La prima notte di nozze

Ho appena il tempo di mettere la chiave nella serratura e di girarla per una volta nella toppa che la porta si apre dall’interno e mia moglie mi abbraccia come non mi ha mai abbracciato e mi bacia così a lungo che mi manca il fiato perché ho un poco di raffreddore e il naso è tappato. Il mio desiderio di lei si accende subito, allora la stringo, Dio mio, è possibile? Che da oggi tutto cambi ed Eva mi voglio bene pure lei, che mi ami, è possibile, lei che non mi ha mai baciato per prima?
<Ma che fate voi due>, la voce civettuola di una donna, <volete un poco di granturco?>.
<Come?> non afferro la battuta. Dietro di lei vedo venire nell’ingresso un giovanotto, Eva si stringe ancora a me, adesso è arrossita come se quei due l’avessero colta in flagrante. Ha solo recitato! Mia moglie ha, ancora una volta, recitato per esibirsi davanti a questi che io non conosco nemmeno. Chi sono?
<Sembrate proprio due colombi>, la solita voce petulante della donna, ma è contemporaneamente bonaria. Ha il viso tondetto, nascosto in parte da un gran paio di occhiali da vista e in parte da una frangia troppo lunga.
<Nicola, questi sono Franco Risi e Natalia, eravamo compagni di scuola. Ti ricordi, te ne ho parlato… di tutti e due. Li ho incontrati stamattina al supermercato, sono stati trasferiti qui vicino, Natalia, come hai detto che si chiama il paese dove abitate adesso? Non è meraviglioso? Allora li ho invitati a pranzo. Con Franco, una volta, sono anche stata fidanzata, ti ricordi che te ne ho parlato quando ci conoscemmo e tu eri un poco geloso…che sciocco> come può essere tanto disinvolta, come può guardarmi con occhi pieni d’amore, forse vorrebbe guardare lui con uno sguardo così.
Quell’uomo, intanto, ridacchia: <Eri più tu innamorata di me, eri tu che mi cercavi, bella mia> e ridacchiando ci sediamo in salotto e ci beviamo un aperitivo, io voglio un analcolico perché altrimenti mi vengono i bruciori di stomaco, mia moglie mi ha sempre pigliato in giro per questo, <ometto deboluccio> ripete, ma oggi non dice le solite cose, anzi carica gli occhi di un sorriso insopportabile, tanto è bello, <Vuoi un cubetto di ghiaccio o è abbastanza freddo?> non sento né se è freddo né che sapore ha, comunque dico che va bene così.
Eva continua a sorridere e a dire spiritosaggini, non sapevo che fosse tanto spiritosa, cerco di assecondarla perché ho paura che poi me lo rinfacci.
Franco Risi: ne fu innamoratissima e io lo sapevo.
Avevo fatto una specie di malattia per lei, mi piaceva da soffrire, un amico mi aveva detto che tutto quel desiderio, se appena l’avessi avuta, sarebbe subito finito, non è vero: l’ho sposata e continuo a desiderarla più di prima. Ma Eva subisce il mio amore, lo so, è solo il suo corpo che mi dà, l’anima mi è totalmente negata.
Mi ha sposato. L’avevo fatta pedinare, sapevo che era fidanzata e aspettavo solo che rompesse per farmi avanti. Ogni sera l’investigatore privato mi diceva tutto, dove si erano incontrati, quanto tempo erano stati insieme. Una volta gli chiesi d’impulso se li aveva visti baciarsi: ora capisco di essermi reso ridicolo davanti a quell’uomo.
Quando mi disse che avevano rotto il fidanzamento, esultai. Se una donna ha una delusione d’amore è facile che subito dopo dica di sì a un altro, perché è sola e triste, per un senso di rivalsa, per paura di restare zitella, le donne hanno sempre paura di restare zitelle anche se questa parola, oramai, non usa più.
Io, poi, ero un gran bel giovane, allora, adesso mi sono un poco appesantito e il fegato non mi funziona, ma allora ero magro e biondissimo, alto, con un volto scavato, forse era stato quel mio logorante desiderio a scavarmi così.
Ricordo il mio pensiero quando la vidi entrare in chiesa al braccio di suo padre: “Ti ho acchiappata, finalmente”.
Anche quel giorno di nozze Eva fece un’interpretazione perfetta. Fu una sposa con improvvisi sorrisi e improvvise commozioni, io le credetti, allora, e gustai il sapore indimenticabile della gioia.
Ma la sera, all’albergo, mi trovai solo il suo corpo tra le braccia e la notte, quando credeva che io dormissi, la sentii piangere.
<Che hai, stai poco bene?> nella voce di mia moglie c’è una sfumatura che sembra autentica di ansia. Mi riscuoto a fatica.
