Angeli, angiolesse, asini e Cupido

C’era una volta, più di duemila anni fa, un’asina bianca con gli occhi celesti e lunghe ciglia ricurve anche senza rimmel né kajal né niente. Era snella, ma con una bella pancia ricurva com’è di moda fra gli asini e, se non fosse stato per quel colore o non colore che fosse, avrebbe avuto  grande successo nella sua razza. Al solo vederla da lontano i maschi si strofinavano gli occhi con uno zoccolo e dicevano che li abbagliava, le femmine ridevano e si lisciavano il pelo grigio l’una con l’altra misurando l’altezza delle orecchie (vincevano le più lunghe) e la potenza del raglio (vinceva il più rumoroso e prolungato). Anche l’asina bianca si presentò per partecipare ai concorsi di bellezza, ma tutti la derisero e arrivarono a dirle che, piuttosto, si mettesse in fila all’ovile con quelle sceme delle pecore perché era l’unico posto degno di lei.
L’asina allora andò da mamma e papà a chiedere il permesso di fare la tintura grigia per diventare bella come tutti gli altri, <Statti come sei e pensa piuttosto a studiare perché sei un’asina> risposero quelli severi come al loro solito.
Allora Bianchina fece un fagotto delle sue cose in uno strofinaccio che legò in cima a un bastone com’è tradizione delle favole, se l’appoggiò sulla spalla e scappò di tana, dentro ci aveva messo la bottiglia con l’acqua, una pagnottella, la saponetta e lo spazzolino da denti, la maglietta della salute, un buon numero di mutandine e il suo computer portatile. Cammina, cammina, poco dopo ebbe fame e mangiò il pane, la notte ebbe freddo e indossò la maglietta della salute, l’indomani mattina fece toletta in un ruscello dove si lavò con la saponetta (che s’intitolava Pelo d’asino e assicurava lucentezza  e idratazione perfette dagli zoccoli alla punta delle orecchie) e strofinò energicamente i denti col dentifricio (il cui nome era Zanne d’asino e prometteva il massimo biancore e protezione dalle carie che anche gli asini hanno).
Stillante (perché aveva dimenticato un asciugamano) e profumata si guardò intorno e vide che passavano due signori, un uomo e una donna, con un asino bellissimo, grigio come gli asini vogliono e perfino sfumato di nero e antracite qua e là, Bianchina rimase di stucco e Cupido, in fretta, le conficcò un dardo rovente nel cuore, ma così rovente che da allora non sarebbe guarita mai più, lo sentiva.
La signora padrona dell’asino disse qualcosa all’orecchio del marito, egli subito l’aiutò per farla salire in groppa all’animale, che la portò come fosse una piuma, tanto era forte, alto, addirittura solenne. Bianchina li seguiva dopo avere abbandonato per terra il suo fagotto, compreso il computer portatile al quale teneva tanto.
E venne una notte serena, attraversata da una stella con la coda che si avvicinava sempre più. Chi cantava? Erano voci umane o sembravano tali. E chi riempiva il cielo di voli e strani movimenti? L’uomo aveva acceso una lucerna e adesso parlava a voce quasi alta, comunque udibile:
<Come ti senti?>.
<Benissimo> rispondeva lei.
<Guarda, dietro di noi c’è un asino senza padrone, ci segue da stamattina, si sarà sperduto, povera bestia>.
<Non preoccuparti, caro>.
<Qui avanti c’è una stalla, è meglio fermarci, sarai stanca>.
<Sì, dormirei volentieri un pochino>.
<Maria, mi dispiace che non ci fosse posto in nessun albergo>.
Lei ridacchiò: <In realtà quelli hanno pensato che non avessimo denaro e poi, una donna incinta grossa può partorire e dare dei fastidi>.
<E tu lo trovi divertente?>.
<Via, Giuseppe, Dio saprà pure come provvedere a noi due> fece lei.
L’asina bianca origliava interessatissima. La cometa sembrò sospendersi proprio sulla stalla.
<Dicono che le comete portino sfortuna>.
<Non mi diventerai pure superstizioso>.
<Perché, cos’altro sono?>.
<Impaziente, talora rabbioso, sempre affamato, brontolone> elencò lei.
<Beata te che non hai il peccato originale> rimbeccò lui.
Qui il loro asino ragliò con voce virile e talmente stentorea che la povera Bianchina sentì rimescolarsi tutta la ferita d’amore e la freccia di Cupido che scendeva e risaliva dal cuore alle viscere e viceversa. Dunque questo è il dolce amore di cui tutti parlano, pensò.
Cupido, mimetizzato tra angeli, angioletti e angiolesse, preparò il secondo dardo che non fallì e il raglio di soddisfazione di lui divenne un gemito appena la vide. Puntò le zampe, si fermò e l’aspettò.
<Ma> disse Giuseppe contrariato.
<Va tutto bene, caro> fece Maria.
<Signorina> sussurrò l’asino appena Bianchina gli arrivò a tiro, <dal primo momento che l’ho vista il mio cuore ha palpitato d’amore>.
<Pure io, pure io> balbettò lei in un raglio tremulo, <ma non si è accorto che sono candida come la neve invece che grigia?>.
<Sei una rarità bellissima> rispose galante lui, e le si affiancò strusciandole il fianco. Bianchina divenne di brace, ma non si scostò.
Intanto, nell’alto dei cieli, un’angiolessa in tunica di voile blu e lustrini all’ultima moda puntava il dito contro Cupido:
<Tu non sei un angelo cattolico e nemmeno cristiano> disse con tono alto e fermo.<È anch’egli una mia creatura amata> rispose solennemente la voce del Padre.

