Il letargo dell’orsa Concettina

Sposarsi durante un’aurora boreale, tutti gli orsi lo sapevano, portava fortuna. Significava che la coppia sarebbe stata prolifica amandosi per la vita senza tradirsi mai. E così fu.
Concettina e Peppino, nel loro paese di ghiaccio, divennero ben presto un’istituzione. Conservarono atteggiamenti da perfetti fidanzati. Egli non dimenticava mai il compleanno né l’onomastico né l’anniversario di nozze, lei gli preparava i piatti che gli piacevano, per esempio gli spaghettini al miele, le frittelle di miele, il latte col miele per la colazione e pane e miele a merenda. Rispettò, onorò, ospitò e si prese cura della madre paralitica di lui, della sorella nubile, del padre cardiopatico, del fratello disoccupato ed alla fine, quando proprio non ci sperava più, restò incinta come natura vuole e generò un figlio maschio, uno solo, ma bello.
Lo chiamarono Ciccio ed impazzirono per quest’unico frutto del loro amore. Tentarono, per tutta la vita, di avere altri figli, piansero, pregarono, fecero analisi e cure, consultarono tutti i professori della banchisa polare, partirono per l’Europa, l’Asia, le Americhe e l’Africa nera, andarono perfino da un mago, che tentò di estorcere loro denaro con strani riti contro le fatture, ma quei due non erano scemi e se ne tornarono a casa ben felici di avere almeno un pargolo, che crebbe viziatissimo.
I genitori l’avevano fatto che già erano anzianotti, adesso diventavano vecchi del tutto e quello ancora non si era laureato in analisi e cultura della pelliccia orsesca. Perdeva tempo con tutte le scuse: la fidanzata del momento, i suoceri del momento, la banda musicale, il ballo, la pizza, lo spasso del momento. Al futuro non pensava. Infine si invaghì di una dolce fanciulla, una certa Tiramisù, e volle sposarla subito oppure, disse ai genitori attoniti, sarebbero scappati e l’avrebbe messa incinta.
Concettina e Peppino dovettero sorridere e mostrarsi entusiasti, ci fu il matrimonio, i confetti, il velo bianco e la coroncina di zagare, il pranzo tutto a base di miele e di salmone. La ragazza sembrava gradevole ed educata e trasecolò quando Concettina le disse che non era il caso di affrettare tanto il matrimonio con la minaccia che altrimenti avrebbero fatto la scappatella. Giurò che non ne sapeva niente e litigò col marito fresco di giornata, nel senso più vero del termine, seduta stante, e voglio dire proprio seduta al tavolo nuziale, sia pure con un certo atteggiamento mite. Gli disse che era stato bugiardo e Ciccio, miracolo, tacque, arrossì, a momenti chiedeva scusa. Concettina e Peppino tirarono il sospiro di sollievo: il pargolo aveva trovato pane per i suoi denti. Allora Peppino volle stravincere e disse alla giovane sposa che Ciccio intendeva lasciare l’università e mettersi a fare il cantante rock ricostituendo la banda musicale dei quattordici anni per andare ad esibirsi nei bar, < Che lascia lui? > disse la ragazza fulminandolo con uno sguardo inequivocabile e Concettina sentì che gli diceva a bassa voce: < Stasera, questo matrimonio, lo vuoi consumare sì o no? >
Spiazzato, egli allungò zampa per abbracciarla, ma la moglie lo respinse scrollandolo via, < Ti giuro, amore, io scherzavo. > mormorò Ciccio con una vocina flautata che non pareva la sua.
Fu subito chiaro chi era il capo di casa. Ciccio si chiuse in tana a studiare e si laureò a tamburo battente e perfino col massimo dei voti e la pubblicazione della tesi, tanto che il professore lo volle assumere come assistente e Ciccio pigliò, tanto per incominciare, uno stipendio che era il doppio della pensione di suo padre, un modesto insegnante di lettere del professionale.
Tiramisù incominciò a concepire, gestire, generare ed accudire coppie di orsetti gemelli, che divennero la gioia dei nonni. Vivevano felici e contenti.
La disgrazia avvenne dopo cinque anni che i ragazzi si erano sposati e poco prima del letargo. Peppino era andato a pescare gli ultimi salmoni che risalivano la corrente e, nello sporgersi un po’ troppo, cadde nel fiume gelato, prese la polmonite, rimase a letto al caldo, col termometro in bocca, carico di antibiotici e vitamine, ma una notte, mentre Concettina si era appisolata seduta
accanto a lui, egli si trovò dentro i raggi di un’aurora boreale bellissima, voleva chiamarla perché anche lei vedesse, non riuscì a parlare né a stringerle la zampa e si abbandonò. L’indomani mattina non si svegliò più.
Ella fu forte al funerale del marito, com’è d’uso per gli orsi, che non hanno l’abitudine di piangere. I ragazzi e tutti i nipoti erano già in letargo da una quindicina di giorni ed anche l’orsa Concettina, al ritorno dal cimitero, finita la frettolosa cerimonia con i pochi amici semiaddormentati ed il prete che non riusciva a concludere due parole senza dimenticarsi il verbo della frase principale, si preparò per andare a letto.