<No> mormoro infastidito che se ne sia accorta. Poi cerco di sorridere e di essere allegro, è già l’ora di pranzo, bisognerà anche mangiare, tutti sono normali, tranquilli, almeno lo sembrano.
Eva è sempre stata una padrona di casa perfetta…come una macchina. Cerco di distrarmi dal pensiero molesto, già, una macchina. Ha voluto che i nostri due figli andassero in un collegio svizzero, non ce n’era alcuna necessità. Vengono a casa solo per le vacanze, se mi detesta perché sembra che lo faccia apposta a restare sola con me? Una moglie macchina, una madre macchina, ma l’anima dov’è? Ho voluto prendermi ciò che non era mio, questa è la verità.
<Senti, “amore mio”> dice quel Franco a mia moglie, <me ne dai un altro po’? Natalia non me la fa mai così bene la pasta al forno. Natalia, fatti spiegare come si fa> mi giro appena in tempo per vedere sul volto di quella Natalia passare una smorfia di dolore subito dominata.
<E tu non mangiare troppa pasta, Natalia> continua lui con aria ineffabile.
<No, no> mormora lei urtando con la forchetta nel piatto, forse ha appetito, poverina. All’improvviso mi sembra vinta, soggiogata, spenta.
<Eva, ma come fai a restare sempre sottile, per te dieci anni non sono passati. Ti ricordi? Ti abbiamo anche eletta miss alla festa del liceo. E tu c’eri, Natalia? Ah, sì, c’eri. E mi venivi dietro> a sentir lui, pare che tutte le donne del mondo gli andassero dietro.
<Dieci anni non sono poi un’eternità> mormoro con la bocca piena, la mia bocca è piena perché non mi riesce di mandare giù il boccone. <Già> dice quel Franco, <dieci anni non sono un’eternità, eppure quante cose sono cambiate> e guarda mia moglie con tale espressione che riesco a stento a trattenere il desiderio di sputargli in faccia il boccone che non mi riesce di inghiottire.
Eva si alza subito e va in cucina, lui la segue. Non gli vado dietro anch’io perché, semplicemente, ho la sensazione di essere paralizzato e non potrei alzarmi dalla sedia. Allora Natalia mi guarda, si toglie gli occhiali e mi affonda in faccia due occhi celestini, non belli, infinitamente tristi.
<Nemmeno voi avete bambini?> mi chiede con voce a stento udibile, ma non ho il tempo di rispondere perché quel Franco e mia moglie escono dalla cucina, lei avanti e lui dietro, tutti e due scarlatti, specialmente lei. La quale, adesso, sembra avere perduto tutto lo spirito, il pranzo finisce stancamente, io non mi sforzo nemmeno più di parlare, pigliamo il caffè, loro dicono che è buono, chiedono la marca, proclamano che oggi pomeriggio ne compreranno un barattolo, tutte parole banali, che non riescono a coprire l’imbarazzo. Appena possibile se ne vanno.
Mentre Eva mette a posto la cucina, io rimango sulla poltrona con la testa rovesciata sullo schienale e gli occhi chiusi. Mi viene dal di dentro un impetuoso desiderio di morte e insieme una sete d’amore vero, di comprensione. Come posso continuare a vivere così.
Mi sento soffocare e alzo lentamente la mano per sciogliere il nodo della cravatta, <Nicola, che hai, stai male?> vedo mia moglie chinata su di me, la sua voce, stavolta, è ansiosa sul serio, ci siamo solo noi due in casa, non è più necessario fingere. La guardo occhi negli occhi, allora lei mi abbraccia , anche questo è un abbraccio vero. Si siede nella mia stessa poltrona e mi si accuccia sul petto come una bambina stanca. Sono felice da impazzire.
Dopo un poco mi accorgo che sta piangendo, allora, con un dito, le tocco quelle lacrime, <Cos’è successo, Eva?> le domando, ma non provo curiosità, solo dolcezza e gratitudine.
Lei tira su col naso e si passa una mano sugli occhi, <Franco mi ha fatto capire…anzi mi ha chiesto se volevo, se volevo diventare la sua…>.
<Stai zitta> mormoro, ma lei continua: <Ho sprecato tutto questo tempo ad amarlo, quanto ti ho fatto soffrire>.
<Stai zitta, Eva> ripeto.
<Mi puoi perdonare?> insiste, <non ho nemmeno voluto che i bambini rimanessero a casa perché erano figli tuoi. L’ho fatto lucidamente. E tu sei sempre stato così buono>.
<Io, lo sai, io ti amo> rispondo con voce alterata. E finalmente l’abbraccio anch’io e sento di piangere, ma non me ne vergogno.
<Stasera sarà la prima notte di nozze> le ripeto dolcemente, come se non sapessi dirle altro, la nostra vera, prima notte di nozze. Finalmente, Eva! Le tue lacrime mi appartengono, la tua anima mi si dona. Finalmente.

