi avete chiamata Azzurra?>.
<Perché è il colore che piace di più a me> rispose Veronica, <e così ha voluto il tuo papà>.
Azzurra non ricordava nulla di lui e ne aveva avuto sempre una grande nostalgia anche perché i compagni la prendevano in giro e la chiamavano orfanella, ma alla mamma non l’aveva mai detto perché aveva paura di darle un dolore.
<E il mio papà somigliava a Gesù?>. Veronica sospirò.
<Tesoro, gli ebrei biondi sono rari. Il tuo papà era bruno, con gli occhi neri e più basso di Gesù>.
<Mamma, forse Gesù la notte sente freddo, gli facciamo una sciarpa bianca? Però ai due lati ci voglio mettere una striscia azzurra come i suoi occhi.
<E anche la frangia bella lunga,tesoro. Domani incominciamo il lavoro>.
Fu così che Azzurra imparò a tessere, ad aggiungere un colore diverso e a intrecciare la frangia. Ci impiegò il suo tempo, otto mesi cucendo e scucendo, ma volle fare solo lei la sciarpa, bisognava poi pensare ad una confezione elegante. Nulla le pareva abbastanza bello per lui e si disperava, alla fine, bene o male, il pacchetto fu pronto ed uscirono, madre e figlia, col loro dono, la bambina ancora un po’ insoddisfatta.
Fuori c’era una marea di uomini agitati, mendicanti, soldati, anche facce brutte e si sentivano volare bestemmie. In lontananza videro Maria, Maria Maddalena ed altre donne, qualcuno sussurrò all’orecchio di Veronica che stavano crocifiggendo Gesù.
Riportò subito a casa la bambina, che non aveva capito, le disse di non muoversi perché c’era pericolo e corse a vedere senza accorgersi di stringere sempre il pacchetto con la sciarpa in mano. Egli camminava sotto una grande croce e nessuno avrebbe guarito tutte quelle ferite.
Grondava sudore e sangue. Veronica si lanciò in mezzo ai carnefici e gli asciugò il volto con la sciarpa di sua figlia.
Gesù la guardò in un lampo di azzurro.
In quel momento gli occhi della piccola divennero di quell’identico colore.

                                                                                                          Domenica Luise

 (Elaborazione grafica di Domenica Luise)

Vi metto i link delle fiabe religiose che ho pubblicato su questo blog per Pasqua negli anni passati:

https://usignolamimma.wordpress.com/2011/04/23/la-notte-del-sabato-santo/#comments

https://usignolamimma.wordpress.com/2010/04/01/il-pane-di-maria/#comments

https://usignolamimma.wordpress.com/2009/04/10/la-cagnetta-di-maddalena/#comments