 Conclusione

 <Dormi tranquilla> disse l’asino a Bianchina dopo averle preparato, a colpi di
zampe, una specie di conca nella paglia, <è tardi, fa freddo e sei stanca, ne parliamo domani mattina>.
<Sono dispiaciuta per i miei genitori, saranno preoccupati, non dovevo scappare di casa>.
<Vedrai che tutto si risolverà>.
La svegliò un vagito che sembrava lo squillo di una tromba, era nato il Bambino e le voci di angeli e angiolesse, Cupido compreso, gli facevano il coro. La luce della cometa era tanto brillante che Giuseppe spense la sua lampada.
<Così risparmiamo l’olio> disse a Maria.
Intanto arrivarono i pastori coi loro regali: la copertina, il pane, la ricotta, la bottiglia di vino e il brodo di pollo per la puerpera, alcuni portavano mazzetti di verdura selvatica poiché non avevano altro.
Tra tutte le voci Bianchina sentì anche quelle di papà e mamma:
<Cercavamo la nostra bambina, la luce della stella ci ha fatto trovare le sue cose>.
<Il computer, il dentifricio, lo spazzolino da denti>.
<La bottiglina vuota dell’acqua>.
<È scappata perché siamo stati troppo severi>.
<Coi figli, comunque fai, sbagli sempre>.
Bianchina si alzò di furia: <Mamma, papà, perdonatemi> ragliò con un acuto che quasi sembrava Maria Callas nella Tosca.
<Ci siamo fidanzati> tagliò corto l’asino mettendole una zampa sulla spalla come a dire: questa ragazza è mia.

Domenica Luise

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Una per mille, di Cristina Bove

Sono i pensieri di una madre poetessa. Questo balzare dal passato al presente e viceversa rende tutto vivo e unifica l’avventura in un “oggi” dove l’età e il tempo storico sono semplici effetti collaterali dell’esistenza. Così giovinezza, maturità e vecchiezza sono un solo io-noi che fummo, siamo e saremo fra gli altri come noi a spasso nel mistero.
E il mistero è simultaneamente interiore ed esteriore.
Il passato diventa presente e contiene già il futuro dentro di sé: è il miracolo della poesia dal particolare umano all’universale e viceversa in un solo punto come l’universo prima del big bang che ha diversificato quel punto iniziale senza cancellarlo mai.
I dilemmi propri ed altrui, le radici della vita e del pensiero, la prosa poetica, è ovvio senza le acutezze ermetiche e le relative concentrazioni a sprazzi, la delicatezza e la forza di una donna immersa nel quotidiano: dentro questo romanzo c’è Cristina, goccia del mare e di tempo.
Nulla di costruito: tutto vero. Non ciò che sembra, ma ciò che è. Fenomeno raro della scrittura odierna e, per me, punto di arrivo. Come insegnante di lettere, consiglio di studiarlo nelle università, a lettere moderne.