Domenica Luise

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Il dio denaro

Rosa rosa intenso

a lettera minuscola, ma sempre buono
di carta sporca. Davanti a lui
gli esseri umani si inginocchiano, si compra quasi tutto
la casa, i terreni
la villeggiatura
la moglie
l’amante, talvolta
la salute. La gioia
no.

Per causa sua le esalazioni di gas delle fabbriche
ci impediscono di respirare, bisogna
produrre e vendere
vendere e produrre. E i pesci
galleggiano morti
e il mare è carico di detriti, in suo nome
padre nostro
cresce come il calcare un desiderio di divertirsi a tutti i costi
per sfuggire a se stessi: si fatica troppo e si pensa meno
il marito sorride poco alla moglie e la moglie al marito, i vecchi
ai margini delle vite proficue, inutilizzati, se
avevo tempo stavo con mio figlio
e con la fidanzata del figlio e col cane, ma io
non ho tempo, come posso, qualche volta
invitare a pranzo mio padre vedovo?

Così
l’uomo sceglie gli amici che gli servono
e non quelli che gli sono simpatici, si fa nuovi parenti
in cambio del sangue e dei ricordi.

È la prostituzione globale nella crisi planetaria
quando si fa propaganda al tale o talaltro partito politico non
perché si è convinti, ma
per avere un posto più grosso con uno stipendio più alto
e farsi belli davanti ai parenti avidi
ai conoscenti invidiosi
al proprio fratello che, poveraccio, guadagna poco
e ha una moglie che non lavora di nuovo incinta. Intanto
è tornata la primavera. Imperterrita,
lei.