L’angelo in estasi

Era un unico blocco di resina, si girava la chiavetta e il carillon suonava le note di Tu scendi dalle stelle. La maestra raccontò di Maria, Giuseppe e come Gesù fosse nato in una grotta perché non avevano trovato posto all’albergo. Disse che lì dentro scesero gli angeli e cantavano.
Noemi non poteva staccare gli occhi da uno di quegli angeli che stava nel gruppo poggiato sulla cattedra: era vestito di azzurro, aveva l’aspetto di un ragazzino, le ali aperte e il viso rovesciato all’indietro, allora Noemi chiese perché facesse quella faccia, la maestra rispose che era in estasi e tutti i bambini vollero sapere cosa fosse l’estasi né fu facile spiegarlo nell’entusiasmo generale.
Poi la maestra dette ad ognuno dei bambini un biglietto, che costava tre euro, e disse che lei regalava il presepio per sorteggiarlo, l’indomani avrebbero riunito i soldi e comprato i panettoni da portare, tutti insieme, al vicino orfanatrofio dove tante bambine, se nessuno le invitava, avrebbero passato il Natale senza mamma e papà.
Così avrebbero giocato e mangiato tutti insieme.
A Noemi piacque tanto l’idea del gioco, dei panettoni da mangiare insieme, ma soprattutto l’attirava l’angelo in estasi. Anche la Madonna era carina, San Giuseppe era vecchio e le piaceva meno, e poi aveva barba e baffi, che lei non sopportava perché il nonno la pungeva ogni volta che la baciava.
Alzò la mano: <Posso comprare tre biglietti invece di uno?> chiese essendo proprietaria di dieci euro. Sperava di vincere.
Le sarebbe sempre rimasto un euro per qualche masticante alla fragola.
<Certo> rispose contenta la maestra, <il Signore vede il tuo cuoricino generoso>.
Noemi restò perplessa perché invece si sentiva abbastanza egoista e, quando l’indomani vinse davvero ed ebbe il suo tesoro fra le mani, si mise a saltare di gioia.
Letteralmente.
Adesso bisognava nasconderlo perché la sua mamma, totalmente atea, faceva sparire immediatamente qualsiasi oggetto religioso appena qualcuno azzardava il pensierino da Lourdes oppure da padre Pio. In casa sua c’erano stanze, spazio, quadri e ricchezze, ma non s’era visto mai un crocifisso nemmeno piccolo oppure un’immaginetta. Il papà lasciava fare volentieri e preferiva anche lui tenersi lontano dalle superstizioni. Si sa, erano soltanto speculazioni sulla paura della morte che tutti gli esseri umani coscienti provano. Egli preferiva affrontare la verità.
Non aveva, del resto, nemmeno il tempo di pensarci col suo lavoro di dirigente dei dirigenti, come scherzosamente si autodefiniva.
La fabbrica di tessuti in pura lana era sua e sapeva che l’occhio del padrone ingrassa il cavallo. Voleva essere informato di tutto, specialmente delle minime lamentele.
Così non gli restava tempo, quando sarebbe andato in pensione avrebbe ripreso i pennelli in mano, visto che da giovane aveva tentato di fare il pittore, ma poi la fame era troppa e si era trovato un impiego.
“Da galoppino a padrone” pensava sempre anche se non lo diceva.
“Lo nasconderò nella pancia di Babì” decise Noemi. Babì era l’orsacchiotta rosa fucsia con la quale dormiva abbracciata, aveva una cerniera sulla schiena dalla quale si poteva estrarre l’imbottitura per lavarla. Coi suoi pugnetti Noemi fece un piccolo fosso e infilò lì dentro, al sicuro e nel morbido, il suo presepio.
Nessuno l’avrebbe mai trovato. Si addormentò sorridendo quasi con la stessa espressione dell’angelo. Era il ventiquattro dicembre.
L’indomani mattina sotto l’abete mostruoso e carico di palline e luminarie c’erano grandi pacchi multicolori, poi arrivarono gli zii con altri pacchi ancora più grandi e più colorati e i nonni ed anche una bisnonna col cammeo sulla gola e pizzi bianchi che venivano fuori dal cardigan blu.
Noemi fu sballottata, baciata, punta dalla barba e dai baffi del nonno Espedito, venne alzata per aria dal cugino Ippolito, che a lei sembrava un po’ cretino perché rideva sempre e la maestra diceva che il riso abbonda sulla bocca degli sciocchi. Dopo di che l’abbandonarono a giocare con le Barbie principesse in abito sontuoso e diadema di plastica insieme con le cuginette più piccole di lei, e quelle due incominciarono:
<La mia Barbie vuole un fidanzato>.
<Anche la mia cerca marito>.
Allora dobbiamo comprare l’abito da sposa e le fedi.
Noemi sbadigliava e pensava all’angelo nella pancia di Babì, <Mamma> fece, oggi ci sono tre  bambine dell’orfanatrofio che sono senza mamma e papà, ho sentito la maestra dire che non le ha invitate nessuno perché sono brutte, posso farle venire a mangiare con noi?>.
Anche il papà si interessò subito e poco dopo tre bambine intirizzite, con i cappotti un po’ corti e gli occhi spalancati, entrarono nell’elegante salone. Vennero accolte come ospiti d’onore, messe a loro agio e in breve finirono nella stanza di Noemi, dove si sentì ridere e chiacchierare fino all’ora di pranzo, quando si presentarono con gli occhi accesi ed erano tutte bellissime.
<Ho diviso con loro i miei giocattoli e anche i vestiti> disse Noemi orgogliosa.
<Hai fatto bene> rispose la mamma.
<Brava la mia bambina> disse il papà.
Nella pancia dell’orsacchiotta fucsia sembrava che l’angelo sorridesse più in estasi che mai.