Domenica Luise

Per altre informazioni sul libro di Cristina, cliccare sul collegamento: http://ancorapoesia.wordpress.com/

Vacanze di Natale

Buon Natale 2013

Ho scritto a casa, non sapevo che raccontargli, ma io so scrivere e posso inventare o per meglio dire prendere delle situazioni che mi colpiscono senza interessarmi e metterle al centro delle mie lettere. Per esempio che Vitti Paolo oggi, nell’ora di latino, leggeva sotto il banco una barzelletta sporca con il suo compagno e che quando li ho rimproverati gelidamente sono arrossiti tutti e due e hanno abbassato gli occhi. Che dal preside non li ho mandati, il preside non vuole essere seccato e poi ho capito che lui certi alunni come Vitti Paolo non li tocca perché sono figli del medico del paese, nipoti dell’onorevole di questo o di quell’altro partito, non importa quale, cugini in secondo di qualche altro signorotto dei dintorni. Se dal preside mando dei tipi come Vitti Paolo, finisce col dirmi che non so tenere la disciplina: sicuro.
Queste considerazioni amare, però, ai miei le dico blandamente, quasi con ironia. Sono diventata maestra dell’ironia, inizio su me stessa, i miei capelli che porto cortissimi perché cadono e sono grassi, il mio naso lungo, la mia minuscola statura, le cicatrici che l’acne giovanile mi ha lasciato scritte in faccia.
Ho anche i denti storti sul davanti, a questo si potrebbe ovviare.
Stasera sono triste e godo nell’autolesionismo. Ho continuamente davanti agli occhi il modo sicuro di comportarsi delle ragazze belle, quando salgono su un treno affollato chiedono: <C’è un posto?> e subito trovano un giovanotto che mette la valigia sulla reticella e un altro che si alza perché è giusto fare una gentilezza a quella bella ragazza.