Domenica Luise

Fotografia di Domenica Luise

Un fischio sotto la finestra

 Questi alberi…non so che alberi siano, ma hanno un profumo snervante, che mi dà nausea. O forse non saranno gli alberi. È da due mesi che non sopporto il caffè  e nemmeno di fumare, anche la mamma, quando era incinta di me, non sopportava il caffè. Lei non aveva mai fumato, quindi non poteva capire la differenza. Signore! Non avrò un figlio dentro, sarebbe comico, con una volta, zaffete, il pupo, sono stata una scema. E mia cugina Nadia ci ha impiegato cinque anni di matrimonio e un capitale di visite. Rido aspramente, qualcuno si gira a guardarmi, sotto gli alberi c’è un negozio dove vendono corredo, abiti da sposa (Signore! Abiti da sposa) e articoli per bambini. Faccio le corna dietro la borsa a tracolla e dico la filastrocca contro il malocchio che mi ha insegnato la nonna. Stai a vedere che divento superstiziosa, anzi lo sono già. Io me lo sento questo figlio in corpo, sono tutta diversa da prima. Molto meno limpida, anche.
La scuola sta finendo, ho avuto un calo in tutte le materie, per forza, il professore di matematica oggi mi ha detto: <Ma perché, Velli, non hai studiato, perché non dici una parola?> e io zitta, tanto cosa me ne importava ormai? Lui mi scrutava e ho sentito che impallidivo e mi veniva la nausea, l’ho solo guardato, mi ha detto subito: <Vai al posto>, ma l’ha detto con una faccia, come se capisse, e sarebbe terribile se avesse capito. I compagni hanno fatto un innaturale silenzio mentre incespicavo verso il banco, <Ti senti poco bene?> ha insistito il professore, ed era così buona la sua voce che io ho pianto con la testa piegata sul braccio, <Vuoi un caffè?> proprio il caffè mi proponeva. Ho fatto cenno di no, <Vuoi uscire?> ho continuato a fare cenno di no e gli sono stata grata perché non mi ha detto più niente e ha interrogato quell’antipatica di Pierina, che è sempre preparatissima e sa tutto, brutta com’è certamente figli non ne fa.
Mi accorgo di essere impietosa mentre sono io ad avere tanto bisogno di pietà. Continuo a fissare la delicatissima copertina gialla con tanti fiori lavorati a uncinetto, io non so lavorare a uncinetto, niente so fare. Sono un peso.
Ma perché lui non viene? Poco fa gli ho telefonato e gliel’ho detto, meglio senza guardarlo in faccia: <Ho paura di aspettare un figlio, vieni al solito posto alle quattro>, ora sono le quattro e mezzo e non arriva ancora né oso richiamarlo. Quando lo sapranno i miei mi diserederanno, figurarsi, la brillante figlioletta messa incinta dal meccanico dell’angolo, quello che qualche volta dà un’occhiata alla fuoriserie di papà e si piglia la mancia dicendo: <Grazie, signore>.
Oh, finalmente è arrivato. Sto per dire: <Sei in ritardo>, ma mi fermo a tempo. Nelle mie condizioni non mi posso permettere di farlo arrabbiare. Mi tormento le dita e, per darmi un contegno, incomincio a stuzzicare l’anello antico che ho al dito, me l’ha regalato per il compleanno la nonna, è una perla vera, grossa, dai riflessi rosa, circondata da diamanti tagliati a rosetta. Giulio mi sembra che abbia un’aria strana, non è arrabbiato, anzi pare  contento, ma è contento per conto suo, io non c’entro nella sua soddisfazione.
<Capirai che fortuna se aspetti un figlio, così devono farci sposare per forza,>, ma lo dice in un modo che mi dà malessere, e poi non mi ha baciato la mano come faceva sempre sotto questi alberi nei momenti in cui nessuno ci vedeva. Non ha dolcezza nello sguardo. Io non ho ancora detto una parola.
Incominciamo a camminare, mi prende sottobraccio, ma non al solito modo. Una volta un medico disse che ero ipersensibile, sì, passiamo davanti a una pasticceria e non mi offre il gelato, eppure lo sa bene che potrebbe venirmi una voglia come alle donne incinte. Rallento il passo, ma lui procede e allora lo seguo.
<Avremo bisogno di molti soldi subito> dice Giulio, <dovremo fare un bel matrimonio, un bel viaggio di nozze. Tuo padre ci può dare i soldi, vero? Così nessuno sa niente che sei incinta>.
“E papà ti assumerebbe subito nella nostra industria” penso io con una lucidità  arida che mi stupisce, “e saresti a posto, con una bella strada liscia da percorrere e tutte le facilitazioni, di questi tempi, poi”, Giulio non può immaginare quello che mi gira per testa e invece solo troppo tardi io ho capito di essere rimasta incastrata in un gioco ignobile.
Giulio guarda avidamente il mio anello, la grossa perla dai riflessi rosa, mi accarezza la mano, ma la carezza è per la perla, non per me.
<Sai, ho scherzato, non è mica vero che temevo di aspettare un figlio> dico allora e mi riesce benissimo di ridere, voglio vedere cosa fa adesso, lui si ferma e poi si mette a urlare, in mezzo alla strada, come un cafone, dice tante cose, che l’ho preso in giro, che sono una bugiarda, che non mi ha mai amata, non posso sopportare l’umiliazione, il dolore e fuggo via mentre intorno a lui si riunisce un mucchietto di gente, non deve vedermi nessuno, voglio sparire.