Domenica Luise

la notte del sabato santo

Spina di Cristo
 Maddalena mandò via le poche donne rimaste fino a quell’ora dietro l’enorme pietra del sepolcro. Non c’era più nulla che si potesse fare, bisognava soltanto tornare a casa, lei si sarebbe sdraiata su una coperta ai piedi del letto di Maria. La prese per il braccio reggendola come una bambola rotta e si avviò. Il cielo era cobalto scuro senza nuvole, ma non si vedevano stelle.
A casa cercò di farle bere una tazza di latte tiepido e si stupì che Maria non la rifiutasse. Con gli occhi asciutti, la madre inghiottì e subito vomitò, Maddalena le tenne la fronte, pulì senza parlare. L’aiutò a mettersi a letto.
Si era legata i capelli splendenti, di un castano chiaro striato di biondo, in una specie di coda di cavallo. Non si era mai guardata né presa cura di sè in quei giorni tragici e si sentiva strana. Lo amava talmente, ma non come aveva amato alcuni fra gli uomini che l’avevano avuta. Con Gesù c’era l’anima. E adesso la sua anima di prostituta era torturata e sepolta con lui.
Ma il dolore della madre era di qualità diversa a causa dell’innocenza, che lei non aveva più.
Maria giaceva ad occhi chiusi e Maddalena controllava che respirasse. Alla fine la credette addormentata e si accoccolò sulla coperta stringendo le ginocchia contro il petto. C’era caldo, ma rabbrividiva e dovette alzarsi per prendersi il mantello e metterlo addosso, poi sentì un bel tepore e si abbandonò.
La fiamma della lucerna guizzava debolmente. Maria aprì gli occhi, anzi li sbarrò.
Fissò sul muro i battiti di ombra e luce.
Le venne ancora da vomitare con irruenza, cercò di trattenersi per non svegliare Maddalena.
La porta era serrata, ma c’era qualcuno dentro. Un ragazzo, un uomo.
Si portò una mano alla bocca come per trattenere il grido.
<Mamma, sono risorto come ti avevo promesso> disse Gesù, prese la sedia che, quand’era piccolo, gli aveva fatto Giuseppe, la mise accanto al letto e le strinse le mani.
Su quella sedia, pur non essendo un uomo particolarmente robusto, entrava a malapena e a Maria veniva sempre da sorridere perché lui sembrava proprio che preferisse accartocciarsi lì sopra ogni volta che tornava a casa.
Ma adesso non sorrise. <Sei vero?> sussurrò.
Gli mise una mano sul petto e sentì il cuore. Una felicità senza attributi la dilatò dall’interno, <Figlio mio, figlio mio, sei un sogno?>
<No, mamma. Sono io, corpo, anima e divinità>.
<Non ci credo>.
<Avrei un po’ di fame, mamma, alzati e mangiamo qualcosa>.
<Non vorrei svegliare Maddalena>.
<Non si sveglierà>.
Maria saltò giù dal letto, cercò le ciabatte senza trovarle, allora Gesù si chinò e gliele mise ai piedi. Aveva due grossi buchi sulle mani, ma erano completamente cicatrizzati, la pelle rosea. Chino davanti a lei, la guardò e sorrise, sulla fronte c’erano i segni delle spine, anche questi guariti. <Non toglierò in eterno dal mio corpo le stimmate dell’amore> le disse.
<Sì, Gesù>. Maria gli baciò le mani.
<Mamma, prendiamo il pane che hai fatto giovedì scorso e il vino, il mio bicchiere di quand’ero piccolo>.
<Ci sono il formaggio e il burro> disse Maria. Dentro la dispensa vide anche della frutta, portata da qualche vicina e una focaccia cosparsa di miele.
apparecchiò con due tovaglioli puliti e si sedettero a mangiare entrambi.
Egli sembrava affamato: <Ti faccio un uovo?> chiese Maria.
Gesù mangiò anche l’uovo, bevve un bicchiere di vino e gli venne un po’ di roseo sulle guance. Maddalena non si era mossa.
<Mamma, adesso ti debbo lasciare e tornare al sepolcro>.
<No, figlio, resta ancora con me, aspetta, perché vuoi tornare lì?>
<Tra poco Maddalena  si sveglierà e correrà al sepolcro, voglio incontrarla>.
<Sì, figlio, come tu vuoi>.
<Mamma, sei felice?>
<Sì, Gesù>.
Egli sparecchiò e lavò i piatti e bicchieri anche se la brocca dell’acqua, per quanto ricordava Maria, era vuota da due giorni. Poi Gesù ripiegò i tovaglioli, li conservò, mise a posto il pane e l’orciolo del vino, <Torna a letto> le disse, <dormi tranquilla.  Aspettami più tardi. Non dire niente di avermi visto>.
La baciò in fronte ed uscì a porte chiuse com’era entrato.

                                                                               Domenica Luise

Torta di Pasqua
                                                                    (Fotografie di Domenica Luise)
 

Il pastore, la pecora nera e il Natale

                  

  Era la pecora nera di un  vecchio pastore, che per lei ebbe tenerezza,
la difese dalle altre pecore che l’avevano emarginata, la crebbe e la chiamò
Brunella. Le mise un fiocco rosso al collo e lei lo seguiva ovunque, quando egli si fermava anche lei si fermava standogli timidamente vicino in silenzio,
desiderosa di una carezza.
Il pastore era povero, possedeva soltanto cinque pecore e tre galline col gallo.
C’era una grotta naturale proprio di fronte alla sua catapecchia e lì
dentro teneva questi animali, insieme ai buoi, agli asini, al numeroso gregge
ed al grande pollaio recintato di suo fratello ricco.