Tirava vento ed aveva paura delle persiane cigolanti. Dopo il vento cadde e ci fu troppo silenzio. Dopo si mise a piangere perché da sotto la porta si intravedevano i riflessi di un’aurora boreale, che le ricordavano il giorno del matrimonio e tutte le notti nelle quali lei e Peppino ammiravano il cielo nell’intervallo tra un bacio e l’altro. “ Non posso vivere senza di lui “ pensò. Si alzò, prese un sonnifero e mise la loro canzone preferita: “ Inno dell’orso in amore “. Si coricò di nuovo e le venne freddo. Si fece la borsa dell’acqua calda e spense lo stereo. Si scottò una zampa. Rimise la canzone, ma la fece appena iniziare e la tolse ancora. Sentì il bisogno di bere qualcosa, che le desse sollievo, anche se era astemia. Si bruciò la gola con un bicchiere di liquore amaro e forte. Bevve liquore e lacrime. Le venne da vomitare. Andò in bagno, si coricò, si rialzò, le arrivarono i calori per tutto il corpo. Non si dormiva, niente letargo, Fuori il vento aveva ripreso a fischiare con una specie di disperazione. Si alzò, afferrò una piccola valigia, si mise il cappotto col cappuccio e, nella notte, con fiocchi di neve ghiacciata che le entravano negli occhi e in bocca, singhiozzando e gridando il nome di Peppino, dopo una lunga strada fatta quasi alla cieca, bussò come una mendicante alla tana di Ciccio e Tiramisù, e dovette aspettare un bel pezzo prima che qualcuno si svegliasse ed aprisse.
Apparve il nipote piccolo, che sbadigliava e a momenti non riconosceva la nonna. Si svegliò la nuora, che appena seppe della tragedia subito le venne in aiuto con una tenerezza della quale Concettina aveva estremo bisogno. Le preparò la tana degli ospiti, accese un gran fuoco nel caminetto, l’aiutò a spogliarsi e a fare il bagno. Le diede una tisana di valeriana, menta e foglie di arancio amaro, insaporita con tanto miele Le stette vicina ed aspettò che si addormentasse, ma appena la nuora si allontanò Concettina riaprì gli occhi e ricominciò ad agitarsi.
Niente letargo per la vecchia vedova dalla pelliccia scolorita. Niente pace. Prese un’altra pillola di sonnifero e, finalmente, crollò in un incubo dal quale si risvegliò urlando come una pazza mentre Tiramisù, con gli occhi cerchiati dal sonno e nascondendo come poteva gli sbadigli, l’abbracciava e la chiamava.
Concettina si vergognò di dare tanto fastidio e temette che suo figlio avesse un attacco di furia se qualcosa o qualcuno l’avesse disturbato mentre dormiva. Disse, anzi giurò, che si sentiva meglio e che era stato soltanto un brutto sogno. Volle che la nuora tornasse subito nella tana coniugale a riposare e, appena restò sola, accese la luce perché le venne paura del buio e dei raggi di un’altra aurora boreale che si intravedevano dietro i tendaggi della finestra e della brace, che scoppiettava nel caminetto, e del vento e del silenzio e di tutto. Pensò di fare le pulizie primaverili, così si sarebbe stancata e avrebbe dormito, invece non poté dormire e, finite le pulizie, iniziò a lavorare maglioni ai ferri per tutta la famiglia, intanto diceva il rosario e questo le fece bene, fu come un balsamo sulla ferita. Quella piccola luce sempre accesa nella stanza degli ospiti attirò un bell’orso bianco, che soffriva di insonnia. Avrebbe tanto voluto fare quattro chiacchiere con qualcuno della sua razza ancora sveglio. Aveva letto e riletto tutte le sue riviste di computer, aveva navigato su Internet per chattare nei vari siti di orsi insonni, adesso si era stancato di stare da solo e si faceva quattro passi alla ricerca di un amico. Però dormivano tutti della grossa, forse quella lucina era stata soltanto dimenticata. Guardò attraverso le stecche delle persiane e vide una signora bruna, con una pelliccia bianca, seduta accanto al caminetto, che lavorava ai ferri e muoveva dolcemente le labbra come se parlasse fra sé e sé. L’orso rimase con gli occhi spalancati dalla meraviglia e gli unghioni aggrappati al davanzale della finestra. Gran bella donna. Deliziosa scenetta di angelo del focolare, nel senso vero del termine. Bei capelli, bella linea, bella pancia molto pronunciata, bellissimo doppio mento. Osò bussare dolcemente su un vetro, lei sollevò la testa ed egli vide che aveva occhietti scuri, incantevoli e rotondi su due labbra anch’esse nere ed un paio di baffi sontuosi.
L’orsa Concettina, per quella volta, parlò un poco dalla finestra e non le sembrò di intrattenersi con uno sconosciuto.
Fu una storia tutta diversa dall’amore della giovinezza, ma ebbe anch’essa i suoi letarghi fatti insieme ed altre aurore boreali ammirate fra un bacio e l’altro.
Perché l’amore vince sul dolore, la vita sulla morte e la speranza sulla tristezza.

Domenica Luise

 

7 pensieri su “Il letargo dell’orsa Concettina

  1. Quanta fantasia tenuta saldamente a freno dalla ragione! L’orsa Concettina è ammirevole e merita il finale lieto. Ma la parte che mi è piaciuta di più è il cambiamento del figlio per merito della neo-moglie: è proprio così che va…
    Ciao
    franca

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    • Nella coppia c’è sempre un predominante ed è auspicabile che sia quello tra i due più equilibrato. La complicità vicendevole assoluta e priva della più piccola finzione è rarissima tra marito e moglie perché lui si arrabbia scaldandosi subito e lei si lamenta ripetendosi sempre, ma quando il fenomeno avviene è un nuovo eden o banchisa che sia. E c’è sempre una speranza, sia pure con un sapore diverso dai ricordi di prima.

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    • Forse mi riesce meglio animalizzare gli esseri umani, ah, ah, ah. Grazie anche a te di esistere, Iole, e meno male che di quattro figli che hanno avuto i nonni almeno tu ed io gliel’abbiamo fatta e tu mi hai prodotto due bellissimi nipoti, sempre nella speranza veloce dei pronipotini.

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