È stata una cosa tristissima, penso. Sono affacciata alla finestra della mia camera e guardo il giardino sotto di me, in fondo c’è un tramonto tutto giallo, il mio colore preferito. Non aspettavo nessun bambino, tutte paure inutili, per fortuna o per grazia divina, nel caso me lo sarei tenuto e cresciuto da sola. E non mi hanno nemmeno bocciata anche se non ho preso la solita borsa di studio. Anche questa è stata una bella fortuna. Ho imparato una lezione molto amara. Cercavo l’amore fuori di casa mia, dove mi sentivo soffocare e non sapevo di averlo tanto vicino. Qualcuno mi fischia dal basso, è il mio papà, prima pensavo continuamente che mi aveva avuta nella vecchiaia e perciò non mi capiva affatto, ora provo solo una grande tenerezza per i suoi pochi capelli bianchi. La mamma si fa il cachet biondo cenere, anche il cachet della mamma mi mette tanta tenerezza. <Eccomi, vengo> grido con gioia e il fischio si interrompe. Mi attendono.

Domenica Luise

L’abbagliamento

Una farfallina bianca

La poesia di terra e di sole
acceca una farfalla bianca ballerina
che porta l’acqua come le donne antiche
faticosamente sulla testa, nelle campagne
all’alba o al tramonto, non so.

È povera, ha soltanto il volo
fra i fichidindia
e d’altro non si ricorda, qui il dolore
concima l’amore giocando
stranamente, così
il respiro sbatte le stoppie
dove dico quest’incarnazione che io sono
e mi spargo.

Domenica Luise

(Quadro a olio di Espedito Luise)

Avviso urgente, se fate clic su questo link:

http://radioalma.eu/brussellando/?p=1190

troverete l’intervista a Cristina Bove, che parla del suo ultimo libro di poesie: Mi hanno detto di Ofelia.
Qui è la donna morta protagonista più che Amleto, è in lei il potere della poesia che si lascia in testamento attraverso la vita.
Tutti vogliamo manifestare a Cristina, ancora una volta, ammirazione per la sua poesia e affetto grande per la persona con cui scambiamo preziosi momenti di ispirazione.

Domenica Luise

Il marito contadino

 