Quella sera faceva fresco e si sentiva quasi un re sul trono col braciere ai
piedi e una bella coperta di vera lana sulle ginocchia. La pecora nera,
sua
prediletta, stava accucciata il più possibile vicina a lui sul pavimento
di terra battuta. Per risparmiare aveva spento la piccola lampada palpitante,
pensò a sua moglie, che era morta molti anni prima, ai figli lontani sotto
un padrone, alla vita e a come gli facevano male le articolazioni, ciò gli
provocò un poco di tristezza ed allora pregò il Dio altissimo nel quale lui e
la sua famiglia e tutta la sua razza credevano fermamente. Egli sarebbe
disceso in terra a liberarli, nascendo da una vergine, era scritto. Come
ciò potesse avvenire il vecchio non sapeva immaginare, ma del resto nemmeno
si spiegava perché i fiocchi di neve fossero così morbidi e bianchi né da
dove fosse venuto fuori il sole o come facessero gli astri a restare sospesi
per aria senza cadere. Mentre pensava a tutte queste cose che non capiva,
ma gli sembravano belle, dalla porta socchiusa vide passare un gran chiarore,
si alzò ed andò a guardare: una stella con la coda veniva giù rapidissima
dal cielo come se volesse incendiare la terra, egli gridò sgomento, ma
all’ultimo minuto la cometa si fermò sulla grotta dove lui teneva gli animali
insieme ai buoi, agli asini, al gregge ed al grande pollaio di suo fratello ricco.
La luce divenne sempre più intensa ed il vecchio alzò la testa spalancando
gli occhi e le orecchie: nella sua catapecchia stavano entrando giovinetti

Angeli

 

bellissimi, in massa, cantavano e dicevano che il Dio bambino era appena

nato e riposava nella mangiatoia proprio lì di fronte.
 

 

Il fratello povero con la pecora

La pecora nera,
a sua volta, alzò il capo a guardare gli angeli e le uscì un belato che sembrò anch’esso una dolce nota musicale.
I canti di lode divennero fragorosi ed il vecchio sentì la propria voce
mescolarsi al coro, e non tremava né era roca per l’età.
Corse, con la pecora nera, verso la grotta senza sentire più male
alle articolazioni né freddo né niente.

 

Ester la vedova, quella sera, non aveva potuto dare ai suoi tre bambini che
una fetta di pane per uno ed un po’ d’acqua presa alla fontana. Si vergognava
tanto di chiedere nuovamente una pagnotta alla moglie del fornaio.
In quanto a lei, aveva fame. Si stringeva i pugni sulla pancia nel tentativo
vano di calmare i crampi. I figli avevano piagnucolato che volevano
un poco di latte caldo, anche mezza tazza, anche un sorso. Le si era
spezzato il cuore ed aveva cantato a lungo dopo averli messi a letto,
alla fine si erano addormentati vicini. Faceva freddo e la legna
stava per esaurirsi, i pochi soldi rimasti erano finiti quella mattina.
Non poteva prendere sonno sia per la fame e sia perché non sapeva come
fare a sopravvivere dopo la morte improvvisa di suo marito.
Si avvicinò al piccolo letto nel quale avevano dormito insieme ed accarezzò,
come sempre faceva, il cuscino di lui striminzito e duro.
Di giorno in giorno spariva il sapore della vita di prima, il ricordo della
sua voce,  i baci e le carezze dell’amore coniugale, i figli, il lavoro, tanto,
troppo lavoro, ma anche tutto quell’amore.
Quali gioie segrete avevano vissuto insieme e come egli le mancava, e non
soltanto perché adesso non sapeva più come sopravvivere.
C’erano tanti mendicanti nei posti affollati, frequentati dai ricchi e dai
profeti, ci sarebbe andata anche lei a tendere la mano per i figli.
Incominciò a piangere senza riuscire a smettere. Badava a fare piano
per non svegliare i piccoli, affinché non ricominciassero a chiederle un
po’ di latte caldo.
Il fuoco, adesso, si stava spegnendo e lei aveva finito l’ultimo pezzetto
di legna. Andò a prendersi la mantellina dal gancio al quale la teneva
appesa, era troppo sottile, consumata per il lungo uso, non l’avrebbe riparata granché, sospirò e se la strinse sulle spalle, era giovane e forte, ce l’avrebbe
fatta a trovare qualche rametto lì in giro prima che venisse a nevicare.
L’aria le punse il naso ed incominciò a starnutire.
Si mise a ridere nel gelo, come a confortarsi da sola, e guardò le stelle
così nitide. Una di esse, in quel momento, sembrò precipitare dall’alto
puntando dritta verso di lei o così le parve. Ester gridò dalla paura, ma
anche per uno strano incanto, in quel chiarore si accorse che, tutt’intorno
a lei, erano sparsi tanti rami di legna, sia piccoli che grossi. Si chiese
come avesse fatto a non vederli il giorno prima e li raccolse, un occhio
alla stella ed un occhio per terra, ne ebbe presto le braccia cariche e
vide che la cometa si era fermata sulla grotta dove i due fratelli pastori,
uno povero ed uno ricco, tenevano gli animali.
Si avviò verso casa ed aggiustò il fuoco, che subito riprese a lampeggiare.
I bambini, intanto, si erano svegliati, anche perché si sentiva un canto
bellissimo, delicato e forte contemporaneamente e quella piccola stanza
presto fu piena di esseri alati, giovani e ridenti, che annunciavano la
nascita del Re, Figlio di Dio, proprio in quella grotta lì accanto,
nella mangiatoia, riscaldato dal respiro di un bue e di un asinello.
Subito i bambini incominciarono a vestirsi, ed era la prima volta che il
più piccolo lo faceva da solo, < Ma cosa gli portiamo,
non abbiamo niente>