20 dicembre

È quasi Natale e sto tornando a casa per le vacanze, ho comprato un golfino di lana morbida alla mamma, una gran bottiglia di colonia a papà, un foulard di seta a mia sorella e una bambola bionda e bella alla nipotina. Adesso mi sembrano regali sciocchi, non ho avuto neanche un filo di fantasia, ho perfino dimenticato di prendere la carta colorata per impacchettarli in modo un po’ grazioso e così mi sto servendo del rotolo che uso per foderare i libri, a fiorellini gialli e striscette blu.
I regali di Natale mi irritano, devo farli per forza, tutti se li aspettano. Non mi piace niente di quello che si fa per forza.
Il medico mi ha ordinato i tranquillanti, devo prenderne uno ogni sera prima di andare a letto. Dice che sono nervosa, ha ragione. A scuola spesso urlo con gli alunni. Dio, come sono giovane, perché devo essere così brutta, bassa, poco femminile? Quando leggo una rivista qualunque, i miei occhi sono calamitati dalla pubblicità che promette un bel seno, una bella pelle, la rinoplastica per il naso. <Ragazzi, basta adesso, la ricreazione è finita>.
Perché certune hanno tutto e certe altre non hanno niente?
<La consecutio temporum in latino…> come ho dormito bene col primo tranquillante, finalmente ho dormito.
<Il significato della pena nel Purgatorio di Dante…>, chissà, forse dormirei dolcemente se i tranquillanti li prendessi tutti in una volta.
22 dicembre
Il treno è affollato e sto nel corridoio, c’è gente anche nei gabinetti. È quasi sera, guardo la campagna umida che scorre nella nebbia, grigio e verde spento, grigio e verde spento. Ho comprato, in tre farmacie diverse, tre flaconi di tranquillanti, quarantacinque pillole, me li hanno dati senza pensarci su due volte. Sollevo alternativamente un piede, poi l’altro nell’illusione di riposarmi, mi guardo attorno, un militare mi fissa in modo torpido, è chiaro che non mi vede, nessun uomo mi ha mai vista, nemmeno le donne mi prestano attenzione, anche il preside quando ha i nervi rimprovera me perché sono quella che tace subito, non disputa, non è abile a trovare giustificazioni.
È tremendo essere soli in mezzo a tutti gli altri. Sotto la pelle sottile della mia borsa firmata sento la forma delle scatole di tranquillanti. Lo farò il 26, prima lascio passare Natale perché la nipotina potrebbe piangere e anche i miei genitori, poveracci.
All’improvviso mi muovo, <Permesso, permesso…>.
<Ma dove va quella?>.
<Permesso, permesso…>.
Incomincio dal primo scompartimento: <C’è un posto?>.
<Tutto occupato>.
Passo avanti, <Permesso, permesso, c’è un posto?>.
Se fossi stata una bella ragazza quel giovanotto che fa finta di dormire si sarebbe alzato. <C’è un posto?>.
<No, è tutto occupato>.
<Permesso, permesso, c’è un posto?>.
E all’improvviso una suorina mi guarda. Per la prima volta, finalmente, una che mi guarda. E mi sorride. C’è tutta la pace in quel sorriso. Guarda me, sorride a me. È seduta accanto a un’altra suora vecchia, un donnone che occupa un posto e mezzo e dorme ronfando. Tutte le luci sono accese sul mio viso e sul suo: è bella. Stringo fortemente la borsa con le scatole dei tranquillanti, li prenderò con una bottiglia di spumante alla malvasia: <C’è un posto?> ripeto con voce fioca. La suorina si alza: <Le cedo il mio posto, signorina> dice serenamente, <grazie> rispondo. Il suicidio va bene, ma al momento sono esausta e mi lascio cadere contro lo schienale imbottito accanto al donnone, chiudo gli occhi.
Non ho mai potuto soffrire le suore e quando mi sveglio il donnone mi sta strizzando tanto che mi manca il fiato. Lei è in corridoio, appesa al finestrino, con la fronte sulle dita intrecciate, il velo si è un pochino spostato e anche se i capelli sono quasi rapati mi accorgo che è pure bionda, di un colore radioso, che non si dovrebbe nascondere, almeno dal mio punto di vista. Mi alzo e la raggiungo:<Sorella…>, <Che c’è,signorina?> gli occhi sono di un azzurro da nordica, <sorella, la ringrazio>, ha un modo, questa, di guardarmi come se avesse capito qualcosa di me, quello che voglio fare>, <Si vada a riposare> aggiungo, <si sieda un poco anche lei, è stanca>.
Mi interrompo: è la prima volta che mi accorgo della stanchezza degli altri. <Facciamo un poco per uno> insisto. La suorina mi continua a fissare con gli occhi assonnati di ragazza giovane, poi con semplicità mi dice <Grazie> e va a sedersi, il donnone si sveglia e apre la sua borsa nera, piglia una mantella a uncinetto e la mette in grembo alla suorina, <sei ghiacciata>, dice.
Già: il riscaldamento non funziona e le suore non sono tutte cattive. Sbalordita, guardo la scena inconsueta.
Mi giro e abbasso il vetro, entra una zaffata d’aria gelida, è notte. Il treno sta per fermarsi a una stazione secondaria.
<Ma che fa, vuole farci venire una polmonite?> è una vecchia striminzita che protesta, ma io le sorrido e, con una mossa veloce, lancio fuori le tre scatole di tranquillanti.
<Lo sa che non si buttano oggetti dal finestrino?>, continua lei, <Ma se il treno è fermo> dice sgarbatamente un tipo alto e con la barba. Sorrido anche a lui e dopo un poco ci mettiamo a chiacchierare tutti insieme e mangio anche il pane e cotoletta che mi offre la vecchierella. Meno male perché, pensando al suicidio, non m’ero portata niente e schiattavo di fame.
Mi accorgo che è semplice volere bene alla gente e ascoltarla.
Stasera ho incontrato gli altri  e per la prima volta in vita mia non mi sento sola.
Alla prossima stazione scenderò dal treno e aspetterò la coincidenza per il paesino, mi comprerò un’arancina calda, anzi due, di riso croccante pieno di ragù di carne, come sanno fare a Messina, una rivista o anche due, una bibita frizzante dolce. Sono bassa e brutta come prima, ma mi sento una piccola candela accesa dentro. Non mi era mai capitato di provare questa sensazione di gioia. Grazie, Dio.
Ma cosa mi è successo, mi metto pure a pregare, adesso. Da quanto tempo non pregavo.
<Scusami>, mi accorgo di mormorare, così, come si chiede scusa a un amico. E mi sento in pace.