“E dire che mi era sembrato sublime sposarlo, la favola di Cenerentola alla rovescia” penso guardando mio marito che rosicchia voluttuosamente l’osso del pollo e poi sputa nel piatto. Io sto ancora tentando, inutilmente, di inghiottire la pasta. <Mangia, Bebè> dice lui, <a me le donne piacciono coi fianchi tondi e due belle montagnole sul davanti>, detesto essere chiamata Bebè, detesto essere classificata per le mie protuberanze, detesto ingrassare.
<Non ho fame, oggi> mormoro allontanando il piatto, adesso mio marito assume un’espressione triste, e a me fa pena vederlo triste: <Cosa c’è, piccola, ti ho forse dato un dispiacere…lo sai, è meglio che me lo dici, se io ti do fastidio, così non lo faccio più. Se non sei contenta di qualcosa…>, non lo lascio finire, mi alzo e vado ad abbracciarlo, ma mentre lo bacio mi accorgo che anche stasera si è mangiato la cipolla, quella lunga e dolce, che gli piace tanto, no, la cipolla proprio non la sopporto.
Eppure non ho il coraggio di dirgli nulla, <<Andiamo a letto> dice lui, è da sei mesi che siamo sposati e abbiamo passato più tempo a letto che alzati. Così andiamo a letto, suonano alla porta, <Non apriamo> ordina lui, <questi seccatori>. Mi viene voglia di dirgli che “i seccatori” potrebbero essere papà e mamma con mio fratello, ma poi non lo contraddico. “Lo sto viziando, è uno zoticone e io lo sto pure viziando” penso, poi non penso più a niente.
<Ricordati della tua laurea, della tua intelligenza. Come potrai andare d’accordo con un marito contadino?>, questo era mio padre.
<Tu sei pazza. Sposare quel cafone, quella specie di scimmia pelosa, che schifo>, questa, più alterata, era la mamma.
<Voglio solo che tu sia sicura di ciò che stai per fare, se lo ami sposalo pure, ma sai bene che non sarà facile andare d’accordo>, questo, logico e razionale, era mio fratello.
<E andrai a vivere sempre sempre nelle campagne?>, questa era la mia sorellina più piccola, nata a sorpresa cinque anni fa, il jolly di casa, viziatissima e deliziosa. Era anche la più efficace perché l’idea di andare a vivere “sempre sempre” nelle campagne mi allettava ben poco.
Comunque eccomi qua. La “scimmia pelosa” russa al mio fianco e così appena lui si addormenta io mi sveglio.
Fa un rumore forte, regolare, implacabile.
Devo ammettere che si sforza anche di essere delicato: ha piantato un bel tappeto di zinnie nella campagna e stanno già venendo su le piantine con lo stelo fragilissimo, dice che “così a me non mancheranno i fiori”. Ha anche cercato di insegnarmi come mettere nella terra le talee di geranio per i balconi e, poiché è una faccenda facile, mi ci sono divertita un sacco.
Ci sono anche delle piante grasse, che a me sembrano molto banali, ma a lui piacciono e allora le sopporto.
Mio marito non avrebbe voluto che io lavorassi dopo il matrimonio, ma l’ho convinto che insegnare italiano e latino in un liceo scientifico mi avrebbe impegnata quasi sempre solo il mattino, senza contare le vacanze, gli scioperi e le passeggiate scolastiche. <Tanto per mia soddisfazione> avevo risposto alla sua battuta orgogliosa: <Voglio mantenerti io>.
Adesso l’insegnamento è diventato tutta la mia vita, avevano tutti ragione, anche Mirellina.
La mattina non mi sembra vero saltare sulla mia punto rossa e arrivare a scuola, una botta di vita. Quando ho il giorno libero soffro, non amo la mia casa, è brutta. Non sopporto più niente, però provo subito un senso di rimorso se mio marito si accorge dei miei stati d’animo, ma cosa deve capire lui, fa anche sbagli di grammatica quando parla e dice sempre: “se sarei”.
Nella mia casa c’è il soffitto di travi e le pareti a calce. Il caminetto, dove Guglielmo, al mattino, accende sempre un gran fuoco, ci riempie di cenere, non è che non mi piaccia: devo ammettere, a denti stretti, che il caminetto è bello, però non è pratico. Ecco, non è pratico.
Ormai è primavera inoltrata, tra poco più di un mese la scuola finirà. A Guglielmo voglio bene, ma come sarei contenta se mangiasse un po’ meno rumorosamente. Il brodo gli piace eppure io non glielo faccio mai perché succhia dal cucchiaio e anche dal piatto, mi dà fastidio.
E i suoi amici: perché, quando entro io, mi guardano e tacciono. Con lui hanno sempre tante cose da raccontare, di caccia, di conigli, di fiumi, di grandinate e di raccolti perduti, li sento dall’altra stanza. Mi arrabbio, allora, non so perché mi arrabbio.
Devo preparare una lezione di letteratura italiana per domani, sul Leopardi. Io sono un’appassionata del Leopardi. Il poeta della vita! Almeno per me. Ma non riesco a trovare il libro che mi occorre, incomincio a irritarmi, anche perché non ricordo alcune date e voglio rivederle. Infatti, il libro lo trovo sul comodino di mio marito. “Adesso legge pure i miei libri” penso sarcasticamente, “Dio mio, si sente inferiore e cerca di imparare, povero piccolo”, apro il volume, le prime pagine sono tutte sottolineate con una matita copiativa e ci sono parecchi punti interrogativi qua e là. Prendo il libro fra le mani e piango d’amore.
Poi vado a innaffiare le piantine del balcone  e allora, sui cactus che mi sembravano tristi e brutti, mi accorgo che sono sbocciati tanti fiorellini rossi.
Mentre sono in balcone, lo vedo tornare dai campi, ha le spalle curve e cammina lentamente, “Dio mio, non credo che sta male”, il pensiero mi dà una scossa al sangue, “e se avesse qualche brutto male e non mi dicesse niente?”, mi pare di soffocare mentre mi precipito ad aprirgli, Guglielmo, adesso, ha rialzato le spalle e mi porge il solito mazzo di fiori campestri quotidiano, lui li raccoglie a casaccio e li mescola per me, sorride.
<Ti ho preparato il bagno caldo> dico io. Come ogni sera, ma il tono è diverso, <sai, sono sbocciati dei fiorellini incantevoli sulle piante grasse>.
<Sì, dovevano sbocciare> mormora lui, <era tempo>.
<Guglielmo…> non mi permetto di abbracciarlo, anche se lo desidero, <Guglielmo, grazie di avermi sposata>.
<Come?> dice mio marito.
<Sì, grazie di avere sopportato una moglie cittadina con laurea>.
<Anche tu hai sopportato un marito contadino che succhia il brodo>.
Misericordia, non pensavo che se ne fosse accorto. <Scusami> mormoro, e lo stringo con tutte le forze che ho, lo bacio sulla barba che punge, <Domani ti faccio il brodo> dico tra un bacio e l’altro, <penso proprio di aspettare un bambino>, aggiungo.
<Era tempo> scherza Guglielmo. Poi mi prende tra le sue braccione e mi porta dentro fino al letto. Mi copre con il plaid, anche se sento caldo lo lascio fare, <Sono molto felice, signora> , mi sussurra sulla bocca, poi se ne va in bagno a lavarsi e lo sento cantare con la sua voce stonata.