 

Ester e i bambini

disse Ester guardandosi intorno,
< Perché non raccogli i fiori che nascono
qui avanti ? > le rispose uno degli angeli indicandole la nuda terra coperta
di neve, Ester seguì con gli occhi il suo dito e vide che c’erano parecchi gigli
alti e bianchissimi ed una pianta di rose scarlatte, tutte fiorite contemporaneamente, proprio sull’uscio di casa.

 

 

La moglie del pastore ricco aveva appena finito di litigare con suo marito
perché si sentiva trascurata e disse che lui la lasciava sempre sola in quella
casa troppo grande, egli aveva strillato a sua volta che il proprio lavoro
non era uno scherzo e la sera si ritirava stanco morto e affamato, col
desiderio di buttarsi a dormire senza nemmeno togliersi i calzari.
Aggiunse che avrebbe dovuto essere contenta di vivere in modo talmente
opulento, con una serva che veniva tutti i giorni a mettere a posto la casa, provvedere a prendere l’acqua, lavare, stendere e cucinare. Lei, piuttosto, si passasse il tempo a filare e si rendesse utile: nessuna moglie di nessun pastore
stava così bene, sbraitò, sempre con la pancia piena, guardasse quel
poveraccio di suo fratello vedovo e povero, aveva quattro figli, lui,
tutti lontani e poveri a loro volta.
< E noi, invece, non abbiamo figli > disse piano la donna, ma così piano
da non farsi sentire per non ferirlo, < e nessuno ci vuole bene
né si ricorda di noi >.
Si slanciò sul suo petto per fare la pace con le lacrime agli occhi,
mentre gli chiedeva perdono ed egli chiedeva perdono a lei, ed erano
due vecchi tremanti e pieni d’amore,
sentirono uno strano e delizioso rumore che veniva dal cielo, aprirono il
loro elegante portone di legno massiccio e videro la cometa precipitare
in un lampo di luce sulle loro teste. Gridarono entrambi di panico e di
una insolita gioia. La stella aleggiava lì davanti, sulla grotta dove lui
teneva gli animali ed ospitava anche quelle quattro bestie di suo fratello,
che altrimenti avrebbe fatto la fame.
In quel momento, al ricco, non sembrò poi di avere fatto granché per
il fratello povero, che abitava nella catapecchia più indietro.
Simultaneamente molte creature alate, giovani, bellissime e canterine,
si affollarono intorno al portone proclamando che, proprio in
quella grotta, al chiarore della cometa ed al caldo del fiato di un bue
e di un asinello, era nato il Re del cielo.
I due vecchi restarono sbalorditi, si buttarono i mantelli buoni sulle spalle, prepararono in un grande canestro latte, uova, formaggio, burro, ricotta
ed una bella pagnotta di pane fresco e si precipitarono alla grotta, dove

Il fratello ricco con la moglie

incontrarono il fratello povero, che aveva portato in un canestrino latte,
uova, formaggio, burro, ricotta ed una pagnottella di pane del giorno prima.
Lo tallonava, come sempre, la pecora nera. Nel frattempo arrivava Ester
coi suoi tre bambini , che avevano in mano i gigli e le rose, < Li ho raccolti
davanti casa > disse Ester dinanzi al loro sguardo interrogativo.
Dietro, a piccoli gruppi, venivano tutti i pastori dei dintorni. E dovunque
c’era lo splendore della stella cometa, sempre più intenso e tiepido, ed il coro
degli angeli e quel profumo di fiori.
Incominciò a nevicare, ma non faceva freddo.

Madonna con Bambino

Maria Vergine santissima  si alzò dalla comoda pietra sulla quale stava
seduta e mostrò il Bambino ai pastori aprendo la mantellina ricamata
nella quale l’aveva avvolto. Non sembrava una donna che avesse appena
partorito: serena, colorita, ridente come se niente fosse stato.
Gesù era preciso a  tutti i bambini appena nati: rosso, grinzoso ed urlante, nell’insieme bellissimo.
Tese le piccole braccia proprio verso i pastori e smise di piangere.