Domenica Luise

Disegno di Domenica Luise

Il prediletto

Lo chiamavano Chicco anche se aveva compiuto vent’anni, il padre poliziotto era morto in una sparatoria colpito da una pallottola scappata a uno dei rapinatori in fuga prima che egli nascesse. Crebbe accudito dalla mamma derelitta e dalle due sorelle maggiori ancora ragazzine.
Fu un bambino obeso, un adolescente foruncoloso e ancora obeso, sempre col mal di testa e bisognoso di riposo, un giovanotto a caccia di donne, che di lui non volevano saperne sia per l’aspetto fisico sia per il carattere tendente alla lagna perpetua.
“Ma dove trovo un lavoro? C’è crisi, c’è crisi”.
Intanto si era letteralmente comprato il diploma di ragioniere, anzi glielo avevano comprato la mamma sempre derelitta con la pensione e le due sorelle coi proventi di servette in nero presso le famiglie facoltose dei due medici paesani. In realtà Chicco sapeva contare a fatica con l’aiuto della calcolatrice, stava sempre sdraiato sul letto coi fumetti in mano e la musica nelle orecchie, faceva collezione di lattine di birra e di Barbie agghindate ognuna con abiti diversi. Aveva anche provato a frequentare un corso di yoga abbandonandolo  dopo una settimana, a suonare la chitarra desistendo dopo tre giorni e a giocare a tennis rinunciando dopo mezz’ora malgrado l’istruttrice fosse una bionda snella soda con le gambe nude.
Così gli venne la depressione psicofisiologica e passava il tempo sgranocchiando pacchetti di patatine fritte negli intervalli fra un pasto e l’altro.
La mamma sempre più derelitta e le due sorelle con le mani ingrossate dai lavori domestici propri ed altrui, tennero riunione segretissima strizzandosi nel bagno-sgabuzzino dove entravano a stento pur essendo belle magre tutte e tre. Chicco, invece, aveva il bagno buono collegato alla propria stanza, che era l’ex salone, le tre donne dormivano insieme nel letto matrimoniale e ci stavano pure larghe.
<Chicco è triste> disse la mamma, <ha bisogno di un lavoro adatto a lui>.
<Ma ha sempre mal di testa e la pressione bassa> fece la sorella n° 1.
<Forse possiamo fargli avere la pensione di invalidità> rispose la sorella n° 2, <oppure potrebbe occuparsi dei figli della mia signora, ha due maschietti piccoli, gemelli, l’anno prossimo vanno in prima elementare e cerca un maestro privato>, aggiunse con la fronte aggrottata per lo sforzo di pensare.
Così Chicco divenne maestro privato per un giorno e i due bambini, che già sapevano leggere, scrivere e ballare sui piedi altrui, lo decorarono coi pennarelli e lo fecero urlare come un tenore nell’acuto straziante prima del decesso.
Nemmeno l’insegnamento faceva per lui, restava la pensione di invalidità, ma dissero che era grasso, sì, non particolarmente obeso, le analisi erano buone, doveva solo mangiare di meno per dimagrire quei venti o venticinque chili di troppo. E perfino il medico, datore di lavoro in nero alla sorella n° 2, si strinse nelle spalle con grande atteggiamento di dolore affermando che “stando così le cose, non poteva fare nulla nemmeno lui”.
La mamma derelitta, allora, si presentò presso il suo studio, aspettò per un’ora e mezza il proprio turno di visita e, quando entrò, in lacrime vere e mani quasi giunte, gli chiese se non conoscesse un politico, un portaborse, un galoppino qualsiasi che potesse aiutare quel figlio sfortunato, così bravo, buono, preparato e diplomato. No, il computer non sapeva usarlo, era negato. No, le pulizie non erano cosa per lui. I conti…sì, era ragioniere, poteva forse assumerlo nello studio?
Il medico rispose che era già fornito né sarebbe stato giusto licenziare senza motivo un padre di famiglia.
E non conosceva qualcun altro?
No, erano tutti riforniti.
Ne parlava come se gli impiegati fossero derrate alimentari e in quel preciso momento decise di mandare via la servetta in nero, sorella imprudente per quanto grande lavoratrice fidata.
Stessa identica scena presso l’altro medico, mamma derelitta, lacrime ancora più disperate, mani ancora più serrate, medico più irrigidito oltre che sbalordito da tanta faccia tosta.
Le due sorelle furono liquidate con tante lodi e la scusa della crisi economica. Restarono tutti e tre con la pensioncina di mamma, infine le ragazze riuscirono a trovare un altro lavoro sempre in nero, ognuna presso una vecchia bisognosa di assistenza, ma faticavano il doppio guadagnando la metà.
In quanto al figlio e fratello prediletto continuò a riposarsi, collezionare lattine di birra e spogliare e rivestire Barbie in attesa che una brava ragazza stipendiata apprezzasse tutti i suoi meriti, lo sposasse, se ne prendesse cura e lo rendesse padre felice di nuovi prediletti.

Domenica Luise

 

La chiave di violino

angioletta che suona la tromba

Una dimensione avatar, ma spirituale, dove
io sono io dentro me
multicolore. E inizio il trillo
strano bello non bello abissale
in precipizi su e giù. Alata e cornuta
dal riso al ghigno, comunque
a sprazzi macchie guizzi agonie
e sempre rivissuta. Amor dolore gioco
pensiero cuore e respiro
terra acqua fuoco e
prato mare astri, la metafora
è più concreta della realtà, così
esalo il canto della sirena sola
nel sole fra i soli e i soli.

Domenica Luise

Elaborazione grafica di Domenica Luise su un proprio disegno