Domenica Luise

 

La pulce Pulcina e il ghiro con l’insonnia

Tutte le altre pulci facevano le trapeziste al circo massimo come se niente fosse e lei, invece, non ci riusciva né ce l’avrebbe fatta mai: atonia muscolare e soffriva pure di vertigini.
Allora cercò altre vie di realizzazione e scrisse un libro di poesie che intitolò Identikit del principe azzurro, ma nessun editore lo volle pubblicare, dissero tutti che le poesie non hanno mercato, anzi non le vogliono nemmeno gratis e provasse con le favole.
Pulcina allora scrisse una favola intitolata Come usare il trapano su un puma vivo che corre nella foresta, ma nessun editore la prese in considerazione, dissero che l’argomento era troppo sfruttato ed ogni pulce proletaria era ormai fornita di trapano tecnico ed anche di robot per fare buchi precisi e indolori in casa propria, cioè sull’animale di appartenenza. Piuttosto provasse con un saggio medico trovando un rimedio efficace per quelle pulci sciancate come lei, incapaci di saltare. Allora Pulcina creò delle molle da sistemare sotto le zampe col velcro: funzionavano a pile e partivano pressando un semplice bottone, potevano andare in tutte le direzioni, perfino all’indietro, e mettere in moto CD musicali durante l’uso.
Intanto c’era un ghiro con l’insonnia che, invece di dormire, appunto, come un ghiro, passava la notte giocando al computer. Si incontrarono casualmente a un convegno di pugilato fra canguri e simpatizzarono tanto che Pulcina osò chiedergli di sperimentare su di lui il funzionamento delle molle. Il ghiro tentennò: non era un uomo di coraggio, capace di affrontare pericoli, gli piaceva la buona tavola e un letto comodo dove avere l’insonnia in pace, ma a Pulcina si era affezionato, era tanto educata, chiedeva scusa ogni volta che si sedeva a pranzo sulla sua pelliccia spennacchiata e non beveva mai il suo sangue a garganella oltre il bisogno come facevano le altre pulci, così non seppe dirle di no, anzi gli parve perfino bello fare per lei quel sacrificio di sé. Forse ne era anche un poco innamorato, fatto sta che si attaccò le ventose e partì schizzando oltre i bidoni delle spazzatura, il muretto che delimitava la via Nazionale per Palermo, le piccole stazioni ferroviarie ormai modernizzate, sorpassò a volo perfino un treno merci, alcune case, la chiesa di Villafranca Tirrena e molti alberi di limoni che il prete coltivava lì intorno e i fedeli raccoglievano all’uscita dalla messa. La prima farfalla gialla di primavera lo vide volare così alto che lo prese per una nuova specie di uccello, le rondini appena arrivate dall’Africa si rintanarono nei loro vecchi nidi terrorizzate e il direttore del circo massimo gli sguinzagliò dietro i suoi scagnozzi perché voleva offrirgli un lavoro: gli mancava l’uomo proiettile da sparare col cannone.
Così il ghiro raggiunse la celebrità e alla fine trovò una ghiretta timida, che lo vide sul giornale, petto in fuori, sorriso sexy,  labbra socchiuse, maglione con scollo a V sul petto villoso e se ne innamorò perdutamente. Osò scrivergli un’email, egli le rispose, scambiarono le foto e gli anelli nuziali e vissero tutti felici, contenti e realizzati.