San Giuseppe

San Giuseppe badava ad aggiungere legna al fuoco.

Tutti i pastori si affollarono con le proprie ricottelle, il latte, le uova
ed il pane fresco oppure del giorno avanti.
La Madonna sistemò Gesù, che intanto si era addormentato, nella mangiatoia,
la pecora nera ne approfittò subito per accucciarsi lì accanto,
allungando il muso verso di Lui.
Dopo Maria vergine si rivolse ad Ester, i cui bambini le porgevano
gli splendidi fiori:
< Grazie > disse soavemente, con una nota di pietà così tenera che nessuno al mondo si sarebbe potuto offendere, < è un dono raro. I fiori sono la cosa più gratuita e bella della terra. Ma i tuoi figli non avevano voglia di latte caldo e di pane? >.
I piccoli si ricordarono di avere la pancia quasi completamente vuota e si imbronciarono come fanno i bambini.
Intanto la grotta si riempiva di ogni ben di Dio portato dai pastori.
< Per noi è troppo tutto questo cibo > disse san Giuseppe, < se i tuoi figli hanno
fame, puoi prendere quello che vuoi >.
La Madonna sembrò che si rivolgesse proprio alla moglie del fratello  ricco :
< Questa signora cerca un lavoro > disse.
< Io ho latte, burro, uova e pane a sufficienza per me e per loro > rispose
subito il fratello povero.
< Ed io avrei bisogno di una brava rammendatrice > aggiunse altrettanto rapidamente la moglie del fratello ricco, < ma saresti un’amica per me e
non una lavorante, anche se ti pagherò il giusto prezzo. Mio marito
è sempre fuori al lavoro ed io mi sento sola >.
< E voi due fratelli, perché non vivete insieme, nella stessa casa ?
Forse non avete posto? > chiese la Madonna. A nessuno parve strano
che sapesse tante cose della loro vita.
< Mi sembra una buona idea > rispose subito il fratello ricco,
ed abbracciò il povero, che  lo abbracciò a sua volta. < La nostra casa
è grande ed è vuota. I tuoi figli, invece di stare lontano, potrebbero
tornare qui e lavorare con noi >.
Erano tutti commossi.
Il canto degli angeli diventò sublime. La pecora nera, strusciando di muso
e di zampe, tanto fece che si slacciò il suo bel fiocco rosso, al quale teneva moltissimo, e lo lasciò nella mangiatoia, in dono per Lui.
A Gesù, che faceva finta di dormire, scappò da ridere.

                                                      Domenica Luise

(Se volete leggere i post degli anni precedenti, fate clic qui sotto su
“buon natale” e vi appariranno tutti dall’ultimo (questo) al primo)

Cristina Bove ha creato un video bellissimo dove legge per noi una sua poesia,
è una meraviglia, vi metto il link:

http://cristelia.splinder.com/post/23740923/per

                                                        (Schizzi a matita di Domenica Luise)

Il pane di Maria


 
 

Maria lo vide arrivare che il sole stava alle sue spalle, sicché Gesù aveva il
volto in ombra. Camminava come se fosse accasciato o si sentisse male o ci fosse
qualcosa di oscuro intorno e dentro di lui. A questa percezione la madre smise di impastare il pane e fissò il figlio, che si avvicinò e la guardò come soleva fare
fin da neonato.
Un lago di beatitudine si dilatò nel cuore di Maria, ma contemporaneamente sentì una punta rovente che le faceva male nel petto.
Si portò davanti una mano infarinata e incrostata di pasta stringendo la mantella come a proteggersi.

Involontariamente, le uscì un piccolo singhiozzo senza lacrime.
Gesù le sorrise con quanta forza aveva, < Vieni qui > mormorò aprendole
le braccia.
Fu come se lei fosse la figlia ed egli il padre, la cullò e
le spiegò che era giunta la sua ora.

Gli occhi della madre si fecero scuri come se riflettessero le nuvole che, in quel momento, coprivano tutto il cielo.
Sbiancò fino alle labbra ed egli dovette sostenerla.
< Mamma > le disse, < tu sola, al mondo, sai come sono realmente nato.Tu hai visto l’angelo e hai creduto e mi hai generato nella stalla.
I lebbrosi, i ciechi e gli zoppi sono guariti, adesso è giunta l’ora che
aspettavamo. Vedi, il pane è già pronto, possiamo infornarlo >.

< Ma se non ho ancora finito di impastarlo, come può essere, figlio? > chiese Maria .
< Anche il forno è pronto > continuò lui con una strana voce febbrile  e lo sguardo lucido, < mamma, voglio fare io le pagnotte >.
Gesù si mise a dare forma al pane, era velocissimo, in ogni pagnotta tagliò
un segno a croce col coltello.