Domenica Luise

Avviso urgente: sul mio blog di poesia religiosa sto pubblicando il mese di maggio che ho scritto alcuni anni fa in onore di Maria, sono trentuno lodi alla Madonna e trentuno testimonianze di vita ricevute direttamente dagli interessati e trascritte con le parole usate da loro stessi. Questo è il link:
http://iltesorosommerso.wordpress.com/

 

Poeti di oggi, infranotturna: Tagli

coppia che balla

pulirò le verdure, farò cuocere il riso

 volgerò il mio sguardo
alla terra, al fornello, alla cucina

 ridurrò in piccoli pezzi
zucchine, porri e fagiolini
sì, piccoli pezzi uguali,
con precisione e metodo

farò attenzione a non tagliarmi
quindi
osserverò la lama del coltello e le mie mani

temo le lame;
soprattutto se ben affilate

ma tu non ci sei più, così
non c’è proprio più nulla da tagliare

INFRANOTTURNA

 

La lirica d’amore puro e nudo, semplice, carnale e spirituale insieme, espressa efficacemente con il minor numero di parole possibili: è quanto trovo nella poesia di infranotturna, a questo indirizzo:

http://infranotturna.wordpress.com/

Visitate il suo blog e rimarrete presi dall’intensità con cui si dice e dice  com’è fatto l’amore tra l’uomo e la donna.

Il modo in cui lei si abbandona e lui, alla fine, si allontana.

In verità il ragazzo talora e spesso fugge da colei che l’ama e ne prende un’altra che lo rassicura con la propria mediocrità: meno intelligente, meno sveglia, anche meno bella. Forse più benestante.

Bisogna tenere i piedi per terra, sono tempi duri, la crisi, le tasse, bisogna sopravvivere.

Invece la donna ama e vive, è nella sua natura incosciente e senza misura abbandonarsi così.

All’innamorata non importa niente se mangia pane e cipolle con lui. Ma poi continua a fare il minestrone, metodicamente, una specie di yoga che aiuti a sopportare quel pensiero. Egli è andato via.

Perché?

La ragazza volge il suo sguardo alla terra, al fornello, alla cucina.

Dall’enormità del cielo dove respirava prima, dal fuoco, dal paradiso.

Tagli. Lame ben affilate d’amore. Non è rimasto più nulla da tagliare, è tutto tritato.

Sembra assurdo essere in grado di esprimersi così fortemente con parole così apparentemente prosaiche.

La poesia diventa sotterranea, battito, femminilità, sangue e respiro, anima soprattutto.

La parola si piega umilmente al sentimento forte e limpido. Nessuna decorazione o figure retoriche. La musicalità resta all’esterno dei versi, soffusa, quasi annientata. È appena un respiro agonizzante.

Bella questa poetessa: dice quello che le donne osano sentire.

Dalla danza inebriata al minestrone: è la vita.

Statuina in gesso colorato di Domenica Luise, rielaborazione grafica di Domenica Luise