Maria guardava senza stupirsi del miracolo mentre quella punta rovente nel petto
si allargava a dismisura ed era come se ogni croce che egli segnava sulle
pagnotte, contemporaneamente, la ferisse piaga su piaga.

Ebbe un gemito intrattenibile. < Povera mamma > disse Gesù guardandola con
pietà,
< stai per soffrire molto >, ma parlò così piano che ella non poté sentirlo.
Con rapidità convulsa infornò il pane, mentre cuoceva andò a prendere un orciolo
di terracotta, disse che gli servivano il pane e il vino perché quella sera avrebbe festeggiato la pasqua con i suoi apostoli. Era vino buono, che egli stesso si era divertito a pestare, insieme ai discepoli, quel bel giorno della vendemmia,
quando li avevano invitati e si erano divertiti tanto.

Dopo suo figlio era tutto sporco di mosto, sembrava sangue. Maria rabbrividì
anche se il forno cuoceva e c’era caldo. Gesù teneva l’orciolo pieno di vino con entrambe le mani, era un gesto d’amore. < Madre > le disse,
< per questo sono nato in terra >.

Lei non poté rispondere, ma lo guardò. Gesù andò alla dispensa, prese un piatto pulito e un piccolo bicchiere di terracotta, quello dove beveva lui quando era bambino, che era caduto in terra cento volte e non si era mai nemmeno sbeccato.
Giuseppe ci aveva dipinto sopra un fiorellino celeste quando, una volta,
dei ricconi gli fecero fare una culla di legno per il loro primogenito
e gli dettero la pittura perché la colorasse. Ne avanzò un pochino e Giuseppe
l’usò per quel piccolo fiore sul bicchiere di Gesù. Col tempo quel genere
di pittura sbiadiva, ma il fiorellino celeste, dopo tanti anni, sembrava appena
fatto, un pochino irregolare perché Giuseppe non era un grande artista.

Gesù accarezzava il fiore: < Non dici niente, madre? >.
Maria aprì la bocca per rispondere, ma la voce non uscì.
La richiuse e sentì una lacrima fino agli angoli delle labbra. Salata,
come tutte le lacrime umane.

< Dobbiamo farci coraggio, madre > disse Gesù.
Il pane era cotto, egli lo tirò fuori dal forno con la pala di legno e lo mise
sulla tovaglia pulita, già distesa sul tavolo.

Maria si era seduta perché le gambe non la reggevano.
< Come stanno i cagnolini ? > chiese Gesù.
< Bene > sussurrò la madre.
< Accarezzali per me  > disse Lui, e sorrise in modo straziante :
< Fra tre giorni risorgerò > le promise.
< Io… lascia andare me al tuo posto > disse Maria.
< Non posso e non voglio, ma te ne ringrazio come se tu l’avessi fatto > rispose Gesù.
Prese la pagnotta più bella, quella con la croce larga e profonda, ne staccò un piccolo boccone e lo tenne nel palmo delle sue mani, che gli tremavano visibilmente:
< Prendi e mangiane, madre > sussurrò, < questo è il mio corpo. Credi tu, madre,
che io possa trasformarmi in pane per l’umanità? >.

< Credo ad ogni tua parola, figlio > rispose Maria. Egli l’imboccò sempre fissandola. Dopo versò un sorso di vino nel bicchiere col fiore celeste:
< Prendi e bevi, madre > disse, < questo è il mio sangue >.
Maria bevve e subito svenne. Gesù la prese in braccio come un fuscello e l’adagiò sul letto. Dopo mise in un tovagliolo quella pagnotta con la croce tanto grande,
prese l’orciolo del vino che aveva egli stesso pestato il bel giorno della vendemmia, quando sembrava tutto coperto di sangue, ma era mosto, guardò la madre in estasi, sorrise ancora in quel modo, si girò ed uscì per incontrare gli apostoli.

 

                                                              Domenica Luise

Buona Pasqua a tutti, viviamo felici, Dio ci ama.

 

La cagnetta di Maddalena

 

Ora, Maddalena aveva una cagnetta tutta bianca, piccola taglia, pelo lungo e riccio, sonaglino perennemente appeso al collo perché la sua padrona potesse subito sentirla quando la cercava.

Anche Maria Vergine santissima aveva un cane, ma era maschio e tutto nero, col solo muso bianco.

I cani si conobbero durante il discorso della montagna e subito s’innamorarono, si appartarono e lei rimase incinta. Quella sera Gesù fu accompagnato a casa da due cani, non da uno come al solito. Comunque questo seguito di animali non era una novità perché le bestiole lo adoravano. Perfino i gatti, che sono reticenti per natura, lo chiamavano miagolando e c’erano alcune colombe che gli andavano ora su una spalla ora sull’altra ogni volta che predicava.

Quando Gesù le fece una carezza, la cagnetta lo adottò. Per Lui abbandonò la sua padrona, che dovette rassegnarsi al fatto compiuto, ed iniziò una vita raminga mentre suo marito, che si chiamava Nero, restava con Maria per farle la guardia in assenza del Figlio.

La cagnetta, invece, si chiamava Bianca. Nacquero tre bambini bianchi e neri, che poppavano e dormivano scrupolosamente. Per un poco la famigliola fu riunita in un angoletto della casa di Maria, ma quando li svezzò Bianca partì di nuovo appresso a Gesù.

Dormiva ai suoi piedi, mangiava dalle sue mani e disse di no ad altre offerte amorose.

Sentiva solo un bisogno: vivere sempre con Lui.

I discepoli ne sorridevano, ma a lei non importava. Poteva affrontare tutto per una sola sua carezza.

Eppure era sempre stata timida. Le piaceva guardarlo mentre parlava, anche se, di quello che Gesù diceva, capiva soltanto il tono della voce, che era pieno d’amore.

Quando, nell’Ultima Cena, dette il Pane ai discepoli, anche lei si era avvicinata, come al solito, per mangiare dalle sue mani, Egli la lasciò per ultima e, invece del Pane, le dette un osso dell’agnello con tanta polpa e grassetto, che era mille volte più buono.

Poi vide che andavano tutti in giardino per chiacchierare e digerire, naturalmente lo seguì e stette ai suoi piedi a guardarlo mentre i discepoli prima ciondolavano e poi dormivano ronfando. Gesù le fece una carezzina in fronte e le disse: < Tu sola, Bianca > e lei cominciò a scodinzolare, ma lentamente e senza contentezza perché la sua voce era tristissima.

Vide una gran luce con dentro un uomo-uccello, che lo faceva bere in un calice.

Gesù stava male e si agitava, era tutto sudato, allora Bianca, per consolarLo, incominciò a leccargli i piedi nei sandali polverosi.

Ancora una volta Egli l’accarezzò.

Dopo vennero molti uomini e un suo discepolo, l’unico che non le piacesse, lo baciò. Strano, Gesù non sembrava contento.

Un soldato le dette un calcio perché lei aveva tentato di avvicinarsi. Guaì trascinando la zampa. Ricordò che una volta si era fatta male, Lui l’aveva curata con un massaggino e subito tutto era passato.

Stavolta, però, il dolore continuava.

Ma non ebbe tempo di leccarsi un po’ perché vide che lo maltrattavano.

Si lanciò a difenderlo  e si prese il secondo calcio. Cadde battendo la testa.

Quando rinvenne si accorse che lo flagellavano. Non poteva camminare, ma gridò il suo dolore e il suo amore con ogni forza. Sentì il terzo calcio e le parole:

< Smettila, bestiaccia >.

 

Cristo morente


Si trascinò a cercare i discepoli per avere aiuto. Vide arrivare Giovanni e Maria, pallidissimi, insieme c’era Nero, col pelo arruffato e gli occhi rossi di pianto.

Tutti gli altri amici di Gesù erano scomparsi, a parte un gruppetto di donne un po’ più indietro.

Bianca seguì Gesù sul Calvario e lo vide crocifiggere.

Maddalena prese la bestiola ferita fra le braccia, l’accarezzò e sussurrò: < Gli animali lo amano più degli esseri umani. >

Allora Bianca abbaiò di nuovo perché era troppo il suo dolore e Lui non poteva più dirle niente, ma la guardò, questo sì, anzi la fissò, e la cagnetta spalancò più che poté gli occhi perché, in quell’attimo, sentì dentro di sé un qualcosa che non capiva, era troppo grande e bello, ma anche terribile. Reclinò la testa e non vide altro che buio.

< E morta per Lui > disse Maddalena, < è giusto che sia sepolta con Lui . >

E così Bianca fu posta ai piedi di Gesù e sembravano addormentati tutti e due.

Nero li annusò un’ultima volta e dopo seguì le donne a casa, Cercava di stare il più possibile vicino alla Madonna, che era silenziosissima e sembrava che nemmeno respirasse.

Passò un po’ di tempo. Bianca volava in un tunnel di luce. Lui era all’uscita, più bello di prima, col suo odore indimenticabile. Indossava un mantello bianchissimo.

La cagnetta aprì gli occhi sentendo le Sue carezze: l’interno del sepolcro era immerso in uno splendore tranquillo e Gesù le sorrideva.

< Vieni, Bianca > le disse, < risorgiamo! >

                     Domenica Luise

                         (Acquerello di Domenica Luise)